Livia Sambrotta premio Bancarella 2021 con “Non Salvarmi”

 

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller.
Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

In “Non salvarmi” ho aderito a tutti gli stilemi del genere, pur decidendo in alcuni casi di attualizzarli. Il romanzo è infatti giocato su una suspense crescente, sui colpi di scena legati ai diversi protagonisti e sui twist della storia, tutti elementi congeniali al mistery. Avevo però anche la necessità di scardinare alcuni canoni dell’alta tensione. L’incipit del libro ne è un esempio. Siamo all’aeroporto di Phoenix e la protagonista, Deva Wood, sta per imbarcarsi su un volo diretto a Milano. Attraversa la hall per andare in bagno, e qui viene ripresa per l’ultima volta con le gambe macchiate di sangue. Da quel momento scompare misteriosamente e non salirà mai sul suo aereo. Generalmente il reato in un thriller viene associato all’ignoto e al buio. Qui invece accade tutto il contrario. Ci troviamo in un luogo di massima sicurezza in pieno giorno, sorvegliato dall’occhio imperscrutabile della videocamera. In questo ambiente siamo rassicurati che nulla possa fuggire al nostro controllo. Invece è proprio qui che si innesca il mistero.
“Ecco chi siamo” pensa. “Fiocchi di neve destinati a sciogliersi a terra”
Lei scandaglia esistenze elitarie, privilegiate ma fragilissime.
Il dolore come condizione ontologica?

Nel libro indago le storie di diversi protagonisti, molti dei quali appartenenti al mondo privilegiato di Hollywood. Nonostante le loro carriere dorate e la loro fama, ogni personaggio in questa storia cova un dolore profondo e sotterraneo. Ma nel mondo del potere, la fragilità come il fallimento e la debolezza sono degli stati umani da censurare e isolare. I figli di queste star milionarie, affetti da dipendenze di varia natura, dalle droghe al sesso compulsivo, vengono infatti curati in un centro di rehab nel deserto dell’Arizona. Un luogo estremo, in cui non sono ammesse comunicazioni con l’esterno e dove la vita quotidiana è ridotta alla basica volontà di sopravvivere. Come dichiara il filosofo Byung-Chul Han: “Nella società odierna il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione.” In realtà è proprio la sofferenza a rendere unica l’esperienza umana e a dare valore alle nostre vite. Nel romanzo inesorabilmente ogni personaggio si troverà a dover affrontare il proprio dolore e a comprendere, al di là delle maschere dell’eterno consenso, chi è veramente.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Ritengo che i rapporti umani siano la base di tutti i nostri raggiungimenti e allo stesso tempo dei nostri ostacoli invalicabili. Sono le piccolezze quotidiane dovute alle nostre relazioni, quelle minuscole inquietudini e ossessioni irrisolte, che nel tempo crescono fino a diventare così intense da modificare le traiettorie del nostro destino. La tensione di “Non salvarmi” si svela proprio in questa sfaccettata dimensione emotiva dovuta all’interdipendenza di ogni personaggio. Per questo ho scelto la soluzione del thriller corale, proprio perché il vero mistero è legato alle conseguenze dei rapporti umani. Mettere da parte la nostra visione egoica e autoreferenziale è sicuramente il modo per approcciarsi all’altro, gratificando non solo noi stessi, ma anche la vita delle persone intorno a noi. Abbiamo più bisogno di alterità che di uno specchio che continuamente rimandi la percezione di noi stessi.
La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta ed immediata, pare rinviare al linguaggio delle serie TV.
Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?

Sicuramente la congiunzione di diversi stili è stato l’obiettivo compositivo di questo romanzo. Per definire la mia voce prima di tutto ho lavorato sulla potenza e l’immediatezza dell’immagine attraverso le ambientazioni. Da una parte abbiamo la suggestione del deserto dell’Arizona, nella sua nuda immensità e nel suo silenzio scalfito solo dalle onde di colore in continuo movimento. Dall’altra parte abbiamo Milano, nella sua frenetica ascesa espansionistica e il fascino rivoluzionario della sua architettura verticale. La polarizzazione di queste due location così diverse ha reso al meglio il mio approccio cinematografico e ha regalato alla storia un ritmo molto intenso simile a quello delle serie tv. Avevo però anche la necessità di indagare psicologicamente i miei protagonisti, regalando al lettore delle emozioni sospese, le stesse che si possono vivere al cinema quando al buio si vede un film e si può assorbire la storia visceralmente in ogni suo dettaglio.
Lei è Film Promotion Coordinator Southern Europe per la company UCI Cinemas. Il suo ruolo l’ha supportata nel puntare l’attenzione sui figli di Hollywood?
Il mio ruolo professionale mi ha dato il privilegio di vivere il cinema da addetta ai lavori. In questi anni ho vissuto esperienze straordinarie che sono state ispirazionali per il mio libro. Partecipare alle anteprime mondiali con le grandi star del cinema, condividere con i leader del mercato strategie e visioni del business per il lancio dei film di successo globale, mi ha dato la possibilità di comprendere fino in fondo il settore cinematografico. Ho potuto quindi raccogliere testimonianze e retroscena che non sono accessibili al pubblico e rivelano anche l’anima nera di questo mondo in evoluzione. Ad esempio nel romanzo il finanziere più potente del mondo hollywoodiano, si trova a Ryhad perché sta portando il cinema in Arabia Saudita, dopo trentacinque anni di chiusura delle sale cinematografiche. Questo processo elettrizzante l’ho potuto seguire realmente da vicino perché è stato proprio il nostro gruppo, AMC, a riaprire la prima sala a Ryhad nel 2018.

Livia Sambrotta è laureata in Lingue e Letterature Straniere con indirizzo spettacolo, dopo aver lavorato come redattrice per i magazine di promozione cinematografica 35mm e Primissima, nel 2015 pubblica il primo romanzo noir Amazing Grace (Tragopano Edizioni) e diverse short stories. Nel 2017 vince con un suo racconto il premio letterario Torinoir Memonoir 2017 del gruppo letterario fondato dall’autore Enrico Pandiani. Dal 2015 ha condotto diversi seminari di scrittura creativa a Milano. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo noir Tango Down (Edizioni Pendragon). Il romanzo è stato selezionato tra i finalisti al Festival Giallo al Centro Rieti e ha ricevuto il Premio Menzione Speciale al Festival Garfagnana in Giallo. Attualmente lavora a Milano per la company internazionale UCI Cinemas come Film Promotion Coordinator Southern Europe. Il suo ultimo thriller Non salvarmi (SEM Libri) ha vinto il Premio Selezione Bancarella 2021.

Giuseppina Capone

Federica Castelli: Comunarde. Storie di donne sulle barricate


Le Comunarde si sono formate politicamente e pubblicamente in un contesto storico che le negava proprio in quanto donne.
Quale idea di collettività propongono?

Le comunarde sono tante e diverse. Non propongono un’idea univoca di collettività, né ricette politiche valide per tutte e tutti. Sanno intessere storie e strategie di lotta alleandosi senza annullarsi, rispettandosi nelle loro differenti visioni e genealogie politiche. Non hanno una visione ideologica della società che vogliono contribuire a creare. Rifiutano il potere, lo Stato, l’imperialismo, e ci restituiscono un’idea plurale, contingente di politica: radicata nelle relazioni, nei vissuti, che nasce nelle strade, negli spazi condivisi, fuori dai palazzi governativi. Che si fa lottando, cantando, scrivendo, discutendo in assemblea, e in mille altri modi.
Le Comunarde sfuggono alle narrazioni misogine dell’epoca. Ebbene, quali percorsi seguono per imporsi?
Non credo che “imporsi” sia il termine più appropriato. Ciò che importa loro, in prima istanza, è svincolarsi, “schivare”, quelle narrazioni. Hanno un obiettivo – creare una società nuova, diversa, più giusta – e vogliono realizzarlo assieme. Si muovono su un piano per certi versi inatteso, quello delle pratiche quotidiane e delle assemblee. Non mirano a prendere il potere, a creare un governo, a istituire leggi: vogliono esserci, ed esserci tutte intere. Vogliono che la loro parola politica abbia valore, così come le loro decisioni collettive. Vogliono poter agire e dare vita, nei fatti, concretamente, a una nuova società. Ma la società del tempo dice loro cosa essere, a cosa aspirare, dove stare. Le fa madri o puttane, vittime o assassine. Ne dequalifica il pensiero, la riflessione collettiva e soprattutto cancella la portata politica della loro azione. Di nuovo, come nel 1789, rischiano di essere lasciate sullo sfondo, fuori dalla scena politica vera e propria. Questo perché una lunga tradizione di pensiero, che risale almeno alla polis ateniese, vede le donne e il potere come piani opposti e inconciliabili. Le comunarde dimostreranno che la politica è un orizzonte più ampio del potere, e che non si esaurisce in esso. Come le femministe italiane sottolineeranno a un secolo di distanza, “potere e politica non sono la stessa cosa”.
“Sante, puttane, furiose, sanguinarie, bestie, streghe, virago. Eppure, nonostante questa fittissima cortina innalzata su di loro dallo sguardo maschile, le comunarde oggi possono dirci e insegnarci davvero moltissimo”
Nell’anno del 150° anniversario quanto è attuale il loro messaggio politico?

Personalmente penso che la loro esperienza abbia molto da insegnarci oggi, in tempi in cui le lotte femministe si intrecciano con quelle di altre soggettività non eteronormate, creando alleanze puntuali, contingenti e plurali. Ci insegnano a lottare insieme nonostante le differenti genealogie politiche e le diverse esperienze verso un obiettivo comune. Ci insegnano anche, però, che è fin troppo facile, nel momento in cui si lotta insieme, dimenticarsi delle specifiche urgenze di ogni soggettività o gruppo in lotta e cominciare a parlare per altrз. Ci insegnano soprattutto che l’ideale non deve mai sovrascrivere la realtà dei vissuti e che la politica si fa assieme, giorno per giorno, nelle pratiche e nel quotidiano.

Il saggio da Lei redatto rilegge l’esperienza della Comune di Parigi con una visione femminista: “voglio rileggere questa esperienza a partire da una postura femminista, incarnata e sessuata, lasciandomi orientare da chiavi interpretative semplici: pratiche, alleanze, soggettività in conflitto, corpi, relazioni, rapporti di genere, mutamento dell’immaginario.”
Quali sono le ragioni di tale approccio?

I femminismi mi hanno insegnato che pretendere che il sapere non sia situato, ma che sia anzi oggettivo, razionale e universale, e soprattutto che sia neutro, è una finzione che non solo maschera la complessità del reale, ma che produce (e riproduce) oppressione. Il sapere è un campo di forze, attraversato da numerose linee di potere. Nominare il proprio posizionamento, e dunque la propria parzialità, orientando lo sguardo verso ciò che quel sapere “scientifico” e oggettivo della modernità ha lasciato in ombra in nome della “razionalità” – i conflitti, i corpi, i vissuti, i rapporti tra i sessi – è in questo senso un atto radicale che libera storie, relazioni e immaginari per tuttз.
Louise Michel, Nathalie Lemel, Paule Mink, André Léo, Elisabeth Dmitrieff e Victorine Brocher: figure antitetiche per molti versi.
Qual è il filo rosso che le accomuna?

Le comunarde hanno orizzonti politici, genealogie, posizionamenti diversi. Lungi dal leggere la complessità come un ostacolo o un elemento di difficoltà, le donne della Comune hanno saputo pensare la politica come a un intreccio di relazioni, come un’alleanza che non cancella, né assimila. Le accomuna la volontà di essere insieme, partecipare alla Comune e alla creazione di una nuova società, dando priorità al quotidiano, ai vissuti, alle urgenze concrete prima ancora che agli ideali astratti o alle dinamiche classiche di potere, a cui sono scarsamente interessate. Ripartono dalle esperienze, dalla materialità, dal fare assieme e immaginano un mondo nuovo.

Federica Castelli, filosofa femminista e coordinatrice del Master in Politiche e studi di genere dell’Università Roma Tre.

Giuseppina Capone

La carriera artistica di Raffaello a Firenze

Il giovane e promettente pittore Raffaello per approfondire la propria crescita culturale e artistica (pur essendo già un artista affermato in Umbria) si trasferì per un breve periodo a Firenze (1504-1508) per ammirare Leonardo e Donatello durante la decorazione della medesima sala del Maggior Consiglio,  e difatti, dedicò il suo tempo allo studio della tradizione figurativa fiorentina. Durante il suo soggiorno a Firenze, Raffaello, strinse amicizia con diversi artisti come Ridolfo del Ghirlandaio, Antonio da Sangallo, Aristotele da Sangallo, Francesco Granacci e in breve tempo riuscì ad ottenere numerosi incarichi da facoltosi cittadini come Lorenzo Nasi (per il quale dipinse la Madonna del Cardellino) e Domenico Canigliari (per il quale realizzò la Sacra Famiglia Canigiani). Il ritratto del facoltoso mercante e illustre Mecenate Agnolo Doni, fu uno dei ritratti che Raffaello realizzò per le famiglie dell’aristocrazia mercantile fiorentina. In questa opera l’artista si rifà alla tradizione realistica e biografica più che psicologica del busto fiorentino e si ispira ai modelli leonardeschi. Nella Madonna con il Bambino, invece, applicò il nuovo principio di organizzazione formale con la nuova flessibilità di ritmi compositivi suggeritagli da Leonardo. Mentre  il tema sacro è quello in cui dedicò maggiormente una grande ricerca di forme ed espressività. Per Raffaello queste opere sono state il terreno di prova su cui si concentrano una chiara ricerca di espressione, e così diede vita ad un proprio linguaggio figurativo.


Le varie tecniche artistiche di Raffaello

Nell’essenzialità dell’impianto strutturale della Madonna del Prato (1506) l’organicità dello schema piramidale stringe le nuove complesse articolazioni compositive in una struttura bilanciata, conferendo all’immagine una nuova cinquecentesca monumentalità. Le ricerche di Raffaello si articolano verso diverse direzioni: nel dipinto della Madonna Esterhazy, Raffaello, è stato in grado di applicare le tecniche apprese da Leonardo dando vita a diversi intrecci di movimenti e donando all’immagine della Madonna l’espressione reale. Da lì a poco, Raffaello abbandonò la tecnica appresa da quest’ultimo per attingere a una fermezza monumentale (suggerita dalle opere di Michelangelo) assieme ad una ricerca di naturalezza e armonia espressiva. Queste ricerche approfondite aiutarono il pittore nell’evoluzione dello stile rinascimentale maturo.

Il principale modello per le Pale d’Altare fiorentino del secondo decennio del secolo fu il dipinto della Madonna del Baldacchino, grazie alla nuova ambientazione architettonica e al respiro spaziale creato dalle figure scalate in profondità, Raffaello riuscì a  rendere intenso lo sguardo dei personaggi religiosi dell’affresco, tanto trasmettere un grande senso di naturalezza e umanità. Conclusa l’esperienza toscana, Raffaello si interessò alla narrazione drammatica. Nel 1503 ricevette l’incarico dalle Monache del convento di Sant’Antonio a Perugia di una Pala di Altare. Nel 1504 dipinse la Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Nicola. Nel 1505 si dedicò all’affresco con la Trinità e Santi nella Chiesa del Monastero di San Severo (Perugia). Da quel momento Raffaello era continuamente in viaggio per lavoro e  nel 1505 partì per Urbino accolto alla Corte di Guidobaldo da Montefeltro.

Sanzio, dipinse per il Duca una piccola Madonna e tre tavolette come quella di San Michele e il drago, un San Giorgio e il drago. Per alcune famiglie della borghesia medio-alta a Firenze, Raffaello dipinse diversi affreschi di Madonna con bambino: la Madonna del Cardellino e la Madonna del Belvedere e la Bella Giardiniera. Agnolo Doni, la Dama col Liocomo e Donna gravida sono altri affreschi di Raffaello in cui è presente un’evidente influenza di Leonardo. La pala Baglioni (1507) gli fu commissionata da Atlanta Baglioni e destinata a un altare nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. Mentre la Madonna del Baldacchi fu l’opera con la quale concluse la sua carriera artistica fiorentina (1507-1508). Nel 1508 il giovane artista si trasferì a Roma in seguito alla convocazione del papa Giulio II, il quale il suo intento  era quello di rinnovare, a livello artistico, la città e in particolare il Vaticano. Per la decorazione dei nuovi appartamenti papali collaborarono diversi artisti come il Bramantino, il Sodoma, Baldassare Peruzzi, Lorenzo Lotto e tanti altri. Il papa rimase estasiato dal lavoro di Raffaello che decise di commissionargli tutta la decorazione dell’appartamento. Raffaello in quegli anni si dedicò anche alla realizzazione dei ritratti dando vita a nuove tecniche come nel ritratto di Cardinale, oggi al Prado  (1510-1511 ) il ritratto di Baldassarre Castiglione (1514-1515), il ritratto della Freda Inghirami (1514-1516) e soprattutto con il ritratto di Giulio II che l’artista manifestò tutto il suo nuovo studio di tecniche del ritratto. Le opere di Raffaello comprendono un notevole numero di affreschi:

Ritratto di giovane donna, (1518-1519) olio su tavola Strasburgo, Musée des Beaux-Arts.  Santa Margherita, (1518) olio su tavola, Vienna, Kunsthistorisches MuseumMadonna della Rosa – Ritratto di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino (1518)olio su tela già Christie’s – Galleria degli Uffizi Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, (1518-1519) olio su tavola Firenze, Uffizi, Perla di Modena, (1518-1520) Modena, Galleria Estense e tanti altri meravigliosi affreschi. A soli 37 anni Raffaello morì ma nonostante la giovane età è stato uno degli artisti che hanno dato vita alla storia dell’arte italiana.

Alessandra Federico

Maria Rosa Bellezza: Le lesioni dell’anima


Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria”? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Della memoria mi affascina la sua illusorietà: non corrisponde mai a quello abbiamo vissuto, intendo a livello emozionale. Per me dunque la memoria ha un valore solo relativo, mai assoluto: guardo una foto e recupero il falso ricordo di un momento felice, cristallizzato nelle pose plastiche e nei sorrisi richiesti dal fotografo. Ma le mani intrecciate nelle fotografie si sciolgono repentine subito dopo lo scatto: è quello il vero ricordo che la memoria dovrebbe recuperare. Invece non è mai così. Ma paradossalmente, proprio la fallacia della memoria si trasforma nel mio baule magico di scrittrice. Attraverso le storie ascoltate, i racconti, gli album di fotografie, i vecchi filmini vado ad abitare pianeti e mondi che non mi appartenevano e che diventano miei pur non avendoli mai vissuti. E sì, si possono chiudere i conti con il passato. Avviene appunto quando se ne ammette la sua imperfezione: quando riconosciamo ad esempio che i nostri morti non erano così impeccabili come ci ostiniamo a descriverli, o quando abbiamo la forza di ammettere con noi stessi che non si era più belli e più felici prima. Siamo belli e felici anche ora, solo che non lo sappiamo.

“Le lesioni dell’anima” fa riferimento alle piccole increspature dell’anima.
Le crepe possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?

Le ferite si rimarginano, le crepe si chiudono. È il come che fa la differenza, e questo “come” sta nel valore del tempo che ci diamo per insegnarci la loro lezione. Delle volte siamo troppo frettolosi e acceleriamo i tempi di guarigione; altre lo prolunghiamo eccessivamente come quando ci scortichiamo volontariamente una ferita e la facciamo tornare a sanguinare. Ciò vale anche per le crepe. Devono essere colmate, trovare quel materiale che le riempia e le renda, in apparenza, di nuovo compatte. Il beneficio interiore lo ricaviamo quando troviamo l’emozione giusta per riempire il vuoto che sentiamo e ci diamo il tempo di trovarla senza sostituirla con palliativi che anestetizzano l’anima.

Magia ed ascolto interiore paiono configurarsi come elementi focali per la riscoperta dell’amore verso se stessi.
Come si coniugano?

Magia e ascolto interiore per me si equivalgono. Mi spiego: quando impari amo a fare silenzio, a far tacere la nostra mente, il mondo inizia ad apparire diverso. È apparentemente uguale a prima, è il nostro sentire che fa la differenza. Si inizia a percepire il legame nascosto delle cose, il filo rosso che unisce tutti gli elementi naturali. Ci sono momenti in cui avverto una particolare vibrazione che mi indica che mi sto muovendo nel modo giusto, o si manifestano delle coincidenze che altro non sono che il legame nascosto tra ciò che si vede e ciò che è celato dalla nostra ragione. È magia, e si manifesta solo quando ho saputo fare silenzio dentro di me.

Mizio ed Ada: legami, solitudini, ferite, volti incrociati casualmente.
Quale idea ha inteso veicolare delle relazioni interpersonali?

Nel corso degli anni, come dice lei, incontriamo casualmente molti volti, molte anime. E veniamo a contatto per periodi più o meno lunghi con altri percorsi, altre strade, altre esperienze di vita vissuta. Ce ne appropriamo quando le sentiamo affini o ci allontaniamo quando non ci corrispondono o quando non ci servono più. La maggioranza dei nostri legami è data da persone che ci sono accanto per un tratto di vita e che poi prendono altre strade, a volte con nostro rammarico, talaltre nella nostra più totale indifferenza. E poi ci sono legami che esistono da sempre, da prima del tempo, patti dell’anima che non si sciolgono ma che ad ogni nostra esistenza si rinnovano. E badi bene, non parlo solo di legami romantici, anzi. Ecco, io credo che dal primo vagito l’uomo si metta in cammino aprendosi alle esperienze terrene per cercare le anime con cui ha stretto il patto prima di nascere. Nel mio libro esprimo questa idea non solo attraverso le figure di Ada e Mizio, ma anche nel legame di Ada con il figlio Francesco, anima che decide di non nascere, e nel bellissimo rapporto di Mizio con la nonna Giovanna.

Le sue pagine conservano un’impostazione laica, tuttavia il focus attentivo è puntato sulla spiritualità, vettore di un’umanità positiva.
Cosa l’ha indotta valicare i confini del pudore che protegge, solitamente, l’animo umano, nella fattispecie muliebre?

La ringrazio per la domanda, che trovo davvero appropriata, è un argomento che mi tocca molto, il legame tra la religione e la spiritualità, e il cosiddetto sentire spirituale come un modo alternativo di porsi. Ho sempre avvertito sin da piccola l’anelito alla ricerca di “altro”. All’inizio trovavo risposte confortanti nella religione di cui mi affascinavano le certezze dogmatiche, i riti, i mantra ripetuti, il raccoglimento collettivo. Poi man mano che ho acquisito consapevolezza di me stessa, mi sono spostata: il mio centro non erano più le sovrastrutture religiose, ma la mia cattedrale interiore, la mia anima. E lì ho appreso e cerco di mettere costantemente in pratica una delle azioni spirituali più importanti per me: il non fare di castanediana memoria che è un invito all’astenersi per non creare debiti con il karma, o cosa ancora più difficile per l’essere umano il fare senza partecipare emotivamente. La nascita dei miei figli è coincisa storicamente con l’avvento dei social, che non ha soltanto reso più veloce l’espressione del pensiero, e più superficiale, ma ha avuto un dirompente effetto sulla modalità di comunicazione tra persone. Tutto viene urlato, sputato fuori con rabbia, e immediatamente dimenticato. Le parole sembrano non avere più valore, e invece sono pietre, feriscono, fanno male. E da qui nasce la mia esigenza di squarciare il velo del pudore e trasmettere il messaggio del silenzio e del non fare, che nel libro viene simboleggiato dal ritorno di Mizio a Napoli, un ritorno che non viene annunciato: Mizio si mette in paziente attesa e lascia che sia l’anima di Ada a trovarlo.
Maria Rosa Bellezza è  avvocato, romanziera.

Giuseppina Capone

Fabrizio Mollo: Uomini e merci tra Sicilia e Bruzio

Uomini e merci tra Sicilia e Bruzio. Economia, scambi commerciali e interazioni culturali (IV sec. a.C.-metà II sec. d.C.)

Fabrizio Mollo è Professore Associato e insegna Topografia Antica e Archeologia delle Province Romane presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina. È stato collaboratore della Soprintendenza Archeologia della Calabria per un ventennio. Autore di oltre centocinquanta pubblicazioni scientifiche (libri, articoli, Atti di convegno) nelle sedi editoriali più prestigiose; ha partecipato a decine di convegni scientifici nazionali e internazionali in Italia ed in Europa. Svolge attività di ricerca in Calabria, Sicilia, occupandosi di popolazioni indigene (Enotri, Lucani e Brettii). È componente dal 2014 della Missione Archeologica Italiana presso Skotoussa, in Tessaglia–Grecia. Ha scavato, pubblicato e si è occupato tra gli altri dei contesti di Tortora (l’antica Blanda), di Serra Aiello-Campora S. Giovanni (l’antica Temesa), Licata (l’antica Phinziade), S. Maria del Cedro (l’antica Laos) e Cerillae, curandone in alcuni casi anche i progetti scientifici e didattici dei relativi Musei. Ha scavato, pubblicato e musealizzato i contesti archeologici dell’area del Medio Tirreno cosentino (da Belvedere Marittimo a Paola), realizzando il Museo dei Brettii e del Mare di Cetraro.

Economia, scambi commerciali e interazioni culturali tra il IV sec. a.C. e la metà del II sec. d.C.. Ebbene, quale metodologia si adopera per ricostruire la storia economica e le relazioni commerciali tra Magna Grecia e Sicilia ed in particolare tra la Calabria e la Sicilia?
Il volume utilizza lo studio dei materiali e delle merci per ricostruire le complesse relazioni tra Magna Grecia e Sicilia, per leggere le dinamiche relazioni, i rapporti tra uomini attraverso la circolazione dei beni stessi, contenuti nelle anfore da trasporto, ma anche attraverso le cosiddette merci di accompagno, ceramiche figurate e fini, elementi che rispondono a mode e a gusti estetici e che completano i carichi onerari, producendo importanti interazioni culturali.
Chi sono i protagonisti di siffatte relazioni commerciali?
I protagonisti sono tutte le popolazioni che vivono in Magna Grecia ed in Sicilia tra IV sec. a.C. ed età imperiale: innanzi tutto i Greci, eredi della colonizzazione e protagonisti della vita politica ed economica della Megale Hellas per secoli, i Cartaginesi, che occupano la cuspide nord-occidentale della Sicilia, protagonisti in Sicilia e lungo le rotte commerciali per secoli, le popolazioni italiche (Campani, Sanniti, Lucani, Brettii), protagonisti in Magna Grecia, con il significativo ruolo di mercenari, che intrattengono rapporti e relazioni con il mondo cartaginese. Alla fine, con l’affermazione di Augusto, giunge a compimento il processo di conquista messo in atto dai Romani, che lentamente si affacciano dopo le guerre puniche nel Mediterraneo centro-meridionale, assurgendo a protagonisti in ambito politico, ma anche economico.
Le anfore da trasporto attestano la circolazione commerciale di due beni in particolare: olio e vino.
Dal punto di vista sociale, chi ne sarà beneficiato ed in che modo muteranno usi, costumi e consuetudini?
Le dinamiche politiche e sociali, raccontate nella loro dinamica dimensione evenemenziale, rappresentano anche l’affermazione di nuove prospettive economiche e commerciali, in autonomia rispetto alla Grecia. I centri di Bruzio e Sicilia si specializzano in numerose produzioni ceramiche e promuovono la circolazione commerciale di due grandi beni, quali l’olio ed il vino. Le direttrici commerciali sono leggibili proprio attraverso la circolazione delle anfore da trasporto. Attraverso la produzione di questi beni si affermeranno le grandi élites sociali che, a partire dalla tarda repubblica, saranno impegnate direttamente nelle contese politiche, nei processi di conquista e nello sviluppo delle politiche coloniali e municipali messi in atto da Roma. Lo studio delle produzioni ceramiche permette di evidenziare anche i profondi mutamenti negli usi e nei costumi, nelle abitudini alimentari, nelle modalità di circolazione dei beni di consumo. All’olio e al vino si affiancano anche altre produzioni tipiche, come le salse di pesce, la pece della Sila, l’allume di Lipari, la frutta secca, il miele.
L’esame dei relitti calabresi e siciliani manifesta l’essenzialità della ricostruzione delle rotte di cabotaggio.
Quali porti e siti strategici tocca la sua disamina?

Il vettore dei processi economici tra uomini delle varie sponde del Mediterraneo è il mare: attraverso le anfore da trasporto ed il loro contenuto, cercando di ricostruirne le rotte, soprattutto di cabotaggio (come dimostra l’esame dei relitti calabresi e siciliani raccontati nel libro), si cerca di delineare la storia economica di aree in epoca antica floride e baricentriche nell’economia del Mediterraneo. L’analisi interessa porti e siti strategici lungo le rotte (Napoli, Poseidonia, Velia, Hipponion, Rhegion, Messana, Panormos, Lilibeo). Attraverso continui percorsi di cabotaggio, di sosta nei vari porti, per imbarcare alcune merci e sbarcarne altre, si componeva un melting pot mediterraneo che restituisce una dimensione commerciale globalizzata, di circolazione di beni primari ma anche secondari, elementi propulsivi dell’economia dei centri costieri, soprattutto lungo le coste tirreniche.
Le Eolie, le Egadi e Pantelleria sono state snodi e crocevia commerciali basilari.
In qual misura hanno inciso nelle complesse dinamiche dei rapporti tra Roma e Cartagine?

Il volume restituisce il giusto peso alle Eolie, alle Egadi e a Pantelleria, che sono state snodi e crocevia commerciali fondamentali in ogni epoca, ma anche lo sfondo di eventi storici importanti, soprattutto nelle complesse dinamiche dei rapporti tra Roma e Cartagine.
Roma, da potenza politica, economica e militare, costruisce la sua fortuna su di una sapiente politica di rapporti e di relazioni, non sempre e non soltanto di natura militare e bellica, anche frutto di alleanze, di patti e di affiliazione (le famose civitates foederate, liberae ac immunes raccontate da Cicerone nelle Verrine per la Sicilia, città legate da un foedus, da un patto di amicizia, autonome), di scelte ponderate di mediazione. La mediazione interessa direttamente anche gli aspetti economici e sociali e vede Roma al centro di significative politiche commerciali. E le aree del Bruzio e della Sicilia diventano terreno di interessi economici per la propria classe politica, per i senatori e per i cavalieri, che coltiva i propri affari anche in Magna Grecia e Sicilia, favorendone uno sviluppo armonico e partecipato dell’Urbe. Insomma, ancora una volta, abbiamo la prova del ruolo centrale del Mezzogiorno, ponte e luogo di relazioni umane, culturali, economiche con tutti i popoli del Mediterraneo (Greci, Romani, Cartaginesi e tanto altro), dal quale dovremmo partire, anche nel recovery plan, per riempire di contenuti validi e sostenibili dal punto di vista economico e ambientale la proposta di sviluppo di tali aree.

Giuseppina Capone

Il genio di Donatello

Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, (per il suo animo gentile e sensibile) è stato uno scultore, architetto e pittore italiano.

Donatello nacque a Firenze nel 1386 e sin dalla tenera età aveva dimostrato la sua passione per l’arte attraverso il disegno. Donatello ha dato vita (assieme a Brunelleschi e Masaccio) ad una nuova arte del Rinascimento elaborando nuove forme moderne come la riscoperta della realtà naturale e l’assunzione delle forme antiche. Ancora, rinnovò i metodi della scultura eliminando quelle del tardo gotico e diede vita alla tecnica dello stiacciato, sperimentando varie tecniche come  marmo, pietra, terracotta e bronzo in modo da non impedire la creazione di uno spazio illusorio. Ma ciò che ha fatto la storia dell’arte del Rinascimento è stata la sua grande capacità di rendere le opere realistiche donando quel senso di umanità ai suoi capolavori.

Donatello, dal 1040 al 1407, fu a fianco di Ghiberti apprendendo da quest’ultimo i segreti della fusione del bronzo e la passione per la scultura a rilievo. Da lì a poco svolse il proprio apprendistato come scultore a Firenze alle dipendenze dell’Opera del duomo. Donatello fu anche amico e collaboratore di Brunelleschi e insieme a lui studiò le opere classiche e dal 1402 al 1404 si recarono insieme nella capitale italiana. Sono due i primi lavori artistici di decorazione scultorea più celebri di Donatello a Firenze: il Duomo (la facciata e la porta della Mandorla) e le nicchie di Orsanmichele. Eppure, sono le quattro sculture giovanili che mostrano il precoce trapasso dalle forme del gotico cortese a una matura espressione umanistica: Davide del 1408, statua del profeta Abacuc (zuccone 1423- 1425), San Giovanni Evangelista (1409- 1411), San Giorgio (1417) . Per il David, (Santa Maria del Fiore – trasportato nel 1416 a Palazzo Vecchio) l’artista seguiva ancora un canone di bellezza garbato, dai tratti gentili e delicati e infatti, alcune delle sue meravigliose sculture sono ancora legate a stilemi gotici ma che al contempo (i movimenti fisici del corpo della scultura e quello delle mani) indicano un attento studio dal vivo. Il san Giovanni Evangelista, (scultura destinata a una nicchia collocata a lato del portale centrale di Santa Maria del Fiore) invece, è intenta a trasmettere una sensazione di forza trattenuta: il volto del santo è basato su un principio gotico di idealizzazione, le spalle e il busto si conformano in un volume geometrico. E’ evidente che l’artista ha voluto inserire, in uno spazio costruito attraverso la prospettiva, la ricerca di una nuova rappresentazione dei corpi. Tuttavia, è con il San Giorgio (commissionata per una delle nicchie di Orsanmichele) che Donatello supera davvero gli elementi gotici. Mentre con Albacuc, (1423-1425 per il campanile di Giotto) riprende lo stile antico che si interseca con uno stile realistico e naturale: panneggi elaborati con estrema cura dei dettagli, caratterizzando i profeti del campanile secondo costumi e positure riprendendo il vecchio modello classico.

Nella tecnica dello stiacciato, ideata da Donatello, traspare, in maniera molto chiara, il desiderio di trasferire nella pietra le caratteristiche della pittura: la modulazione delle ombre e delle luci si ottengono grazie ad un effetto di spessore atmosferico e a quel senso di prospettiva aerea acquisite di conseguenza alla prospettiva di Brunelleschi. La tecnica dello stiacciato è un rilievo ottenuto con minime variazioni di spessore rispetto al fondo, inserendo il porticato in prospettiva, creando così effetti sorprendenti di profondità. In sostanza, Donatello era capace di assumere una tecnica nuova per dare un tono espressivo adatto a conseguire l’effetto che desiderava dare in quel momento, diventando oramai pienamente padrone della costruzione prospettica e riuscendo a convergere delle ortogonali di profondità verso un unico punto di fuga. Nel pannello bronzeo del Banchetto di Erode per il fronte battesimale del battistero di Siena (1425-1427) lo scultore applicò la tecnica giusta che richiedeva l’opera, rinunciando allo stiacciato. Nel David bronzeo (1430 – commissionatogli da Cosimo de’ Medici) interpretato come raffigurazione di Mercurio che contempla la testa recisa di Argo, è un capolavoro che rivela un immenso senso realistico. In quello stesso periodo eseguì l’incorniciatura architettonica del tabernacolo dell’Annunciazione in Santa Croce. In questa opera, Donatello, dimostra tutta la sua libertà culturale attraverso un rinnovato interesse classicistico e la profonda, quanto intensa, analisi prospettica delle figure.

Nel 1433 fino al 1438 realizza la sua più grande opera ardita di contaminazione culturale, la grande Cantoria. Un monumento di una sorprendente modernità nato dalla collaborazione di motivi bizantini e duecenteschi, classici e paleocristiani. Dal 1443 fino al 1453, Donatello si trasferì a Padova dove affermò la sua fama di scultore dei suoi tempi grazie anche alle numerose opere eseguite nella città veneta: il Monumento equestre a Erasmo da Narni detto il Gattamelata e l’altare maggiore della basilica di Sant’Antonio. Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, era un uomo d’arme al servizio della Repubblica veneta, morì nel 1443 e il monumento che lo ricorda fu affidato a Donatello. Ma per la novità della creazione di Donatello, in rapporto al ruolo sociale del personaggio cui il monumento era stato dedicato, l’opera necessitò di un apposito beneplacito concesso dal Senato veneto. Poco tempo dopo, Donatello lavorò assieme ai suoi collaboratori alle statue e ai rilievi dell’Altare maggiore della basilica padovana del Santo (1446- 1450). Progettata, anche questa scultura da Donatello, erano riunite entro una struttura architettonica. Ma la più interessante, tra le sette statue e tutto tondo è, senza dubbio, quella della Madonna con il Bambino. La Vergine è ricca di particolari meravigliosi e non solo, la statua della Madonna con il Bambino era stata pensata per una visione frontale e quindi trattata come un rilievo monumentale.

Gli ultimi anni della carriera artistica di Donatello si svolsero a Firenze, dove indulgeva a un’accentuata religiosità che spingeva le opere a vertici di estrema drammaticità. Come nel Martirio di san Lorenzo dove la cubatura prospettica dello sfondo e il punto di vista basso concorrono alla forte emotività della scena. La carriera artistica di Donatello è stata lunga, soddisfacente e molto intensa tanto quanto le sue numerose e meravigliose opere d’arte.

Alessandra Federico

Masaccio: l’artista del rinascimento italiano

Tommaso di Ser Giovanni di Mòne di Andreuccio Cassài, (detto Masaccio) nasce a San Giovanni Valdarno il 21 dicembre del 1401. Masaccio, pittore italiano, è stato il primo rivoluzionario della pittura del Rinascimento, il primo ad aver cercato di trasporre, in campo pittorico, gli ideali laici, classicistici e razionali dell’architetto della cupola (Filippo Brunelleschi).

La carriera artistica di Masaccio fu molto breve ma allo stesso tempo, però, è paragonabile a quella di pochissimi pittori nella storia dell’arte occidentale. L’artista, segnò un preciso spartiacque tra fasi storiche diverse, (nella storia dell’arte), spostando così in avanti e con improvvisa accelerazione il confine tra gli innovatori e i ritardatari.

Masaccio aveva dato alla pittura una nuova realtà: la raffigurazione dell’uomo come individuo reale, dotato di sentimenti e passione terrene, di un corpo solido e naturale fondato sullo studio del vivo e costruito in base alle regole della rappresentazione prospettica dello spazio inventate da Filippo Brunelleschi. La collaborazione con Masolino fu un’associazione alla pari tra due pittori maturi, un sodalizio basato sulla comune provenienza del Valdarno quella della collaborazione con Masolino da Panicale (pittore ancora legato al gusto tardogotico) che offrì a Masaccio l’opportunità di manifestare il suo genio entro composizioni di largo respiro.

Le opere di Masaccio risalgono al 1424 e il 1428 e fu proprio grazie a Masolino che riuscì a dare vita a una pittura di tipo completamente nuovo, riuscendo a liberarsi da quel gravoso retaggio. Questa umanità è inserita in un nuovo ideale pittorico basato sulla razionalità di cause ed effetti e sull’essenzialità e la concentrazione espressiva. Difatti, il Rinascimento nacque con l’aspirazione di riscoprire l’uomo e la natura. I due intraprendenti artisti erano orientati soprattutto nella ricerca che applicasse leggi oggettive, scientifiche che dessero corpo nelle arti visive.

Masaccio fu in grado di rivoluzionare interamente la pittura in breve tempo e non solo, (perché non si trattava del solo cambiamento tecnico della prospettiva) una volta terminato il dipinto, pareva davvero avesse scavato un’apertura nel muro grazie alla tecnica realistica che aveva realizzato. Pareva che i personaggi parlassero, fossero reali. Le opere Nel Trittico con Madonna in trono e santi della chiesa di San Giovenale e Cascia (Raghello) si delinea chiaramente la nuova poetica di Masaccio; l’intero polittico è unificato prospetticamente dal convergere verso un unico punto di fuga, delle linee del pavimento, in tutti i pannelli. Mentre i santi sono già figure solide, caratterizzate psicologicamente e rigorosamente scalate in profondità. Nonostante Masolino fosse più esperto, più famoso e avesse quasi il doppio dell’età di Masaccio, si era lasciato convertire dalle ragioni (molto convincenti) e dalla buona pratica e dalle nuove idee del suo collaboratore. Nell’opera Sant’Anna con la Madonna, il Bambino e angeli degli Uffizi (1424) è nota la collaborazione di Masaccio e Masolino. Il dipinto rappresenta la diversità di due stili e delle sue diverse epoche storiche, (Medioevo e Rinascimento). Masolino diede forma alla figura di Sant’Anna e agli angeli ma il nuovo stile di masaccio fu in grado di rompere l’unità del dipinto: l’espressione della Vergine dipinta dal giovane artista è solida come mai prima d’ora era stata, la sua espressione è ferma e consapevole ma allo stesso tempo dolce e aggraziata. “Vive et vere” era la poetica che Masaccio volle approfondire nel polittico eseguito nel 1426 (Chiesa pisana del Carmine). La Vergine s’incurva come a formare un bozzolo per proteggere il bambino. Mentre il suo trono è definito prospetticamente con un punto di vista ribassato, in relazione alla posizione reale dello spettatore. La stessa visione dal basso verso l’alto fu introdotta per la cuspide del polittico. (Crocifissione). Nel grande affresco della Trinità (1426. 1428 chiesa di Santa Maria Novella) racchiude tutta la nuova arte di Masaccio, considerato uno dei più importanti dipinti in cui le regole della prospettiva furono messe in pratica per dare un senso di profondità su una superficie piatta. Il giovane artista realizzò l’affresco senza scorci e senza variazioni di scala, in una visione frontale, attenendosi alle regole prospettico-illusionistiche. La Trinità è stata definita “un clamoroso manifesto rinascimentale entro la gotica Santa Maria Novella” poiché fu la prima volta, nella storia della pittura cristiana, in cui le effigi di persone reali assumono tanta rilevanza entro un dipinto religioso. Altri dipinti in cui sono chiare le nuove tecniche di Masaccio sono i riquadri delle storie di San Pietro, affrescate a Firenze in una cappella della chiesa del Carmine. Per dare verosimiglianze alle architetture, per attualizzare le storie sacre tramite l’inserimento di figure contemporanee, Masolino cercava, con molta passione e perseveranza, e soprattutto armandosi di tanta umiltà, di imparare dal suo compagno di lavoro, e infatti nel riquadro della Resurrezione di Tabita e risanamento dello storpio Masolino, cercò di impostare una scena prospettica secondo i dettami del suo stimatissimo collaboratore. Masaccio intervenne per aiutare Masolino e per terminare l’affresco. Le figure erano colme di gravità antica, ben armonizzate con lo sfondo, ricche di luce per trasmettere allo spettatore pace e serenità. Masaccio morì a Roma nel giugno del 1428 a soli 27 anni.

Alessandra Federico

Intervista a Renato Marengo, creatore del Movimento Musicale Italiano “Napule’s Power”

Il movimento musicale Napule’s Power, che quest’anno celebra il mezzo secolo, si dipana, appunto, attraverso decenni nonché attraverso plurimi e molteplici generi.
Ebbene, come nasce e come si sviluppa?

Nasce alla fine degli anni ‘70, a seguito di un periodo che aveva visto un proliferare di canzonette napoletane non più all’altezza dell’immensa musica napoletana prodotta alla fine dell’800 e durante i primi del ‘900.
Nasce per la presenza a Napoli delle basi NATO.
I giovani napoletani iniziano ad ascoltare Paul Anka, i Beatles, i Platters: c’era ovunque fermento musicale. I ragazzi anziché continuare ad ascoltare canzonette, degrado della grande tradizione napoletana, con melodia e ritmo d’alto livello, cominciano ad apprezzare lo swing. Renzo Arbore, Fred Bongusto, Peppino Di Capri, Peppino Gagliardi, Il giardino dei semplici: nascono artisti che “modernizzano” la canzone napoletana, rendendola omologa alla musica proveniente dall’America.
Il vero Napule’s Power è fatto di musica autonoma, creata, inventata.
Da chi? Ebbene, negli anni ‘60 c’era, da un lato, Renzo Arbore, jazzista, che, insieme, tra gli altri, a Roberto Murolo, applicava lo swing alla musica napoletana; dall’altro lato, c’era un gruppo formidabile, The Showmen con Franco Musella, James Senese e Franco Del Prete, i quali cantano in italiano modulando la voce alla maniera dei jazzisti neri americani.
I giovani musicisti napoletani frequentano a Napoli, ovviamente, locali situati vicino al Porto, a Bagnoli, a Posillipo, dove ascoltano musica rock, jazz…Importante è la presenza della NATO. Ogni sera, scendevano dalle portaerei americane miriadi di giovani. Invadevano i locali a caccia di alcool, “signurine” e musica. Molti portavano con sé gli strumenti: i musicisti napoletani, giovanissimi, suonavano con questi ragazzoni americani. A loro davano i nostri ritmi e le nostre melodie; noi prendevamo l’interzionalità. C’era una commistione di blues, swing, musica americana, musica napoletana. Una meravigliosa contaminazione che genera musica nuova: il Napule’s Power.
Io l’ho chiamato così: un napoletano americanizzato!
“Power” perché eravamo giovani ribelli. C’era stato il ‘68. Noi non tolleravamo il saccheggio che a Napoli si perpetrava da chi era vicino ad Achille Lauro. Non dimentichiamo “Le mani sulla città” di Franco Rosi. Non dimentichiamo Eduardo De Filippo che, dal teatro, cercava di educare alla cultura. La Nuova Compagnia di canto popolare con Roberto De Simone s’impegnava in tal senso con la musica popolare. Pino Daniele, Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Enzo Avitabile, che frequentavano la musica americana, si davano da fare per creare un movimento. A questo movimento diedi il nome, appunto, di Napule’s Power.
Alcuni di questi artisti, li ho prodotti io stesso perché da Napoli difficilmente sarebbero decollati. Io in quegli anni ero un giornalista italiano, non solo napoletano, lavoravo tra Napoli, Roma, Milano, venezia e mi occupavo di rock per una rivista molto importante, Ciao 2001, un po’ come l’attuale Rolling Stone. Allora, l’unica rivista ad occuparsi di jazz, rock e blues era proprio Ciao 2001. Vendeva tra le settanta e le ottantamila copie a settimana. I ragazzini facevano la fila all’edicola per accaparrarsi un numero. Io andavo a Londra per intervistare Tina Turner. Andavo a vedere i concerti dei Genesis. Con quella cultura riconoscevo nella musica nostra, napoletana, moderna, una cultura molto simile. Così ho prodotto Tony Esposito, Teresa De Sio, Nuova Compagnia di canto popolare, Eduardo ed Eugenio Bennato, Musica Nova, Concetta Barra. Li ho aiutati a farsi conoscere su queste riviste specializzate ed in RAI dove avevo programmi insieme a Carlo Massarini e Raffaele Cascone. Ho accostato i Napoli Centrale a gruppi internazionali. Inoltre, dopo averne scritto, parlato in radio e TV, ho ottenuto l’attenzione della discografia internazionale, tutta a Milano ed ostile alla musica napoletana, assimilata a Mario Merola. Ho portato il Napule’s Power al Festival internazionale di Monterey e ad Harlem. I neri del Black power ed i “negri” del Vesuvio. Sì, ci chiamavano così. Pino Daniele scriverà “Nero a metà”.
Negli anni ‘80 i ragazzi sono meno impegnati socialmente. La musica del Napule’s Power ha una battuta d’arresto, a parte Tony Esposito con Kalimba De Luna, Tullio De Piscopo con Andamento lento, Alan Sorrenti con Figli delle stelle.
Negli anni ‘90 c’è un ritorno all’impegno politico-sociale: ecco, 99 Posse ed Almamegretta. La musica napoletana è riascoltata con attenzione.
Oggi, i musicisti napoletani, soprattutto rapper, sono sostenuti da un sociologo Lello Savonardo, docente di “Teorie e Tecniche della Comunicazione” e “Comunicazione e Culture Giovanili” presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.

Lei cita musicisti legati alla ricerca colta e popolare, artisti folk e dal curriculum internazionale, giovani appassionati di rock’n’roll ed artisti visionari. Qual è il fil rouge sotteso a siffatta avvincente variatio generis?

No, Giusy, dammi del “tu”! E’ così che sono abituato!
Il fil rouge è la voglia di cambiare, evolvere, pur mantenendo le radici ben piantate nella tradizione. Roberto De Simone, ad esempio, cerca, con Carlo D’Angiò ed Eugenio Bennato, di recuperare i canti autentici della tradizione. Evolvere, non trasformare o violentare. Quelli citati sono grandissimi interpreti, sia strumentali che vocali, i quali hanno ascoltato e visto il rock; pertanto, nel loro spirito di ri-proposta della musica popolare c’è un legame con ciò che si sente e si fa in radio ed in televisione. La Nuova compagnia di canto popolare è portata da me a Milano ad aprire un concerto della PFM: ambedue rinnovano la tradizione. La PFM innova con gli strumenti elettrici. La Nuova compagnia di canto popolare con gli strumenti acustici. Durante quel concerto i ragazzi salgono sulle sedie e battono le mani come a scandire un rock! La fusione è la chiave!
Era il 1971 quando tu, Renato, concepisti d’adottare la definizione Napule’s Power per accorpare e scortare la vita musicale partenopea.
Erano gli anni del Black Power, il ’68 pulsava ancora.
Dunque, quale ascendente assume la politica nel panorama musicale che ha osservato?

Prescindendo da ciò che oggi significa “Destra” e “Sinistra”, nel 1970 Destra era conservatorismo; Sinistra era avanguardia, orientata al rinnovamento, alla modernizzazione. Per esempio, Eduardo De Filippo era un intellettuale di Sinistra e sosteneva Valenzi quale candidato sindaco, vicino alla cultura del rinnovamento. A Napoli, la Destra era addirittura ancora monarchica, arcaica. La Destra era rappresentata da faccendieri voraci. La Sinistra colta, universitaria auspicava il rinnovamento, l’evoluzione culturale. Si vuole, con la Sinistra,allontanare la cultura del Pulcinella, del “tutto passa”. Cito una canzone, sì divertente: “Ah, che bellu ccafè. Sulo a Napule ‘o ssanno fa” di Nino Taranto. Ebbene, è una dichiarazione di rassegnazione, di assistenzialismo. Pino Daniele idealmente risponde con “Na′ tazzulella è cafè/E mai niente cè fanno sapè/Nui cè puzzammo e famme/O sanno tutte quante/E invece e c’aiutà c′abboffano è cafè”: il caffè usato come tranquillizzante, una droga che blocca il pensiero.

La “cartolina” fotografa i napoletani rappresentati dal binomio “pizza e mandolino”, proiettandoli così lungo sentieri inclinati ed escamotage di cliché e luoghi comuni. I musicisti del  Napule’s Power hanno recuperato il volgare, il folclore, il sincretico per affrancare lo spazio identitario da ingredienti nocivi quali l’asfittica trappola nel vicolo cieco delle concezioni duali: moderno – arretrato, sviluppo – sottosviluppo.
Il Napule’s Power, pur indissolubilmente legato a Napoli, ha contribuito alla deterritorializzazione di Napoli stessa?

Brava! Gli artisti che ho citato prima, tutti o quasi tutti, avevano tentato di farsi produrre un disco. A Napoli, tuttavia, erano abituati alle canzoni di Aurelio Fierro, Tullio Pane, Mario Merola, per cui li consideravano dei perditempo, degli squilibrati e non artisti. Si voleva conservare un’immagine olografica, superata, abituata alla politica del “tira a campare”, del “qualcuno ci penserà”. Non dimentichiamo che a Napoli la camorra aveva le sue radici: alla camorra faceva comodo una Napoli felice con le canzonette, una Napoli credente alle superstizioni, che affida l’anima alla Madonna piuttosto che mettersi a lavorare per cambiare la propria esistenza; una Napoli socialmente disimpegnata, inconsapevole dei propri diritti e dei propri doveri. Una Napoli internazionale, riscattata dalla “cartolina” del ladruncolo, del furbetto, è quella che spinge tutti noi, scrittori e musicisti, intellettuali tutti vogliono testimoniare il cambiamento.
Napoli come Benjamin ha ingegnosamente sintetizzato è una “città porosa”: una combinazione affascinante di coerenza-incoerenza.

Gli artisti, protagonisti della tua narrazione, vanno da Pino Daniele ad Enzo Avitabile, da Lina Sastri a Patrizia Lopez. Moltissimi sono stati prodotti proprio da te.
Ci racconti un aneddoto che rievochi, Renato, con particolare nostalgia?

Più che con nostalgia, con simpatica ironia. Io sono diventato produttore per puro caso. Quando conosco la Nuova compagnia di canto popolare, ero già ambientato a Milano, Venezia, Roma. Tornato a Napoli, mentre scrivevo della PFM, vengo rimproverato da Eugenio Bennato di non scrivere della Nuova compagnia di canto popolare! Io mi sento quasi sfidato. Vado ai loro concerti e scrivo articoli pubblicati su Ciao 2001 con lo stesso taglio con cui parlavo della PFM. Ancora, Eduardo Bennato l’ho prodotto quasi per caso: Eugenio Bennato mi chiede di dare una mano al fratello, Eduardo, appunto, che già da sette anni provava ad imporsi come cantautore. Che faccio? Frequento Eduardo, lo presento ai discografici ed Eduardo, originale, bravissimo, diventa subito un protagonista.

 

Renato Marengo è un conduttore radiofonico, produttore discografico, giornalista e critico musicale italiano, scrittore. Ideatore del Napule’s Power, è stato creatore e conduttore di Demo di Radio1Rai. E’ tornato di recente alla Radio con due trasmissioni diffuse su tutto il territorio nazionale: ClassicRockonAir e Suoni e parole dalla città. Dal 2012 è direttore responsabile del mensile Cinecorriere. E’ passato alla storia per essere stato l’unico giornalista ad aver intervistato Lucio Battisti (intervista che ha raccontato in due libri: l’ultimo dei quali Parole di Lucio). E’ direttore artistico di Terra Battente, del BandContest di RockContest di ClassicRock e coordinatore della Mostra C.A Bixio Musica & Cinema nel 900. E’ docente presso l’accademia di Cinema e Tv Griffith di Roma del corso di Musica da Film.
E’ stato coordinatore generale del settimanale Ciao 2001. Ha collaborato con le maggiori testate quotidiane e settimanali nazionali tra cui Sorrisi e Canzoni TV, Radiocorriere TV, Telepiù. È stato anche autore e conduttore di numerosi programmi Rai. E’ autore di “Napule’s power- Movimento Musicale Italiano” con la prefazione di Renzo Cresti, curato da Paolo Zefferi, Tempesta Editore.

Giuseppina Capone

Mario Fillioley: Sesso più, sesso meno

Mario Fillioley è un insegnante di lettere in una scuola pubblica, ha tradotto diversi libri dall’inglese. Ha un blog personale, Aribiceci.com, e un blog sul Post. Vari suoi racconti e reportage sono stati pubblicati su IL. Un suo testo fa parte dell’antologia Non si può tornare indietro, edita da Marsilio nel 2015. Ha scritto per Minimum Fax “Lotta di classe” e “La Sicilia è un’isola per modo di dire”.

Peppe e Arianna si vedono e fanno sesso; Luca fa il cameriere nella pizzeria dove i due ogni tanto vanno e si diverte a osservarli; tenta di sedurre Brigida; Sergio e Cristina sono i rispettivi ex di Arianna e Peppe, animati da sete di rivalsa.
Quanto ha attinto allo sterminato patrimonio della commedia cinematografica in una scoppiettante contaminatio fabulae?

Non so, la commedia è il genere cinematografico che amo di più, ma non ho mai avuto simpatia per quella degli equivoci. Uno dei film che invece continuo a rivedere costantemente fin da quando ero ragazzo è Bianca di Nanni Moretti, così come anche gli altri titoli di questo autore, specie quelli del primo periodo. Forse è per questo che i personaggi del libro sono tutti molto nevrotici e scombussolati, come quelli del avere cinema che amo, Moretti o di Woody Allen o Nora Ephron. Un altro gigante del cinema che rivedo e rileggo spesso è Neil Simon, dalle cui commedie sono stati tratti molti film di successo tra i ’60 e gli ’80, e anche lui è prodigo di personaggi nevrotici e ridicoli, con un tocco di patetismo che io trovo sempre molto ben riuscito.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Il libro prova a descrivere e a raccontare un certo tipo di relazioni sentimentali, soprattutto mettendo in risalto gli aspetti più folli e idiosincratici dei personaggi, e lo fa tramite dei monologhi: ognuno dei protagonisti parla di se stesso con se stesso, nessuno sembra capace di rivolgersi a qualcuno. Non c’è quindi un’idea generale dei rapporti umani, ma solo il disegno di alcune personalità un po’ grottesche, che forse esistono in tutti noi.
La narrazione si dipana tra la costa jonica e i paesi etnei. Di quale senso sono forieri i luoghi siciliani citati?
Tenere la Sicilia orientale sullo sfondo non è semplice, tende a rubare la scena. Quindi ho cercato di descrivere un ambiente normale, geograficamente connotato, dettagliato anche, ma quotidiano. Poche cartoline, insomma, e più realtà. Di sicuro incontrarsi davanti a un tratto di costa jonica, sebbene con alle spalle degli scempi edilizi o urbanistici, ha sempre un suo fascino, che può senz’altro irretire i sensi. Mi pareva però il caso di attenuare questo aspetto “magico” dei luoghi, e renderli semplicemente degli spazi abitati.
Quanto deve l’erotismo al senso di curiosità, ossia al fascino sperimentato nei confronti di un corpo che non è il proprio, alla promessa di una coincidenza, interiore ed esteriore, con l’altro?
Questa è davvero una domanda difficile cui non saprei rispondere. Il libro è umoristico, e sta molto attento a non avventurarsi in questione così complesse come quella dell’eros. Se si vuole saperne qualcosa esistono testi molto più adatti. Io, mentre scrivevo, ne ho tenuti vicino a me due: i minima moralia di Adorno e i frammenti di un discorso amoroso di Barthes. Ma più per conforto, come una specie di coperta di Linus, che non per ispirazione o consultazione.
Sesso più, sesso meno: quale significato sottende questa formula?
Il titolo viene dalle prime pagine del libro. Uno dei protagonisti formula una delle (tante) teorie che usa per proteggersi da potenziali ferite e nel farlo utilizza questa espressione, compiacendosi anche del suo conio linguistico. Sesso più/sesso meno , alla fine, non è altro che un luogo comune: il sesso più sarebbe quel sesso arricchito da innamoramento e prospettive future, il sesso meno sarebbe una sorta di ginnastica, conclusa la quale ognuno torna alla sua vita senza il minimo coinvolgimento. Ovviamente è una banalità, ma il personaggio si illude di aver sondato chissà quale grande concetto e si baloca molto con i passaggi e le analogie che lo hanno condotto a questa rivelazione, imbastendoci sopra tutta una serie di corollari e ricami.

Giuseppina Capone

Stefano Scrima: Ghost Generation

Stefano Scrima, filosofo e scrittore, si è formato tra Bologna, Barcellona, Madrid e Roma. Fra i suoi libri: L’arte di sfasciare le chitarre. Rock e filosofia (Arcana, 2021); L’arte di disobbedire raccontata dal diavolo (Colonnese, 2020); Vani tentativi di vendere l’anima al diavolo (Ortica, 2020);per Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018); per Il Melangolo: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (2019) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (2017); per Stampa Alternativa: L’arte di soffrire. La vita malinconica (2018) e Nauseati (2016). “SatisPhilo” è la sua rubrica di filosofia su Satisfiction.

Quali sono le ragioni per le quali coloro che sono nati negli anni Ottanta reputa che si ritrovino afflitti da un precoce senso di fallimento esistenziale?

I nati negli anni Ottanta sono i trentenni di oggi, una generazione che – lo dicono i dati, ancor prima che le sensazioni – non ha la possibilità di vivere come ha vissuto la generazione dei suoi genitori. Le condizioni sociali sono profondamente cambiate, al contrario della mentalità e dell’educazione, le quali, sono andate invece a cristallizzare i valori assoluti del sistema capitalistico nel quale siamo cresciuti, primo fra tutti il lavoro come mezzo di identificazione identitaria attraverso la quale raggiungere la propria realizzazione esistenziale. È fisiologico che venendo a mancare la possibilità di lavorare – intendo, in particolare, assecondando la propria formazione per cui si sono spesi tempo, energia e denaro, e la propria inclinazione (chiamiamola, se vogliamo, passione) – lo spettro del fallimento non può che aleggiare sulle nostre vite. Beninteso, non è che non ci sia più lavoro (anche se la disoccupazione giovanile e nella fascia dei trentenni rimane spaventosa), è che il lavoro, per adeguarsi e rispondere alle esigenze del cosiddetto mercato, ha messo completamente da parte il benessere della persona (e figuriamoci allora la sua realizzazione) precarizzandosi, svilendosi, svuotandosi dei contenuti sociali e di dignità per cui avrebbe ancor senso “cercarlo”. Un lavoro precario, sfruttato, senza tutele, senza prospettive, oggi sempre più diffuso e spesso unico orizzonte per chi si affaccia nel mondo degli adulti, quale sentimento potrebbe suscitare in chi è sottoposto a tale condizione? Chiaramente, come scrivo nel libro, esistono delle soluzioni concrete, politiche, per tentare di cambiare rotta, ma prima di tutto è necessario aver coscienza di questo tradimento sociale e mutare la mentalità tossica che fa sì che la colpa sia addossata a chi non si adegua. Non è così e non deve essere così. La rivoluzione culturale parte dal ribaltamento dei valori assoluti e mai indagati della modernità liquefatta, più che liquida. Il lavoro, ad esempio, soprattutto nelle condizioni in cui versa (ma è ovvio che va cambiato tutto, non si può andare avanti così, e finché non sarà messa al centro la persona non andremo da nessuna parte), non può più assumere le sembianze dell’unica dimensione delle nostre esistenze. Non siamo nati per lavorare e basta, schiacciati dall’angoscia di non riuscire a trovare o mantenere un qualsiasi lavoro. Abbiamo le risorse tecnologiche per immaginare e realizzare un mondo diverso, evidentemente mancano quelle morali, o semplicemente umane.

Lei adopera l’espressione “gioventù incenerita”. Quali sono le differenze tra la gioventù che realizzò il ‘48 de “L’educazione sentimentale” di Flaubert e la “gioventù bruciata” degli anni Cinquanta?

Probabilmente ogni generazione ha le sue ragioni per sentirsi fallita, ma la differenza della mia generazione – e per questo la chiamo “gioventù incenerita”, che non sta nemmeno più bruciando – è che vive come se fossimo alla fine dei tempi, come se dopo non potesse esserci più niente, alcun cambiamento, come se l’unico orizzonte possibile fosse quello che abbiamo sotto gli occhi, nel bene e nel male. E, ancora una volta, non è così. È un atteggiamento culturale tipico dell’ideologia capitalista, che si ritiene unica in grado di garantire il solo progresso utile all’umanità. È una gioventù incenerita anche perché, al contrario della generazione di Flaubert, o quella di James Dean, o quella del ’68, del ’77, ma anche della generazione X, sente di non aver realizzato nulla e avverte vivida la propria impotenza. Vive di ricordi mai vissuti. Se esiste una colpa per tutto questo non so di chi sia, ma di certo è la prima volta nella storia moderna, diciamo dalla Rivoluzione francese, che una generazione intera viene cresciuta senza alternative, chiedendole nient’altro che adeguarsi al sistema, fare il suo gioco e cercare di vincere qualcosa a discapito degli altri.

“Chi sono io?”, “Chi siamo noi?” Ebbene, come risponde ad un quesito identitario di tal fatta chi non ha un lavoro, risultando un inetto?

Eh, bella domanda. Nella nostra società se non hai un lavoro non sei nessuno o, meglio, sei un inetto, appunto. Oppure, se un lavoro ce l’hai, diventi quel lavoro, al netto della sua natura precaria, destabilizzante, ansiogena. Insomma, se non sei riuscito a ottenere un lavoro migliore è solo colpa tua. È ovvio che non è realmente così, ma il giudizio sociale, figlio di una mentalità subdola e ipocrita (in cui più sei ignorante e ti adegui allo stato delle cose meglio è e meglio vivi), pesa come un macigno. Non potrebbe essere altrimenti. Realizzarsi nel segno del proprio essere, diventare se stessi, come direbbe Nietzsche, non passa ovviamente attraverso il lavoro per come è inteso oggi. Passa invece attraverso la scoperta delle proprie qualità, dei propri talenti, nel riuscire a esprimere il potenziale che ognuno ha dentro di sé. Che sia attraverso un’attività remunerata o meno non dovrebbe incidere sul riconoscimento collettivo della persona, creando diseguaglianze economiche e morali che spesso si basano sulla malafede di chi vive solo per interessi personali a discapito della società (atteggiamento foraggiato dal sistema). Finché non costruiremo una società che ha a cuore la “fioritura” (termine che va tanto di moda, senza però che si metta mai in dubbio il sistema che fa di tutto per farci appassire) della persona, ma solo la quadratura economica improntata alla crescita infinita, le cose non faranno che peggiorare, e riconoscerci, trovare noi stessi, sarà sempre più difficile, se non addirittura impossibile.

Il meccanismo perverso del capitalismo oggi punta sul “sogno”. Qual è il valore commerciale del “sogno” e come si reagisce alla disillusione del sogno infranto?

Donne e uomini sono fatti per sognare, sono programmati così, non possiamo farci nulla. Leopardi, fra gli altri, ci aveva messo in guardia da questo sognare, pieno di splendide illusioni che nella maggior parte dei casi verranno disattese provocando in noi sentimenti di dolore, frustrazione e noia. E quindi? Bisogna smettere di sognare? No, mai. Sognare fa parte della vita e più è difficile tramutare il sogno in realtà più saremo felici, anche se, non contenti dell’obiettivo raggiunto, inseguiremo mille altri sogni fino alla fine dei nostri giorni. Detto questo, una società che cresce i suoi figli attraverso illusioni – nel libro parlo in particolare del sogno americano del “puoi diventare ciò che vuoi” e dell’italianissimo sogno del posto fisso –, andando a stimolare e creare sempre nuovi bisogni che non servono altro che ad alimentarla, è una società malata. Il consumismo di oggi ha sempre meno a che fare con gli oggetti, la merce, e sempre di più con le esperienze, i sogni, le illusioni. Siamo costantemente spinti da ogni dove a volere, desiderare, sognare. Per poi vedere i nostri sogni sgonfiarsi nel cielo dell’indifferenza. Non c’è modo di reagire a questo circolo vizioso se non smascherandolo, smettere di sognare in funzione del sistema e farlo per noi, per quello che siamo e vogliamo veramente. Impresa erculea, quando siamo stati plasmati proprio da questa cultura.

Perché la definizione di “Ghost Generation”?

Perché la disperazione e l’angoscia quotidiana dei trentenni di oggi non è riconosciuta. Per questo è una generazione dimenticata, fantasma. Per malafede, vergogna, incapacità, impotenza di chi potrebbe fare qualcosa e non lo fa. Certo, anche gli stessi trentenni dovrebbero fare qualcosa, ma non sanno cosa e soprattutto come, schiacciati come sono a vivere alla giornata e con prospettive ridicole. Serve un’alternativa, un modello culturale antagonista nel quale riconoscersi. Non esiste nulla di tutto ciò, soltanto un’unica narrazione che vuole che questo sia il miglior mondo possibile. Io mi chiedo solo quando ci stancheremo di tutto questo e inizieremo a rivendicare un po’ di futuro anche per noi.

Giuseppina Capone

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