Victoria Beckham unifica in un solo brand le sue linee di moda

Per Victoria Beckham è arrivato il momento di sintetizzare il suo stile in un unico brand, di fatti, non esisterà più la seconda linea Victoria Victoria Beckham, perché ogni proposta della designer farà parte della main line omonima a partire dalla Cruise 2022.  Questo notevole cambiamento è stato comunicato da Beckham e dalla CEO Marie Leblanc De Reynies. Non solo, il prezzo cambierà passando da 900 sterline a circa 550, con un entry price di 90 sterline. La mitica stilista di moda Jane How (famosa per il suo lavoro da Hussein Chalayan, Emilio Pucci e Stella Mccartney) è stata coinvolta nel team. Questa volta la Cruise 2021 mirerà a una clientela più giovane vista la linea stilistica  più Denim e Casualwear. Quattro collezioni l’anno saranno presentate da Victoria Beckham seguendo la stagionalità dei luxury brand: cruise, primavera/estate, pre-fall e autunno/inverno. “Ci siamo rese conto di quanto volessimo cambiare il nostro guardaroba aggiungendo pezzi più semplici come la t-shirt perfetta, maglioni, camicie e mixarli con pezzi più fashion. Senza compromettere la nostra desiderabilità, qualità o immagine. Siamo molto felici della collezione, non ci sono compromessi. Indosserò tutto di questa stagione” dichiara la designer durante la presentazione della Cruise 2022 nel periodo del lockdown.
La vita di victoria
Stilista, cantante e modella britannica, Victoria Caroline Adams nasce a Harlow il 17 aprile del 1974. Il 1996 fu l’anno del debutto delle Spice Girl (gruppo musicale britannico del quale faceva parte) e, aspetto fondamentale, suo grande trampolino di lancio nel mondo del successo.  Quando il gruppo si sciolse, Victoria, nel 2001, continuò per diversi anni la carriera musicale ma come solista lanciando diversi singoli pop e dance e pubblicando  anche un album “Victoria Beckham”.  In quegli anni anche l’aspetto amoroso della sua vita si realizzò sposando l’ex calciatore David Beckham con il quale diede alla luce quattro figli.
Verso la moda
Un altro grande sogno nel cassetto di Victoria era quello di poter entrare nel mondo della moda come designer. Decise allora di creare, insieme al marito, nel 2006, il marchio DVB Style, per il quale firmò una nuova collezione di jeans e una linea di profumo. Precedentemente, però, aveva già realizzato, nel 2005, i suoi jeans dal marchio VB Rocks, nel 2007 pubblicano il libro manuale di consigli di moda e bellezza  “That Extra Half an Inch: Heels and Everything In Between”. Successivamente Victoria inizia a dedicarsi solo ed esclusivamente alla casa di moda che porta il suo nome. Ogni anno, sulle passerelle della settimana della moda di New York, presenta le sue nuove collezioni. Victoria diventa, in dieci anni, una delle imprenditrici più famose della moda mondiale. Ancora, viene nominata Designer Brand of the year ai prestigiosi british fashion awards del 2011.
Alessandra Federico

Gianluca Barbera: Mediterraneo

Gianluca Barbera ha lavorato per anni in campo editoriale ed ha pubblicato racconti su riviste e in antologie oltre a diversi romanzi, tra cui Magellano (2018) e Marco Polo (2019), entrambi editi da Castelvecchi e vincitori di numerosi premi. Collabora con le pagine culturali de «il Giornale». Per Solferino ha pubblicato Il viaggio dei viaggi (2020).

Con Barbera parliamo del suo libro “Mediterraneo”.

Saremo anche rane che nuotano in uno stagno, ma quale stagno ha partorito così tante civiltà, così tante idee, così tanti mondi, e – perché no? – così tante guerre e tanti inganni?
Quali sono le ragioni per le quali ha scelto il Mediterraneo, spazio di inesauste lacerazioni ma anche di commistioni di culture?

È semplice. Il Mediterraneo è il cuore del mio mondo, del nostro mondo. Naturalmente il mio orizzonte non si esaurisce in esso, ho raccontato anche della prima circumnavigazione del globo di Magellano, e dei viaggi di Marco Polo.
Avventura e romanzo filosofico, echi di spy story e tragedia classica: quanto è stato influenzato dalle letterature che l’hanno preceduta?
Nella mia vita non ho fatto che leggere. Leggere e camminare. E osservare. In questo romanzo ho riversato dentro tutto. Secoli di letterature di ogni genere, di esperienze, di traguardi, di vite vissute. Mito, pensiero filosofico, tragedia, commedia, scienza. Una specie di opera-mondo. Di summa. Il tutto inserito dentro il corpo di un mistery. Non per nulla l’incipit recita: “Io qui celebro il mistero”. Dunque, un inno a tutto ciò che di misterioso ci circonda.
Lei sembra rievocare l’Odissea nelle peregrinazioni di Giovanni. Ha voluto dialogare con Omero?
Con Omero e con Dante. In fondo quello di Belisario è un percorso, anche allegorico, dall’oscurità a una qualche forma di conoscenza assoluta. L’ultimo capitolo ha il carattere quasi di un testo sacro. Non mi sottraggo, nessuna elusione dei molti interrogativi disseminati nel corso di tutto il romanzo.
Lei applica differenti prospettive ad altrettante corrispettive esperienze che l’uomo con le sue attitudini, peculiarità e tessuti relazionali, che gli sono caratteristici, si trova ad affrontare. Ritiene che la parola possegga la potenza per scarnificare l’uomo nella sua complessità e totalità?
L’uomo si trova da sempre di fronte a domande capitali. Per trovare le risposte è necessario guardare alle cose da tutte le angolazioni. La domanda filosofica capitale naturalmente è: perché esiste il mondo e non il nulla? In questo romanzo tento di offrire una risposta. Anche se è bene ricordare come la natura di un romanzo sia innanzitutto quella di porre domande, prima ancora che di offrire risposte.
Quanto è mutato il gusto dei lettori negli anni, considerando la sua attività non solo di scrittore ma anche di curatore editoriale e redattore di pagine culturali?
È cambiato moltissimo. Prima si tentava di adeguare il gusto dei lettori a quello degli scrittori; ora avviene il contrario.

Giuseppina Capone

Ilaria Mainardi: Il racconto di un sogno. Ritorno a Twin Peaks

Ilaria Mainardi con Les Flâneurs Edizioni ha pubblicato il romanzo La quarta dimensione del tempo (2020). Collabora con il sito di critica cinematografica www.spietati.it.

Nel Saggio da lei redatto si legge:“Twin Peaks. Il ritorno” parla con noi ma non parla di noi, se si vuole intendere un dialogo rassicurante e ligio alla più fintamente progressista omologazione postmoderna.”

Qual è il merito di David Lynch?

Non so se si possa parlare di merito, né se l’autore desideri fregiarsene, quindi parlerei di peculiarità. Una di queste è quella di aver portato avanti un percorso internamente coerente. Credo che Lynch sia riuscito a essere l’artista che voleva. E anche nel caso di lavori “sfortunati” – in pratica disconosciuti – come “Dune”, la sua impronta stilistica è ben presente, quasi oltre lui stesso e oltre la volontà che ha indotto la produzione a rimaneggiare pesantemente il film.

David Lynch e Mark Frost: un connubio che, a suo avviso, ha realizzato “un capolavoro”.

In qual modo ciascuno ha espresso le sue potenzialità, attitudini, peculiarità in un progetto “lungo quasi trent’anni”?

Come spesso accade nella storia di Lynch, gli incontri sembrano avvenire quasi per caso e perché devono avvenire proprio in quel momento. Con Mark Frost, l’incontro avviene per un progetto che avrebbe dovuto intitolarsi “Goddess” (oppure “Venus Descending”), incentrato sulla figura di Marilyn Monroe. «Di David mi colpirono la franchezza e il grande senso dell’umorismo», dice Frost a McKenna, intervistato per la realizzazione della biografia “Lo spazio dei sogni”, edita in Italia da Mondadori.

Il lavoro comunque naufraga perché la United Artists, che avrebbe dovuto produrlo, teme ripercussioni politiche, a causa dei rapporti della famiglia Kennedy con la sfortunata diva. “Goddess” era di certo un progetto distante, da un punto di vista narrativo, dal mondo di “Twin Peaks”, al di là della supposta assonanza Laura-Marilyn. Gli intenti stilistici non lo erano invece così tanto, dato che sia Frost che Lynch concordavano sulla necessità di un approccio immaginifico, onirico, poco ancorato allo stretto realismo. Il resto è storia, come si suol dire, benché tra i due sodali non siano mancate divergenze, anche importanti, durante gli anni di lavorazione di “Twin Peaks”, specie per quanto riguarda la seconda stagione.

Lei asserisce che il regista, artista e musicista si amalgami con gli spettatori “modificando e lasciandosi modificare dagli spettatori a ogni visione, stabilendo una connessione con la coscienza più che con la materia”

Qual è la relazione che Lynch intende stabilire con coloro che guardano?

Ritengo che si tratti di un dialogo infinito, ragione per la quale l’interpretazione è allo stesso tempo un processo affascinante e frustrante. Per quanto mi riguarda, la bellezza dell’arte (e quella di Lynch lo è a pieno titolo, in quella sua inesauribile stratificazione semantica e simbolica) risiede nel suo essere imprendibile, sfuggente a ogni tentativo di chiusura dogmatica. Lo sguardo modifica, direi chimicamente, l’opera ed è modificato da lei: questo rapporto apre una molteplicità di significati, variabili con il tempo – concetto che permea il corpus lynchiano –, con il portato esperienziale di ciascuno ecc.. L’arte di Lynch (l’arte) è fenomeno, ma anche noumeno.

Il lavoro è così pulsante che qualsiasi esegesi mi parrebbe profanatoria, quasi il tentativo di dissezionare un presunto cadavere che invece è una creatura fervente di vita”.

Ebbene, può esplicitare le caratteristiche di un linguaggio tanto ibrido ed eterogeneo?

Lynch si muove per “idee” (e la capacità di averne sempre di nuove va allenata), in parte definibili come intuizioni creative, anche se la locuzione non è del tutto soddisfacente. Prendiamo per esempio “Velluto blu”. Nella biografia a quattro mani di David Lynch (con Kristine McKenna), “Lo spazio dei sogni”, si legge la modalità secondo la quale il regista dichiara di aver proceduto. È singolare, ma rende molto bene l’idea (appunto!) di un processo creativo, capace di attingere davvero a qualunque elemento, ri-semantizzato poi secondo la propria immaginazione. Si crea un caleidoscopio che contiene arte, ma anche oggetti, solo in apparenza privi di senso, in realtà denotati da sensi abissali. Parafrasando, Lynch rivela che all’inizio sono arrivate una sensazione e il titolo, “Blue Velvet”. In seguito ha come visualizzato l’immagine dell’orecchio mozzato, che determina di fatto l’avvio del plot, con il ritrovamento da parte del personaggio interpretato da Kyle MacLachlan (una sorta di Agent Cooper ante litteram e suo malgrado).

Vi sono svariati aneddoti sulla falsariga del precedente.

Meditazione trascendentale, arte figurativa, sciamanesimo, filosofia, arte visiva, psicologia: discipline differenti per compiere l’analisi di “Twin Peaks. Il ritorno”.

Cosa l’ha indotta ad allontanarsi dalle norme della narratologia?

Questo lavoro è un saggio, ma anche un racconto: è un saggio raccontato, un lavoro che si pone dunque come ibrido. L’intento principale è stato quello di lavorare per rimandi, simboli, suggestioni, lasciando che fosse l’opera stessa, il suo incessante parlare, a fare da guida. La consapevolezza di non poter – e a un certo punta quella di non voler – approdare in nessun porto sicuro è stata paradossalmente la sola, vera ancora della quale potevo disporre. Ho dunque stabilito un vero e proprio dialogo, complesso e mai rassicurante, con “Twin Peaks. Il ritorno” e ho cercato di ri-creare un percorso: mio, certo, ma anche condivisibile con gli altri. Ogni viottolo conduce a un’altra diramazione: non mi interessava inventarmi Verità, con la maiuscola, che non posseggo, ma fornire, nel mio piccolo, lo spunto per porsi ulteriori domande, per viaggiare ancora in mare aperto.

Giuseppina Capone

Il corpo, il rito, il mito

Bruno Barba è ricercatore di Antropologia del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Genova. Studia il meticciato culturale soprattutto in Brasile; l’altra sua area di ricerca è lo sport nei diversi significati antropologici. Tra le sue pubblicazioni: Un antropologo nel pallone (Meltemi 2007), Dio Negro, mondo meticcio (Seid 2013); Rio de Janeiro (Odoya 2015); Calciologia. Per un’antropologia del football (Mimesis 2016); Meticcio (Effequ 2018); 1958. L’altra volta che non andammo ai mondiali (Rogas 2018).

Con lui abbiamo parlato de “Il corpo, il rito, il mito. Un’antropologia dello sport”.

Il corpo potrebbe, oggidì, essere reputato un «fatto sociale totale» atto a decodificare dinamiche culturali di carattere più generale?
Certamente sì. Il corpo parla, grida, rende esplicite provenienze, caratteristiche, cambiamenti, ideologie. Stili di vita e di concezioni dell’arte e dell’estetica. Insomma dire che il corpo è natura non soltanto è riduttivo: è semplicemente errato, fuorviante.
Nel suo testo si legge “L’Antropologia studia linguaggi, miti, rituali, divinità, dinamiche identitarie”. Ebbene, quali sono le ragioni per cui tale Scienza sociale ha accantonato lo sport?
Vi sono varie ragioni, a seconda dei tempi e dei luoghi. In molte parti del mondo ha fatto breccia un’idea molto precisa e cioè, che lo sport rappresentasse qualcosa di strumentale al potere, l’oppio dei popoli, una droga per persone semplici, non in grado di discernere e che andassero semplicemente gratificate dal panem et circenses. Le scienze sociali poi, e in particolare l’Antropologia, si sono occupate per decenni di politica, struttura sociale e familiare, arte: un’attività così legata al corpo e al ludus non godeva insomma di uno status tale da raggiungere la dignità per essere studiata.
Nel 1931 Raymond Firth pubblica sulla rivista “Oceania” l’articolo “A dart match in Tikopia”. In quali direzioni si è evoluta l’Antropologia dello Sport?
In una direzione direi al passo con i tempi: si cercano i significati “densi”, le connessioni con la politica, l’economia, la religione, le dinamiche identitarie. Oggi chi potrebbe negare che su temi quali la decolonizzazione, il razzismo, la globalizzazione, il meticciato culturale, le rivendicazioni identitarie, fenomeni così caratterizzanti l’era moderna, le dinamiche dello sport non interferiscano?
Clifford Geertz elabora il concetto di “densità”. Quale definizione e spiegazione può fornire circa quello che è uno degli elementi su cui si fonda lo studio antropologico dello sport?
Dire che una partita di calcio è “semplicemente” una partita, che un match di boxe come quello del 1974 a Kinshasa tra Muhammad Alì e George Foreman nient’altro che un incontro di pugilato, e che il Super bowl è la finalissima del campionato di baseball e poco più significherebbe non aver colto il messaggio dell’antropologo americano. Geertz ci ha parlato del combattimento di galli a Bali, dimostrando, di fatto, come funzionasse quella società: noi abbiamo la chance di comprendere tantissimo della geopolitica, delle migrazioni e di tanti altri fenomeni della modernità, delle rivendicazioni identitarie, come dell’impegno a favore della comunità LGBT+ prestando attenzione a quello che avviene prima durante e dopo un incontro di qualunque sport. Basta avere la consapevolezza, appunto, della densità di questi avvenimenti, che sono solo apparentemente sportivi.
Considerati i frequenti fatti di cronaca, anche bui, quale connubio ritiene possa essere stabilito tra sport e civiltà?
Quando accadono dei fatti negativi all’interno del mondo dello sport, consciamente o meno tutti noi partecipiamo di pulsioni contraddittorie. Da un lato, è forte la tentazione di cavarsela chiamando in causa la metafora dello “specchio della società”: una comunità malata, razzista, violenta, corrotta non può che produrre uno sport di tal fatta. Dall’altro lato si ricorre spesso all’idea – utopica e comunque esageratamente ottimistica – che lo sport debba essere un’isola felice, un ambiente autoreferenziale, avulso da contatti pericolosi e popolato insomma da esseri speciali, super partes, nel quale la legge è uguale per tutti e viene premiato sempre il più meritevole. Naturalmente le due idee si intersecano, spesso vengono strumentalizzate o cavalcate in mala fede; certamente lo sport dovrebbe darci esempi fulgidi – lo ha fatto e lo continua a fare -; ma se è vero che è soprattutto un “fatto sociale totale” come può rimanere impermeabile rispetto alla cultura nella quale è immerso?

Giuseppina Capone

Finalmente in scena…. con il Marconi

Attendevamo con ansia la conclusione del progetto “Il Marconi va in scena… al tempo di Covid” che ha visto a causa della pandemia una necessaria trasformazione perché potesse realizzarsi.

La prima si terrà online alle ore 17.30 del 30 giugno 2021.

 

Filippo Brunelleschi: l’inventore della prospettiva a punto unico di fuga

Filippo Brunelleschi è stato l’inventore della prospettiva a punto unico di fuga. Nasce a Firenze nel 1377. Architetto, orafo, ingegnere, scultore, scenografo del Rinascimento, Brunelleschi diede vita  alla figura dell’architetto moderno.

Inventore di una concezione dell’architettura  (che avrebbe dominato la scena artistica europea ) è da sempre considerato il pioniere del Rinascimento italiano.

Brunelleschi proponeva nuovi sistemi progettuali basati sulla modularità delle strutture, rifacendosi al linguaggio degli antichi attraverso un approfondito studio. Questo appassionato studio, portò Filippo a recarsi frequentemente nella capitale italiana. Ma fu l’invenzione della prospettiva a punto unico di fuga ad essere la chiave di volta del cambiamento culturale e tecnico convergendo le ortogonali verso un unico punto di fuga, si costruivano, così, le regole scientifiche per misurare la diminuzione in profondità dei corpi inseriti nello spazio. Fu proprio  Brunelleschi ad essere uno tra i primi a usare regole e relazioni numeriche bella costruzione architettonica dello spazio e nella rappresentazione figurativa.

La figura di architetto moderno

L’artista fiorentino ripropose l’architettura classica come esempio delle sette misurabilità dello spazio. Per dare la dimostrazione che la realtà dello spazio architettonico si potesse sottoporre a  formule matematiche. Grazie a Filippo Brunelleschi si inaugurò una nuova figura sociale di architetto: un intellettuale, colto e aggiornato, che preparava dettagliatamente un progetto con la giusta preparazione. Ormai il nuovo architetto era una figura ben definita con valori propri che si cimentava nel campo dell’innovazione artistica con uno spirito libero. Brunelleschi era, assieme a tanti altri artisti nei primi sessant’anni del Quattrocento, pronto nel delineare un’arte nuova e una nuova figura di artista a Firenze.

Nel 1401 si svolse il concorso bandito dall’arte della lana per la seconda porta bronzea del Battistero di Firenze (tema biblico del sacrificio di Isacco) il giovane artista fiorentino aveva poco più di vent’anni quando riuscì a stupire tutti grazie al modo in cui aveva svolto il tema proposto: nel rilievo, il passaggio ha un carattere energico perché l’intento dell’autore era quello di valorizzare, con la struttura geometrica della composizione, il carattere umano ed emotivo di un evento non rituale ma attuale. Donando così all’opera un chiara manifestazione di un’arte e di un’epoca nuova.

L’invenzione della prospettiva a punto unico di fuga

Filippo Brunelleschi fu l’inventore del nuovo metodo prospettico. Egli applicò, alla rappresentazione pittorica, principi dell’ottica medioevale legati alla proprietà degli specchi: due tavole raffiguranti due paesaggi fiorentini tra cui il Battistero osservato dalla porta del Duomo e Piazza della Signoria vista dall’angolo nord occidentale della piazza. Le tavole andavano guardate da dietro (e non frontalmente)  attraverso un foro che era stato applicato in esse e riflesse in uno specchio, in modo tale che l’occhio dello spettatore si disponesse  nella posizione più corretta rispetto all’immagine in coincidenza con il punto di fuga. Non solo, unificato dalle ortogonali di profondità e alla distanza voluta dall’immagine.

Brunelleschi continuava a studiare la proporzione degli edifici e le tecniche di costruzione durante il suo soggiorno a Roma fra il 1402 e il 1404. Fu decisamente fondamentale per la sua formazione architettonica e di fatti, tornato nella sua città natale, progettò nuove idee; per lui l’architetto, da quel momento in poi, avrebbe dovuto inventare la struttura d’insieme dell’edificio in termini metrici e proporzionali in quanto da essi dipendeva il valore e la bellezza dell’opera. Abolì la sovrastruttura dei particolari decorativi dell’architettura gotica. L’assunzione degli ordini antichi servì a limitare a una ridotta e correlata casistica, l’indeterminazione strutturale e decorativa del gotico, secondo le regole antiche.  L’ospedale degli innocenti (commissionato dall’arte della seta nel 1419) fu il più antico progetto di Brunelleschi, il primo edificio classico realizzato dopo la fine dell’era antica. La dimostrazione di un teorema ritmico dove forme geometriche diverse, elementi sferico e cubici, spinte verticali e orizzontali si possono accordare, lo si trova,  senza dubbio nella sagrestia vecchia di San Lorenzo (1422 – 1428) dove Brunelleschi si trovò nella situazione di dover risolvere il rapporto tra spazi strutturalmente analoghi. Ha avuto invece modo di svilupparsi nelle due Chiese di San Lorenzo e Santo Spirito, il rapporto che l’artista aveva con la traduzione medioevale fiorentina. In entrambi i casi si trattò di una ristrutturazione di architetture già esistenti.

La sua più complessa ristrutturazione fu la cupola di Santa Maria del Fiore. Impiegato dal 1417 fino alla morte. Ancora, tra  1434 e il 1436 gli  venne  commissionata, dall’arte di Calimala, la rotonda di Santa Maria degli Angeli.

La cupola di Santa Maria del Fiore

La capacità di approntare gli strumenti atti a portare a compimento l’opera e la corretta pianificazione delle fasi di lavoro furono, per Brunelleschi, un geniale metodo di ideazione e costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore. L’uso di una struttura portante in ogni fase del lavoro, fu la grande innovazione introdotta dall’architetto nella costruzione della cupola: non era più possibile utilizzare le armature in legno, Filippo adottò una doppia calotta interna ed esterna, semplificando e irrobustendo la costruzione e facendo poggiare quella esterna parallela alla prima, su ventiquattro supporti innalzati sopra gli spicchi della cupola interna.

Aveva organizzato un sistema di illuminazione delle scale e dei corridoi a vari livelli, tra l’involucro interno e quello esterno della cupola, inserendo dei punti d’appoggio in ferro per agevolare il passaggio. Il motivo per il quale venne affidata la cupola a Brunelleschi era dovuto alla sua eccellente e coerente presentazione del piano di lavoro per la sua costruzione.

Brunelleschi lavorò alla cupola fino alla sua morte. Fino al 15 aprile 1446.

Alessandra Federico

Mariano Fortuny: lo stilista inventore della plissettatura

Mariano Fortuny è stato uno stilista, designer, e pittore. La sua conoscenza dei motivi decorativi e lo studio sistematico delle tecniche di stampa e soprattutto la forte dedizione all’arte (trasmessa dai suoi genitori), gli consentì di sperimentare combinazioni diverse di pigmenti. Grazie a queste tecniche ottenne effetti cromatici mai avuti da nessuno prima di allora.

Mariano Fortuny y Madrazo nasce a Granada il 3 maggio del 1871. La madre di Mariano, invece, si chiamava Cecilia de Madrazo ed era la figlia dell’artista Federico de Madrazo e nipote di Josè de Madrazo. Il padre di Mariano era il pittore catalano Marià Fortuny i Marsal. Quest’ultimo, però, venne sfortunatamente a mancare quando il piccolo Mariano aveva appena compiuto 3 anni. Presa dal forte dolore, Cecilia fu spinta alla decisione di cambiare vita trasferendosi a Parigi assieme a Mariano dove iniziò a dedicarsi all’arte per la prima volta.

All’età di diciotto anni, il piccolo aspirante pittore si trasferì, assieme a sua madre, a Venezia dove aprì il suo laboratorio nell’allora Palazzo Pesaro Orfei. Da quel momento in poi Mariano dedicò tutto sé stesso alle sue più grandi passioni: la pittura, l’incisione, la scenografia, la scenotecnica e le arti applicate e non solo, assieme con sua moglie Hnriette Negrin  diedero vita  a meravigliosi creazioni di moda recuperando l’abbigliamento greco, le stampe di Morris e altri particolarissimi motivi decorativi catalani. Ancora, fu in grado di realizzare uno stile nuovo caratterizzato da lunghe tuniche “Delphos” realizzate con tessuti leggeri lavorati a sottilissime piegoline, dando così origine ad una delle tecniche ancora oggi più usate (e ottenendone il brevetto nel 1909): la plissettatura.

I meravigliosi tessuti artistici sono ancora tutt’oggi realizzati con le stesse tecniche e macchinari che Fortuny stesso fondò.

Il successo a Parigi

Famosi artisti di teatro erano lieti di frequentare lo studio di Fortuny, e per l’inaugurazione di un teatro parigino nel 1906, egli disegnò i costumi di scena tra cui grandi scialli in seta stampata (Knossos).

Il giovane stilista amava frequentare anche il laboratorio di Paul Poiret, dove iniziò esperimenti per la stampa dei tessuti  e colorazione delle stoffe grazie  alla collaborazione di chimici esperti di coloranti. Nel giro di pochissimi anni il laboratorio veneziano di Palazzo Orfei aveva oltre un centinaio di lavoranti.

Nel 1927 Elsie McNeill, decoratrice d’interni americana, affidò  a Mariano i diritti esclusivi sulle vendite dei suoi prodotti negli Stai Uniti. Da lì  a poco fu aperto, a New York, un punto vendita di stoffe Fortuny al 509 di Madison Avenue in collaborazione con il noto rivenditore all’ingrosso di tessuti Arthur Humpret Lee. Nello stesso periodo la rivista Vogue dedicò un articolo agli abiti di Fortuny, ma con la grave crisi mondiale economica del 1929 i tentativi di conquista del mercato americano furono ridimensionate nettamente, e, negli Anni ‘30, le vendite all’estero diminuirono sempre più a causa anche dell’introduzione dei divieti di importazione di cotoni, velluti e sete così, nel 1951, la società Fortuny chiuse definitivamente. Ma la stima per le creazioni di Fortuny da parte della contessa americana era immensa, difatti, lo aiutò nella sua carriera in America tanto che,  in uno dei musei più importanti come il Metropolitan Museum di New York, inserirono le stoffe e gli abiti Fortuny nelle loro collezioni.

Mariano Fortuny morì all’età di 78 anni a Venezia il 3 maggio del 1949.

Alessandra Federico

Alta Roma torna a Cinecittà, Roma torna capitale della moda

Roma diventa protagonista dell’alta sartoria maschile e femminile, quando, nel 1871,  subisce una forte trasformazione economica, culturale, politica e di costume. L’insediamento della corte sabauda, l’avvento del personale ministeriale, danno il via ad una severa ricerca dei migliori sarti italiani.

Da lì a poco le vetrine dei negozi della Roma di fine Ottocento si arricchiscono di meravigliosi abiti sartoriali mentre gli abiti confezionati, invece, riempiono i grandi magazzini nel primo Novecento.

Con la nascita degli atelier, la fondazione delle prime case di moda e delle griffe dell’alta sartoria romana, (grazie alla precisione nei tagli e nei ricami a mano) la moda femminile diventa autarchica, ispirata ai modelli francesi, grazie soprattutto ai primi tentativi dell’indipendenza femminile, diventando i capi più ricercati dai vip e dai reali di quel tempo. Roma diviene, così, capitale della moda.

Alta Roma

“I nostri designer sono gli ambasciatori delle più alte espressioni dell’artigianato e sartorialità del made in Italy, tornare a sfilare in presenza è un segnale forte che vogliamo dare per ribadire l’importanza di Altaroma, come punto di incontro e di promozione per tutte quelle giovani realtà indipendenti che vogliono iniziare il loro percorso all’interno del sistema moda”. Dichiara Adriano Franchi, direttore generale di Altaroma.

Difatti, Alta Roma è un vero e proprio trampolino di lancio per i nuovi stilisti emergenti poiché da loro la possibilità di presentare le loro creazioni e realizzare i loro sogni.

Alta Roma torna a farci sognare. Gli studi di Cinecittà a Roma a ospiteranno la prossima edizione della Roma fashion week dal 7 al 10 luglio.  Per garantire le distanze di sicurezza segnalate dalle normative anti Covid-19 per i designer saranno presenti una ristretta selezione di addetti ai lavori. La Roma fashion week sarà disponibile in tempo reale sulla piattaforma online Alta Roma Digital Runway.

Il calendario di sfilate e performance verrà svelato nei prossimi giorni. Lo storico concorso promosso da Altaroma e Vogue Italia, come sempre, premierà il vincitore di Who is on next? Ancora, non mancheranno i brand di Showcase. Si tratta di un progetto della manifestazione che ha selezionato 72 designer (tra cui 30 nuovi) che permetterà loro di entrare in contatto e iniziare nuove collaborazioni con i buyer e tanti altri grandi gruppi. Roma fashion week Verrà trasmessa in live- streaming ogni giorno e si aprirà con fashion talk organizzati con la 24ore Business School.

Alessandra Federico

Il Marconi in scena al tempo dei Sedili con la regia di Antonio Vitale

All’I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania fervono le prove e le riprese del musical “Il Marconi va in scena… al tempo del Covid”. Nato originariamente come “musical”, con il sostegno del MiBAC e di SIAE nell’ambito dell’iniziativa PER CHI CREA, ha dovuto necessariamente fare i conti con tutte le problematiche legate al Covid-19. Partito per essere rappresentato in teatro, a causa del Covid, ha subito una rivisitazione per renderlo fruibile online. Molti i giovani coinvolti nell’iniziativa del Marconi che da anni, con la dirigente scolastica Giovanna Mugione, ottiene prestigiosi riconoscimenti per tante delle iniziative didattiche che realizza.

Parliamo del musical con Antonio Vitale, attore teatrale, cinematografico e televisivo. Da qualche anno Vitale si cimenta nella regia teatrale di alcuni lavori, curandone di solito la drammaturgia o l’adattamento. Dirige laboratori teatrali presso accademie di danza, scuole elementari e medie inferiori.  

Come giudica l’esperienza delle attività di laboratorio teatrale a scuola?

Estremamente positiva. Quando si ha la possibilità di dirigere un laboratorio teatrale in una scuola è sempre, per noi professionisti dello spettacolo, un’occasione buona per far appassionare i ragazzi a questo mestiere, per fare apprezzare il lavoro duro che c’è dietro la realizzazione di uno spettacolo in tutte le sue sfaccettature.

Quanto è complesso fare la regia di un evento che vede protagonisti giovani studenti che non hanno mai recitato?

Sembrerà strano ma dirigere ragazzi e ragazze che non hanno mai recitato non è così complesso come si potrebbe immaginare perché riscontri in loro la voglia di imparare e l’entusiasmo di conoscere,  che li porta a seguire con attenzione le delicate fasi  della costruzione di un personaggio. Curare la regia, in generale, è comunque complesso in quanto il regista deve tener presente i tanti aspetti dell’allestimento di uno spettacolo, dalla direzione degli attori al disegno luci dello spettacolo. Un lavoro difficile ma allo stesso tempo gratificante ed affascinante.

Parliamo dell’esperienza che sta vivendo all’Istituto “G. Marconi” di Giugliano, dove state provando il musical “Il Marconi va in scena…al tempo del Covid”…

L’esperienza che sto vivendo nello specifico, per me, rappresenta una ripartenza come professionista dello spettacolo e mi auguro sia vera non solo per me ma per tutti i miei colleghi e colleghe, che vivono solo ed esclusivamente di teatro. In tal senso sono molto fiducioso. Inoltre è un arricchimento umano ed artistico. Umano perché in questo contesto ho trovato collaboratori efficienti, ognuno con una rispettiva professionalità, rispettosi del proprio ruolo, mettendo a servizio dello spettacolo le loro singole competenze. Una bella squadra. Poi ci sono i ragazzi, una sorpresa continua. Si sono catapultati in questa esperienza con tanto entusiasmo e stanno riscoprendo che, oltre ai cellulari e ai social, esiste anche un altro modo per trascorrere il tempo. Mi stanno dando molto. Artistico perché ho la possibilità di sperimentare linguaggi teatrali nuovi dal punto di vista registico.

Il Covid 19 ha rivoluzionato il progetto originario?

Sì, purtroppo. Ciò, però, non ci ha fatto alzare bandiera bianca anzi ci ha dato ancora di più la forza, nonostante le difficoltà del periodo che stiamo vivendo, di riprendere questo bellissimo progetto, rivedendolo in alcuni suoi aspetti e adattandolo alle misure restrittive, dovute all’emergenza sanitaria.

In che misura?

Abbiamo fatto di necessità virtù. Abbiamo dovuto sacrificare alcune scene per lavorare in sicurezza e ciò ci ha portato a riscrivere il testo, con l’ausilio dell’autore, Giuseppe Desideri. Purtroppo non ci potrà essere la messa in scena in teatro ma allo spettacolo si potrà assistere attraverso il linguaggio audiovisivo, con l’augurio di portarlo in teatro appena sarà possibile, restituendogli la sua vera natura.

Come stanno rispondendo i giovani attori a questa esperienza che li vede protagonisti?

I giovani attori e le giovani attrici stanno rispondendo con grande entusiasmo tanto è vero che stanno lavorando molto bene, mettendo a frutto tutte le indicazioni che vengono date loro. Vorrei, però, menzionare anche le ragazze, non coinvolte nel progetto come attrici, che stanno realizzando un ottimo lavoro per quanto riguarda il backstage e con loro è giusto menzionare anche tutti i ragazzi dell’audiovisivo, impegnati come operatori. Emerge un gran bel lavoro di squadra senza egoismi personali e ciò mi riempie di gioia. La dedizione che i ragazzi stanno mettendo nel lavoro, appassionandosi, mi fa ben sperare nel futuro.

Che cosa consiglierebbe ai giovani che volessero diventare registi?

Quello che consiglio anche a chi vuole intraprendere la carriera di attore ovvero studiare per realizzare il proprio sogno, perseguire più l’ “essere” che l’ “apparire”. Il talento da solo non basta, serve innaffiarlo con lo studio e i sacrifici. Vivo di teatro sia come attore che come regista e, a suo tempo, quando feci questa scelta di vita, valutai più i “contro” che i “pro” di questo meraviglioso mestiere. Alle ragazze e ai ragazzi, che ho avuto la fortuna di conoscere nell’ambito di questo progetto, dico di non arrendersi mai alle prime difficoltà ma di seguire i propri sogni ed avere la giusta determinazione per realizzarli.

Orsola Grimaldi

Francesca Sensini: La lingua degli dei. L’amore per il greco antico e moderno

Francesca Sensini è professoressa associata di Italianistica presso la facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Université all’Université Côte d’Azur de Nice, dottoressa di ricerca dell’Università Paris IV Sorbonne e dell’Università degli Studi di Genova. Comparatista di formazione, dedica principalmente le sue ricerche alla letteratura italiana tra XVIII e XX sec., alle riscritture e all’ermeneutica dell’antichità classica in Europa e agli studi di genere in ambito letterario. Tra le sue pubblicazioni più recenti Pascoli maledetto, Genova, Il Melangolo, 2020; Marise Ferro, La guerra è stupida, a cura e con un saggio introduttivo di F. Sensini, Sestri Levante, Gammarò, 2021; La lingua degli dei. L’amore per il greco antico e moderno, Genova, Il Melangolo, 2021.

Lei ripercorre una storia ininterrotta, che va da Omero ed arriva fino ad oggi.
Cosa ha inteso illuminare, sottraendolo al buio della nostra dimenticanza?

La storia ininterrotta è quella della Grecia, del suo popolo e della sua lingua sullo sfondo del Mar Mediterraneo. Per un errore di prospettiva, legato alla nostra tradizione culturale, centrata sul destino di Roma, nel nostro immaginario tendono a esistere due Grecie, se così posso dire: da una parte l’antica, modello insuperabile di civiltà, oggetto di studi specialistici ed elitari; dall’altra, la Grecia moderna, di cui perlopiù ignoriamo la storia e la cultura, ridotta com’è a paese vacanziero, scintillante sfondo di cartolina, lembo marginale dell’Europa e sua infelice membro. Invece no, la Grecia è una e come tale va guardata per essere davvero compresa e conosciuta nella sua millenaria avventura, nel suo modo unico di essere nostro specchio e, insieme, prefigurazione di noi stessi, della nostra storia di individui e di comunità. Così, nella pagine di questo libro vago – e divago – dal IX sec. a. C., il tempo di Omero, che a sua volta ci racconta storie ancora più antiche, risalenti al XIII- XII sec. a. C., per arrivare ad oggi, 2021, anno in cui la Grecia festeggia la rivoluzione nazionale che l’avrebbe resa di nuovo una nazione indipendente. Ho tentato così di illustrare l’esperienza di questo paese mirabile e ammirevole attraverso ventiquattro racconti/riflessioni portati alla mia fantasia dalle parole, sia del greco antico che del moderno, come altrettante conchiglie risalite fino a me sulla riva del mare, provenienti chissà da dove, levigate da chissà quali correnti. Al di fuori del discorso specialistico, scientifico, ho voluto ‘illuminare’ il mio amore per questa patria ideale, contradditoria, magmatica, imperfetta, e per questo vivissima, sottrarre all’ombra della dimenticanza e a una memoria inerte, fossilizzata dal culto della tradizione, la Grecia di sempre attraverso il mio legame con lei, partendo da me per rivelarla agli altri, a chi il greco lo ignora del tutto o a chi invece lo conosce da studioso, a chi ama la Grecia d’istinto o a chi la venera per infinite ragioni. Ho tentato quanto meno, raccogliendo frammenti di storie.
Guerra di liberazione, combattuta con orgoglio, e reazione ad una devastante crisi economica.
Ravvede un medesimo moto d’animo, squisitamente greco, che cavalca i millenni?

Tra le qualità che davvero sembrano modellare lo spirito del popolo greco c’è sicuramente il senso di appartenenza a una civiltà che si distingue per la sua aspirazione alla libertà, intesa come espressione piena dell’umano e come condizione relazionale, che tiene conto degli altri intorno a sé, della comunità, e desiderio di fare e conoscere non sottoposto a catene, a dogmi. Altro tratto distintivo è senz’altro la capacità di accogliere in sé il concetto di alterità ed elaborarlo. I Greci sono viaggiatori, migranti, filosofi con la mente e con il corpo. Nella loro lingua il “dubbio” è l’ostacolo che si frappone al loro movimento, l’assenza di passaggio, l’a-poria in senso etimologico. Non è un caso per me. Dalle grandi battaglie di Maratona e Salamina nel V sec. a. C, quando l’impero persiano del Re dei Re, ricchissimo e strapotente, viene sconfitto contro ogni logica aspettattiva da una manciata di soldati coraggiosi fino alla follia e da poche navi inadatte gli scontri navali, fino allo scempio che del paese è stato fatto da una politica rapace e amorale, con la svendita del suo patrimonio nazionale a ricchi compratori esteri, la Grecia continua a opporre la sua resistenza. La Grecia ci insegna da sempre che esiste sempre un processo alternativo alla mera sopravvivenza, che qualcosa può sempre (e deve) accadere, se non ci lasciamo invadere dalla paura, ci insegna la “resistenza”, l’antístasi, il “mettersi davanti e contro qualcosa”, “l’opporsi”, che è tutto il contrario della “resilienza”, l’anthektikótita, quell’idea oramai corriva e detestabile che porta in sé l’idea che la vita non si possa liberare da quanto la opprime, la schiaccia, le spreme via energia e che in greco infatti rinvia al verbo “sopportare”.
Il testo è un encomio che non intende palesare le sue ragioni con ragionamenti logici bensì con i racconti che le parole recano con sé: quelle antiche e quelle moderne. La prima è, appunto, “memoria”.
La Grecia è una “questione” di memoria?

Sì, è una questione di memoria. La parola “memoria” è la stessa in greco antico e moderno, mnéme, μνήμη (oggi pronunciato mními). La lingua e la civiltà greca sono la nostra memoria comune. e non sto parlando di tradizioni. Il discorso del mio libro non è motivato da un’astratta venerazione per i modelli di una cultura dominante, per un bagaglio educativo considerato aprioristicamente illustre e ridotto con il passare del tempo a tecnica o ginnastica mentale. Si tratta di un dato storico e di civiltà. Ugo Foscolo – poeta che consideriamo senza farci troppe domande italiano ma in realtà greco delle Isole ioniche – lo riconduce alla possibilità di definire noi stessi. In una lettera del 1808 al diplomatico prussiano Jacob Salomo Bartholdy, il poeta dice più o meno questo: finché mi ricorderò chi sono, mi ricorderò della Grecia. La Grecia di Foscolo non è solo la sua terra di origine né solo la sua patria (anche l’Italia lo fu, dopo tutto). la Grecia, e quella che si chiama grecità, come a dire l’essenza della nazione, sono il paesaggio su cui si delinea la nostra figura, lo sfondo del nostro ritratto. Possiamo dire di no, far finta di niente obiettando che in fondo è roba antica, difficile, morta, ma sarebbe una rimozione, oltre che una clamorosa falsità. e a privarci di una risorsa vitale, mortificando le possibilità della nostra fantasia, saremmo tristemente noi, in ogni caso.
Omero e Kavafis: Grecia antica e Grecia moderna. Può instaurare qualche relazione e qualche confronto?
Greco di Istanbul nato ad Alessandria d’Egitto, l’antica “Parigi” ellenistica e ancora nell’Ottocento città cosmopolita, Kavafis è senz’altro un luminoso esempio di uomo e poeta autenticamente mediterraneo e perfettamente greco. La Grecia è diffusa nel Mediterraneo, è il viaggio che conta, non l’approdo, per evocare il testo di Kavafis forse più noto, Itaca, ispirato al personaggio di Odisseo/Ulisse. L’ispirazione di Kavafis, così come l’uomo Kavafis, è errante nello spaziotempo – ha cantato il mondo ellenistico pagano, l’impero di Costantinopoli, il suo profondo smarrimento nel presente – come errava Omero, poeta girovago di isola in isola, in tutto simile ai colleghi aedi di cui racconta nell’Iliade e nell’Odissea, Demodoco e Femio. Anche Omero errava col corpo e con la fantasia, pescando a piene mani nei secoli bui dove gli audaci Achei del Meditteraneo occidentale guerreggiavano contro i ricchi orientali di Troia per avere con sé la Bellezza, che i Greci hanno chiamato Elena e che meriterrebbe davvero un libro a parte. Le corrispondenze non mancano e accanto a Kavafis i nomi delle grandi voci della Grecia moderna sarebbero tanti quanti i nomi dei condottieri nel catalogo delle navi di Iliade, II (iperbole epica, mi sia concessa).
Può indicarci un particolare della “sua” Grecia, un elemento per lei inconfondibile?
La “mia” Grecia è uno scrigno senza fondo di storie – i “miti” che sono, etimologicamente, le “parole” pronunciate, dette a voce alta, condivise in uno spazio comune perché diventino codice comune, legame comunitario, emozione condivisa – storie forse mai veramente avvenute, storicamente indocumentabili, galleggianti come relitti nel mare del tempo, ma che, di fatto, sono sempre perché sostanziano il mistero dell’esistere; del nostro di occidentali, di europei, in particolare. È una Pandora al contrario. Non apre il contenitore da cui escono, diffondendosi irrimediabilmente, i mali nel mondo. Dal suo píthos escono doni di ogni genere: possibili strategie per mettere ordine nel disordine del mondo, per sfruttare a proprio vantaggio il disordine stesso dell’essere, parole e pensieri lontanissimi da nostri con cui rinnovare noi stessi e la realtà che ha smesso di meravigliarci. D’altra parte, Pandora significa “colei che è tutto un dono”. Così tutto torna, come si dice. La “mia” Grecia è la domanda ricorrente sull’arché, sul principio: com’è davvero cominciato tutto? La Grecia continua a formulare con me le sue ipotesi, a farmi intravedere risposte. Intanto un ospite sorridente mi porta, a fine pasto, senza che io abbia chiesto nulla, anguria fresca e tsípuro: la “mia” Grecia è anche l’antico simposio che si rinnova su una tovaglia di carta, a due gradini dal Mediterraneo, per poche dracme (oggi euro, qualcuno in più di un paio di decenni fa).

Giuseppina Capone

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