Alessia Barbagli: Scrivere per resistere. Il Decameron ai tempi del Covid

Alessia Barbagli insegna lettere in una scuola secondaria di primo grado di Roma, dottore di ricerca in Ricerca educativa e psicologia dello sviluppo, cultrice della materia presso la cattedra di didattica generale all’Università la Sapienza di Roma, si è occupata di educazione linguistica con pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Partecipa da anni a laboratori di formazione sulla narrazione e sul pensiero narrativo e attualmente collabora con il settimanale “Left”.

Scrivere per resistere. Il Decameron ai tempi del Covid si presenta come un’ampia opera collettiva.
Come e quando ha preso vita e quali sono stati gli umori che l’hanno accompagnata?
L’idea di trasformare in pubblicazione il percorso didattico svolto lo scorso anno durante il lockdown con la mia classe seconda mi è venuta verso la fine della scuola quando ho pensato che potesse essere importante condividere con altri una parte del mondo della “scuola a distanza”, da un lato rendendo disponibili le voci dei ragazzi e delle ragazze che, attraverso le novelle, hanno in qualche modo raccontato se stessi e il mondo che vedevano dalle loro case, dall’altro riportando il percorso che ha condotto a quel progetto. Si sono poi aggiunti i contributo di altri studiosi e studiose che hanno permesso di comprendere il significato assunto da vari aspetti dell’attività svolta.
Il progetto didattico in sé si è sviluppato dal 9 marzo 2020 per sei settimane, in pieno lockdown. La reazione dei ragazzi e delle ragazze è stata immediatamente entusiasta, poi, con il passare dei giorni e delle settimane, spesso le loro risposte risentivano del clima generale che si stava vivendo in quel periodo caratterizzato da momenti di maggiore o minore pesantezza che spesso corrispondevano a maggiori o minori difficoltà nella scrittura e nel racconto.
Durante il lockdown le studentesse e gli studenti hanno ricreato il meccanismo del Decameron di Boccaccio, costituito da 100 novelle. Per questo libro di storie ne sono state selezionate 129.
Quale criterio ha adottato?
Non è stato adottato un unico criterio ma una serie di criteri con priorità differenti. Il primo, e quello più importante, è che tutti fossero rappresentati da almeno tre novelle, poi spesso le novelle sono state scelte in base alla corrispondenza con l’argomento della giornata e con la lettura che, di volta in volta, ho dato del motivo per cui il re o la regina aveva scelto quel tema; altre volte le novelle sono state scelte perché oppure perché costituivano un esempio di evoluzione dello stile o del pensiero dell’autore o dell’autrice.
Quale ritiene sia stata la qualità di un’azione educativa siffatta?
Non è facile valutare l’efficacia di un’azione educativa in senso generale. Forse posso partire dal considerare gli obiettivi che mi ero posta all’inizio del progetto ovvero quello di mantenere vivo il gruppo classe facendo ciò che ci caratterizzava come gruppo ovvero attività didattica.
Scrivere è una pratica che permette di curare e “nutrire” la relazione se lo si fa in un’ottica comunicativa (come ha ben spiegato Patrizia Sposetti nel suo contributo nel libro), scrivere all’interno di una comunità di scriventi rende molto più efficace la scrittura stessa. Inoltre, raccontare storie, a partire da un tema dato da un componente del gruppo di riferimento, consente di raccontarsi agli altri e nel raccontarsi si costruisce il senso necessario per comprendere il mondo che ci circonda: in quel momento il mondo era particolarmente poco chiaro e poco certo e, se da un lato la necessità di cercare un senso era forte, dall’altro la condizione di novità e imprevedibilità rendeva particolarmente difficile farlo in modo autonomo. La forma del gruppo e del meccanismo del Decameron aveva lo scopo di facilitare questa attribuzione di senso. Spero, quindi, che questa attività abbia consentito di mantenere un livello di socialità sufficiente a contrastare l’isolamento e condividere la resistenza ad un momenti difficile e abbia dato ad ognuno di loro la fiducia nel trovare con la cultura gli strumenti per rispondere a molti dei quesiti che la vita ci pone davanti.
Agli oltre cento racconti raccolti nel libro, si affianca il contributo di esperti e studiosi, che hanno proposto un’intensa riflessione sul senso della scrittura come resistenza in questo incerto presente.
Può offrircene una sintesi?
Così come il progetto didattico è stato caratterizzato dalla coralità delle molteplici voci dei ragazzi e delle ragazze, anche il volume si presenta come un’opera “corale” che contiene contributi di esperti su tematiche inerenti il progetto stesso.
Franco Lorenzoni, ha scritto un’affascinante e intensa prefazione dove focalizza l’attenzione sull’importanza di raccontare le storie e sull’orchestrazione del progetto.
Simone Giusti, attualmente docente di didattica della letteratura all’Università di Siena ha approfondito il Decameron come metafora di insegnamento della letteratura a partire dalla cornice; Patrizia Sposetti, professoressa ordinaria di Didattica generale all’Università la Sapienza di Roma e specializzata in educazione linguistica, ha scritto un saggio sulla funzione della scrittura dando una lettura scientifica della pratica svolta nel corso del progetto.
Infine Elena Monducci, psichiatra e psicoterapeuta, ha parlato dei ragazzi e delle ragazze dal punto di vista di chi si occupa di dimensioni interne tenendo in considerazione il particolare momento di crescita in cui alunni e alunne hanno scritto e hanno detto di sé.

Giuseppina Capone

Splende la luce sulla città con i Sedili di Napoli

“Splende la luce sulla città. I Sedili di Napoli attraverso la storia e le immagini”, questo il titolo della Mostra fotografica-documentale con riconoscimento FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), organizzata dall’Associazione Culturale “Napoli è” dal 19 maggio al 30 maggio e inserita nel calendario del Maggio dei Monumenti 2021.

La mostra, allestita presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, nel cuore di Napoli, attraverso una selezione di fotografie e di cartografie, porta il visitatore alla riscoperta degli antichi Sedili della città. Un racconto di luoghi, storia, attività, spaccato sociale, leggende.

La mostra è prorogata per tutto il mese di giugno dal lunedì al venerdì con i seguenti orari:  ore 10.00-13.00/ 16.00-19.00. Il contributo previsto per la visita alla mostra è di € 5,00. E’ obbligatoria la prenotazione telefonando al 351 1264195.

In relazione al frequente aggiornamento delle normative anti Covid-19 l’iniziativa è condizionata al rispetto della normativa vigente tempo per tempo.

Caroline Kostner: dal pattinaggio sul ghiaccio alla moda

Un sogno nato da bambina, quando disegnavo costumi tutti colorati che ritagliavo e conservavo gelosamente in una scatolina che ancora oggi custodisco come un piccolo tesoro. Adesso quel sogno è diventato realtà e l’emozione di dare vita a qualcosa che tante persone avrebbero potuto indossare è stata grandissima. Ho pensato di trasferire la mia idea di eco-chic nei capi, per coniugare il mondo del ghiaccio con la vita di ogni giorno”.

Caroline Kostner è la più celebre pattinatrice artistica italiana sul ghiaccio. È nata a Bolzano l’8 febbraio del 1987. Vincitrice di molti campionati italiani, europei e del mondo per diversi anni, la regina del ghiaccio, ha anche concluso tre stagioni consecutive come prima al mondo nella classifica dell’ISU. Caroline, ad oggi, insegna pattinaggio nella categoria bambini dell’Ice Club Gardena. Ha iniziato a pattinare all’età di soli quattro anni avendo come insegnante proprio sua madre Patrizia (pattinatrice nazionale negli anni ‘70). Ancora, la Kostner, oltre alla sua lingua madre (ladino) conosce bene la lingua italiana, il tedesco, il francese e l’inglese.  Da sempre amante dello studio decise di iscriversi alla facoltà di scienze della comunicazione di Torino, non riuscendo però, per mancanza di tempo, a portare a termini gli studi. La sua ultima storia sentimentale, per ora, risale al 2012 con Alex Schwazer.

La passione per la moda

Oltre alla passione per il pattinaggio sul ghiaccio, Caroline ha, sin dalla tenera età, custodito un altro grande sogno nel cassetto che ad oggi è riuscita a realizzare, grazie soprattutto alla sua determinazione e audaci, dando vita ad una delle più belle collezioni di moda.  In realtà Caroline, era già entrata nel mondo della moda disegnando i propri costumi da pattinaggio per la stagione -2011-2012  (donando il ricavato in beneficenza all’istituto Giannina Gaslini, in seguito alla vendita dei costumi durante un’asta) e inoltre aveva, nel 2005, collaborato con Roberto Cavalli.

Per Caroline “L’abbigliamento non è solo moda ma anche un modo di comunicare con il mondo e può trasmettere un reale valore sociale. Una filosofia di vita che ho fatto mia sul ghiaccio e che adesso desidero trasmettere attraverso i miei capi alle ragazze e alle donne di ogni età”.

Capi sportivi, alla moda e per tutti i giorni, Carolina Kostner lancia la sua prima linea di abbigliamento Icenonice: due modelli di mascherine, dodici outfit adatti a tutte le stagioni e due capi invernali. Caroline riesce finalmente a dare vita al suo sogno grazie al progetto realizzato insieme a Sagester, azienda vicentina specializzata nella produzione di abbigliamento sartoriale tecnico sportivo, coniugando insieme esigenze tecniche e stile per un outfit eco-chic: l’utilizzo del Nilit Heat, ossia una fibra creta con il carbone vegetale del caffè e recuperato dalla buccia dei chicchi, per ottenere un tessuto sostenibile che garantisce isolamento termico in modo da poter utilizzare i capi sia con il caldo che con il freddo. Insomma, l’audacia di Caroline, insegna che i sogni possono diventare realtà, basta avere fiducia in sé stessi e non smettere di impegnarsi in ciò in cui si crede.

Alessandra Federico

Il linguaggio della violenza. Estremismo e ideologia nella filosofia contemporanea

Federico Dal Bo è Dottore di ricerca in Scienza della Traduzione (Bologna, 2005) e Dottore di Ricerca in Ebraistica (Berlino, 2009), svolge la sua attività di ricerca tra ebraistica e filosofia. Attualmente è post-dottorando all’Università di Heidelberg. Tra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Emanation and Philosophy of Language. An Introduction to Joseph ben Abraham Giqatilla (Cherub Press, 2019) e Deconstructing the Talmud. The Absolute Book (Routledge, 2019), Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan traduttore (Orthotes 2019).

Colui che è capace d’esprimersi non ha necessità di appellarsi alla violenza: vige una cesura netta tra linguaggio e violenza?

Penso ci piaccia pensare — o piuttosto sperare — che si sia una cesura netta tra linguaggio e violenza. Purtroppo non è così. Primo Levi ci mette in guardia contro ogni facile distinzione tra i due. In uno dei suoi scritti, ci ricorda che il bastone dei kapò usato per percuotere i prigionieri veniva sarcasticamente chiamato der Dolmetscher — “l’interprete” — proprio perché sapeva spiegarsi meglio di qualunque altro in quella babele di lingue che erano i campi di concentramento nazisti. Questa feroce ironia tradiva una realtà tenebrosa e inquietante: la violenza può essere una forma di linguaggio.

Da un lato, è molto confortante immaginarsi che la violenza sia esclusivamente una cosa da bruti —appunto un atto “brutale,” attuato del brutus latino, da un essere privo di ragione e parola —e sperare che sia la risorsa ultima di chi non sa esprimersi altrimenti. È un’immagine spaventevole ma in fondo confortante perché estromette il violento dall’ambito del linguaggio e quindi, per implicazione, suggerisce che il linguaggio possa essere una sfera pacifica, quasi irenica della realtà. Dall’altro lato, però, sappiamo bene che non è così. Infatti, ci sono innumerevoli esempi storici, se non quotidiani, di uomini che sono pienamente capaci di comunicare, se non addirittura colti ma profondamente violenti – nelle parole e nei fatti. Vorrei richiamare l’attenzione ad un libro di alcuni anni fa che ebbe grande risonanza e fortuna editoriale: Le Benevole di Jonathan Littell. Questo romanzo, in fondo abbastanza modesto, si incentra sul personaggio fittizio di Maximilien Aue, liberamente ispirato alla figura storica di Léon Degrelle -un fascista e collaborazionista belga del quale si vocifera che Hitler una volta avrebbe detto: “se io avessi un figlio, mi sarebbe piaciuto che fosse come lui.” Una vanteria non da poco tra uomini di tal fatta… In ogni caso, sia il fittizio Maximilien Aue che lo storico Léon Degrelle emergono come figure ambivalenti: si tratta di uomini intelligenti, di buone letture, forse addirittura raffinati ma certamente violenti e depravati.

Penso allora che se si vuole che vi sia una cesura tra linguaggio e violenza, questa vada stabilita attivamente, quasi imprimendola tra loro, quasi forzandola. Si tratta, in un certo senso, di recuperare una dimensione socratica del linguaggio, confidando nella forza dell’educazione. Del resto, se come si può imparare una ideologia violenta, la si può anche disimparare.

Quanto il connubio linguaggio e violenza ha consentito il dilagare degli estremismi ideologici?

Se rinunciamo al mito filosofico di distinguere tra linguaggio e violenza, allora possiamo parlare di un’affinità fondamentale tra violenza fisica e violenza ideologica, quasi come se l’una trapassasse nell’altra. Anzi, si può dire che la violenza effettiva sia la prosecuzione della violenza linguistica con altri mezzi, per parafrasare una nota frase di Von Clausewitz.

Però, si noti una differenza fondamentale tra l’epoca post-Napoleonica e quella post-Novecentesca. Quando scrisse la famosa frase per cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi,” Clausewitz operava ancora in un contesto direi “classico” della guerra: erano tipicamente impegnati eserciti contro eserciti e le popolazioni erano per lo più vittime collaterali degli scontri ma non realmente bersagli dell’azione bellica. È chiaro che la guerra ha sempre comportato violenze contro le popolazioni ma almeno ideologicamente, come descritto in tutte le grandi epopee della letteratura mondiale, dall’Iliade all’Ariosto, per dire, l’ideale era un scontro – un duello – tra due fronti contrapposti. Si tratta di una visione che emerge ancora, nonostante diverse storture, ancora nel celebre torbido romanzo Nelle tempeste d’acciaio del controverso Ernst Jünger. In altre parole, Clausewitz riteneva di riconoscere la brutalità della guerra ma anche la sua finalità profondamente politica. Insomma, si trattava di ascrivere alla sfera politica anche la guerra, di rivendicare la guerra come un ambito stesso della politica, non un suo accidente, un errore o una sua trasgressione. Si trattava, insomma, di una lezione di realismo politico.

Eppure, con i totalitarismi del Novecento, questa continuità tra politica e guerra si è tramutata in qualcosa di infinitamente più brutale e oscuro. Se la Grande Guerra obbediva ancora agli stilemi della tipica guerra tra eserciti, di fatto quasi escludendo le popolazioni dal loro diretto coinvolgimento, con la Seconda Guerra Mondiale si generò una “guerra totale,” quella che lo stesso Jünger chiamava la “mobilitazione totale.” Si trattava però di una guerra che era già stata ingaggiata a partire dal linguaggio stesso – da un linguaggio oscuro, tetro, profondamente violento e disumanizzante. Nei suoi celebri taccuini sul linguaggio fascista, Viktor Klemperer ha mostrato accuratamente come la brutalizzazione fisica sia stata anticipata da un linguaggio snaturato – quello burocratico nazista – che era un incrocio inaudito di ipocrisia e violenza. Da un lato si negava la persecuzione con frasi abilmente manipolate, ma dall’altro la si incentivava disumanizzando le vittime.

Lei ha scandagliato con raro acume il pensiero di Walter Benjamin, Martin Heidegger, George Steiner e Sigmund Freud a proposito del linguaggio della violenza. Quali specificità emergono e quale, eventualmente, il filo rosso che li lega?

Anche se può sembrare paradossale, devo dire che il filo rosso che lega queste quattro figure è proprio l’ebraicità, anche se ovviamente non sono tutti ebrei. Di questi tre questi intellettuali l’unico non ebreo era ovviamente Heidegger – che però ebbe un fortissimo ascendente sulla classe intellettuale ebraica, moltissimi suoi studenti erano ebrei e molti dei suoi futuri studiosi lo saranno. Pensiamo ai più illustri e famosi come Hannah Arendt, Karl Löwith, Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida. Del resto, non è un caso se in ambienti nazisti Heidegger venisse accusato di “talmudismo,” come riportato in un celebre valutazione ufficiale presentata da un suo collega presso il Ministero dell’Istruzione nazista negli anni Trenta.

Tuttavia, la questione è più complessa di così. Riguarda proprio la particolarità della cultura ebraico-tedesca – la cosiddetta Bildung. Da un lato, c’erano volenterosi ebrei tedeschi come Martin Buber che credevano nel dialogo ebraico-tedesco con tutto il cuore, per usare, non a caso, una metafora cristiana. Dall’altro c’erano intellettuali ebrei tedeschi del tutto disincantati, come Gershom Scholem, che ritenevano che questo dialogo ebraico-tedesco fosse un mito – a danno degli ebrei che si trovavano a rincorrere un sogno da cui si sarebbero risvegliati in modo feroce e crudele. Non so chi dei due avesse più ragione, forse entrambi proprio data la intrinseca contraddittorietà dell’ebraismo ebraico-tedesco che poteva portare due così grandi figure – Martin Buber e Gershom Scholem – a due posizioni così antitetiche.

Ciò emerge anche nel caso di Heidegger, ora stigmatizzato in modo forse un po’ troppo superficiale per i suoi già famigerati Quaderni Neri. La questione in effetti non è quanto fosse antisemita l’uomo bensì quanto il suo pensiero abbia cercato di assimilare l’ebraismo tedesco, cogliere alcune delle sue idee fondamentali e infine espropriarle, rivendicandole esclusivamente all’ambito tedesco – ovvero “ariano,” in questo caso. Penso in primo luogo all’idea che il linguaggio sia il luogo stesso della riflessione e della possibilità per la filosofia. È un tema profondamente ebraico che emerge in tutti questi quattro autori, appunto con la differenza che Heidegger non lo ascrive all’ebraismo ma anzi lo “estrae” dall’ebraismo tedesco, rivendicandone una filiazione esclusivamente greca ed ariana -la famosa connessione essenziale tra Grecità e Germanicità che ha fatto sempre molto discutere.

Ecco, queste pretese da parte di Heidegger non sono semplicemente una forma di ideologia tardo romantica ma bensì l’esercizio di una profonda violenza filosofica nei confronti dell’Altro. Trovo che questo atto di violenza sia infinitamente più brutale delle sue frasi antisemite che, in fondo, sono ridicole, banali, qualunquiste e persino indegne del pensatore qual era. Eppure, anche se potessimo depurare il discorso heideggeriano da queste frasi, espungendole o semplicemente ignorandole, saremmo sempre di fronte all’immane colpa di aver espropriato l’ebraismo tedesco dei suoi concetti fondamentali e averli ascritti esclusivamente e perentoriamente alla tradizione filosofica occidentale.

Quali sono le attuali possibili derive autoritarie del nesso linguaggio-violenza?

Per cominciare a rispondere alla sua domanda, credo sia importante pensare nuovamente agli orrori del Novecento. Se questo secolo terribile ci ha insegnato qualcosa è proprio che il nesso tra linguaggio e violenza può portare alla costruzione, organizzazione e perpetuazione di orrori inimmaginabili – che però sono stati immaginati e rappresentati in forme linguistiche precise, secondo leggi precise, secondo direttive precise. È una questione di una profondità inaudita. Non è un caso se grandi autori come George Steiner rimasero sempre scettici rispetto alla possibilità di “depurare” il linguaggio da un simile bagno di violenza e quasi adombrarono l’idea che una volta intaccato così a fondo l’albero del linguaggio, per riprendere un’immagine kabbalistica, non sarebbe più stato possibile salvarne la linfa vitale. Ora, non è necessario proiettare la questione del nesso tra linguaggio e violenza in una simile prospettiva, quasi metafisica per osservare che la questione del nesso tra linguaggio e violenza è sempre attuale, tragicamente attuale.

Per tutti coloro che pensavano che i campi di concentramento nazisti fossero un evento irripetibile, la ferocia delle guerre jugoslave negli ultimi anni del Novecento e la costruzione di campi di concentramento per bosniaci a Tarčin hanno purtroppo mostrato quanto avesse ragione Primo Levi a dire, con spirito squisitamente scientifico: se è accaduto una volta può accadere ancora. Al di fuori del contesto europeo, possiamo pensare al genocidio in Ruanda, avvenuto quasi negli stessi anni. Si è trattato di due eventi dalle motivazioni storiche e sociali diversissime che però hanno avuto una matrice comune nella propaganda della violenza prima della violenza stessa, nella loro preparazione organizzazione.

Questo non significa dire che ogni forma di violenza o intemperanza verbale sia virtualmente omicida o addirittura causa di un genocidio bensì, più profondamente, che nessuna violenza può avere luogo senza il supporto del linguaggio che, per così dire, “si presta” ad essere abusato per perpetrare crimini. Si tratta di rendersi conto che i fascismi europei ma anche nei crimini più recenti videro alla loro guida e alla loro esecuzione non dei demoni bensì degli uomini in carne ed ossa. Si badi di non cadere nell’equivoco ingenerato, magari inconsapevolmente, dalla abusata idea della “banalità del male.” Questa formula ha il demerito di suggerire probabilmente il contrario di ciò che riteneva Hannah Arendt. Parlare della “banalità” di questi individui non significa dire che fossero uomini comuni o “banali” bensì che erano esseri umani normali, non deviati, psicopatici o abnormali. Ciò che li ha traviati, per usare un termine un po’ desueto, è stato il linguaggio. Si trattava infatti di individui che avevano grandi capacità oratorie ma che tuttavia erano dominati da una natura assolutamente violenta con cui avevano indottrinato i loro seguaci. Certamente, si può obiettare che costoro non fossero dei veri oratori ma bensì solo dei retori, dei sofisti, dei sobillatori e degli agitatori o, per dirla con Gadda, che i loro discorsi non fossero altro che “una istrombazzata di parole senza costrutto, ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo.”

Eppure, nonostante le cautele ironiche e caustiche del nostro Gadda, dà molto da pensare che la potenza oratoria dei dittatori esercitò un grande fascino anche su uomini di cultura. Si pensi, di nuovo, a Martin Heidegger — un uomo di grandi se non grandissime letture — che restò affascinato da Hitler. Quando gli venne rimproverato di lasciarsi trascinare da un uomo rozzo e ignorante, sembra che Heidegger abbia risposto: “la cultura è indifferente, basta guardare le sue mani portentose!” Si tratta di una frase spaventosa, non tanto perché tradisce il fascino dell’intellettuale per il Potere — questo, in fondo, è un luogo comune nella storia della filosofia, almeno dal caso di Platone e il tiranno di Siracusa in poi — ma piuttosto perché manifesta la debolezza dell’intellettuale di fronte al Potere. L’intellettuale si mostra per colui che è: qualcuno che è disposto a barattare la cultura per l’energia, la visione critica del reale per la propaganda, ovvero in un certo senso il linguaggio per la violenza. Ovviamente, si tratta di un tipo particolare di violenza, costruito su un uso particolare — oggi diremmo: demagogico — del linguaggio.

Arrivo allora alla risposta. Ciò che ci ha insegnato il Novecento appunto è la relativa facilità con cui si può indottrinare individui, gruppi o addirittura un popolo intero alla violenza, proprio perché linguaggio e violenza non sono intrinsecamente divisi bensì connessi, quasi permeabili l’uno con l’altro, se non tenuti distanti l’uno dall’altro, praticando proprio quella che lei prima chiamava una “cesura.” Insomma, si tratterebbe di concepire il compito filosofico come quello di incidere una cesura tra linguaggio e violenza, ottemperando al suo più antico spirito socratico. Il rischio più concreto, forieri di pericolose derive autoritarie, appunto è la demagogia.

La Cultura corre il rischio d’essere investita dalla violenza della comunicazione?

A dispetto di ogni nostro pregiudizio romantico o post-romantico, la cultura non è aliena dalla violenza ma anzi può esserne addirittura il veicolo principale. Se si legge Gramsci, la stessa idea dell’egemonia non è aliena dal presupposto che la cultura — lì intesa come cultura marxista — possa e anzi debba farsi carico di un’azione rivoluzionaria che ovviamente richiede l’uso della forza per effettuare un cambio di regime. Ciò non significa banalmente che la comunicazione svolga un ruolo fondamentale per veicolare i contenuti del linguaggio ma piuttosto che i canali di comunicazione di massa non siano necessariamente i più adatti per veicolare i contenuti del linguaggio, per quanto questo possa sembrare paradossale.

Ad un livello abbastanza superficiale, la sociologia della comunicazione cerca di diffondere una percezione quasi inoffensiva, tragicamente ingenua, dei canali comunicazione di massa – i cosiddetti mass media social media. Entrambi però veicolano il contenuto del linguaggio su una scala e una trasmissibilità che facilmente trascendono l’orizzonte antropologico comune. Nel testo ho fatto l’esempio di Twitter che ai suoi albori venne usato maldestramente da un utente per una battuta assai infelice prima di salire in aereo per il Sud Africa. La frase effettivamente cretina (“sto andando in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo, sono bianca!”) venne rilanciata su scala planetaria trasformando questa grande stupidaggine personale (ma chi di noi non dice stupidaggini a livello privato?) in un caso di razzismo che interessò moltissime personalità internazionali e le provocò gravi danni sul piano lavorativo e personale. Ciò che mi interessava di questo caso non era tanto se fosse una bella battuta o meno bensì il fatto che una comunicazione personale venne forzatamente trasformata in un evento di natura politica. Al fondo di questo evento non c’era tanto l’uso maldestro di un social media come Twitter bensì, mi sembra, la profonda eterogeneità tra linguaggio e un mezzo di comunicazione di massa – che evidentemente non è più l’amplificazione della comunicazione ma qualcosa di più inquietante che non sappiamo ancora comprendere esattamente.

Sarei tentato di dire che l’avvento della comunicazione di massa ma soprattutto dei social media stia avendo un impatto assimilabile a quello dell’invenzione della scrittura. Come l’invenzione della scrittura non era, nonostante il trito mito platonico, la semplicemente “trascrizione” della voce su carta, così l’invenzione dei mezzi di comunicazione di massa non è semplicemente la “amplificazione” della voce di un gruppo o del singolo – bensì qualcosa di più eterogeneo che ancora sfugge alla nostra comprensione.

Giuseppina Capone

 

Alcolismo: le conseguenze sui figli di un padre alcolista

“Vivevo nel terrore ogni volta che sentivo i suo passi. Mio padre era un alcolizzato, beveva perché era debole e non sapeva affrontare i problemi della vita e questo lo portava ad essere violento. È stato il mio incubo e quello di mia madre per diversi anni”

Rifugiarsi nell’alcool per fuggire alle difficoltà della vita non può essere un rimedio anzi, si finisce per far soffrire chi si ha attorno, soprattutto quando a pagarne le conseguenze sono i figli. Difatti, per i figli, vivere con genitori che incutono terrore giorno e notte, li fa crescere con il timore di poter essere aggrediti in qualsiasi momento e da chiunque, anche quando si è fuori pericolo. Questo può portare ad avere difficoltà soprattutto durante l’adolescenza e non solo, corrono il rischio di trascinarsi questa paura fino all’età adulta. Le difficoltà che incontrerà colui che ha vissuto con un padre violento possono essere di diverso genere: ansia, paura dell’abbandono, difficoltà a relazionarsi con i coetanei, difficoltà nello studio, iperattività o, al contrario, si chiude in sé stesso, si isola o si circonda di troppe persone (di chiunque e spesso anche compagnie sbagliate perché si accontenta, perché crede di non poter meritare di più). Ancora, corre il pericolo di poter essere anaffettivo, oppure rischia di vivere con il continuo bisogno di affetto ma allo stesso tempo riscontrando problemi nelle relazioni, soprattutto quelle amorose.

“Perché se mio padre non mi ama come può amarmi qualcun altro?” è questo il quesito che si pone chi è cresciuto con una figura paterna violenta. Oltre alla carenza d’affetto, al perenne timore di essere aggredito e al vuoto che può lasciare nel cuore di un bambino un padre assente, si aggiunge la violenza verbale: parole offensive sminuiscono e svalutano il valore di chi le subisce, finendo per credere davvero in ciò che gli viene detto, ossia di non poter essere all’altezza di realizzare ciò che desidera.

Spesso, tanta tensione accumulata si somatizza in varie forme di malessere o, addirittura, nel peggiore dei casi, in gravi malattie. È fondamentale, quindi, chiedere aiuto qualora non si avesse la forza di reagire da soli ma bensì una grande volontà di farlo, perché  razionalizzare, prendere atto della sofferenza subita e riuscire a esternarla, ci regala la possibilità di lasciarla andare via per poter mettere una distanza tra noi e quella persona che per anni ci ha recato tanto dolore e dispiacere, in modo tale da riuscire ad accantonare quei brutti momenti e far si che diventino ricordi  lontani e magari il punto di forza da cui ricominciare. L’importante è comprendere che chi soffre non è chi subisce, ma chi fa del male. La vittima, prima o poi, se ne libera e va avanti, chi fa del male non può che continuare a vivere nell’infelicità e nell’incapacità di gioire della vita.

“Ho capito che l’unica soluzione sarebbe stata quella  di farmi aiutare e allontanarmi da lui perché solo così sarei riuscito a buttarmi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Perché tutta quell’angoscia io la somatizzavo in forti mal di stomaco”. Emiliano 29 anni, napoletano racconta la sua esperienza con un padre alcolizzato.

Emiliano, ricordi quando tuo padre ha iniziato ad essere violento?

Da  sempre. Anche solo in piccole dinamiche, anche solo verbalmente o con i toni con cui si rivolgeva a me. Mia madre dice che quando erano fidanzati o all’inizio del matrimonio lui non era così, ha iniziato ad esserlo quando lei aspettava me, lui non voleva avere figli. Fabio (mi padre) suonava il pianoforte in una band e faceva concerti in piazza. Non solo, dipinge, ama disegnare ed è anche molto bravo, obiettivamente parlando. Si definiva un’artista, ma io credo che l’artista abbia un animo gentile, sensibile ed empatico, soprattutto. L’unica cosa buona che mi ha trasmesso è questa forte passione per l’arte. Per tutto il resto io sono e voglio essere una persona completamente diversa da lui.

Quanti anni avevi quando siete andati via di casa insieme a tua madre?

Avevo cinque anni quando una notte mio padre tornò ubriaco alle tre e voleva mettersi a suonare con i suoi amici. Mia madre glielo impedì e lui reagì malamente. Quella stessa notte, con la bocca sanguinante, mi prese in braccio e corse a casa di sua madre (mia nonna materna). Tutt’oggi, mamma si rammarica per non avermi portato via prima da quel mostro ma io non ce l’ho con lei anzi, capisco che era la vittima e quando è così non si ha la forza di reagire. Per fortuna, quando in quella casa si è toccato veramente il fondo, ha avuto il coraggio di andare via.  Purtroppo, però, io ci ho impiegato anni per buttarmi alle spalle tutti quegli episodi di violenza che abbiamo subito, tra calci e insulti.

Ti fa ancora male ricordare quegli episodi?

Con la maturità di adesso no, mi fa ancora rabbia solo per le conseguenze che hanno avuto i suoi comportamenti violenti su mia madre. Ma grazie all’affetto di mia nonna, mia mamma e del suo nuovo compagno sono riuscito ad andare avanti anche se ho riscontrato diverse difficoltà sia a concentrarmi nello studio sia nei rapporti umani, e soffrivo anche di forti mal di stomaco. Crescendo ho chiesto aiuto ad uno psicanalista e insieme abbiamo affrontato il mio passato, razionalizzandolo e accantonandolo per sempre. L’allontanamento da Fabio (mio padre) è stato, col tempo, solo una rinascita per me. Ho capito che è una persona perennemente infelice, incapace di apprezzare qualsiasi cosa della vita e quindi non può che suscitarmi tanta pena e tristezza, perché io che ho subito posso andare avanti, lui non saprà mai essere felice.

Quando hai iniziato a chiamarlo per nome e non più papà?

Da quando, verso i 10 anni, io e mia madre siamo andati a vivere a casa del suo compagno. Ho quindi iniziato a considerare lui mio padre, anche perché si comportava da tale e, di conseguenza, chiamavo mio padre biologico per nome. Per porre, una volta per tutte, questo distacco tra me e lui. In realtà, fino a quando avevo 9 anni, Fabio, veniva a casa di nonna a trovarmi ma io spesso fingevo di dormire avendo come complice nonna. Adesso vive fuori Napoli, per fortuna, e allora ho preso la palla al balzo per allontanarmi del tutto da lui.

Quali sono i ricordi belli e brutti che hai di lui?

Quando ancora vivevo con lui aveva dei momenti di lucidità e mi portava al parco, alle giostre, anche se spesso vedevo le sue reazioni eccessivamente aggressive anche con il prossimo, anche per cose molto futili dove non ce ne sarebbe stato bisogno. Ho anche trascorso dei momenti piacevoli con lui da bambino perche sapeva essere, a volte,  una persona divertente ma passava da uno stato d’animo all’altro e questo mi scombussolava. Ho deciso di perdonarlo per me stesso ma non voglio più averci a che fare. Anche se è colui che mi ha messo al mondo io non lo considero mio padre e credo fermamente che non basti avere lo stesso sangue. Per me non è, e non sarà mai mio padre.

Alessandra Federico

I capolavori di Giotto a Firenze, Rimini e a Padova

I capolavori di Giotto a Firenze, Rimini e Paova.

Crocifisso di Santa Maria Novella

Per Giotto la rappresentazione è concepita come un volume: le figure e il paesaggio dovevano essere estratti da un blocco di marmo con processo analogo a quello dello scultore. Il corpo del Cristo si sporge in avanti e il nudo è studiato dal vero. In tutta la storia dell’arte l’umanità del Cristo non era mai stata espressa in un modo altrettanto sincero e toccante. Per il Giubileo del 1300, Giotto si recò nuovamente a Roma dove ebbe importanti commissioni.

La pala della Madonna in maestà

Giotto dipinse la Madonna in Maestà per la chiesa fiorentina di Ognissanti (ad oggi agli Uffizi). Opera realizzata per essere inserita sull’altare maggiore dell’omonima chiesa. La Madonna è inserita per la prima volta entro un’edicola marmorea con tonalità di colori nuovo e vivaci.

La cappella degli Scrovegni a Padova

Enrico degli Scrovegni (ricco mercante padovano che commissionò la cappella da costruire e decorare) dichiarò che la desiderava per strappare l’anima del padre alle pene del purgatorio e per espiare i suoi peccati. Per questo motivo il ciclo di affreschi della cappella degli Scrovegni ha un carattere espiatorio. Tutto questo, però, scatenò la reazione dei frati del vicino convento degli Eremitani, i quali scrissero una lettera al vescovo affermando che i dipinti all’interno erano fonte di grande scandalo e che il committente aveva aperto la cappella per orgoglio, vanagloria e personale profitto e non che per lode, onore e gloria a Dio.

La cappella degli Scrovegni venne fondata nel 1303, venne poi consacrata due anni dopo. L’unica navata della cappella fu rivestita di affreschi. Tutto il restante dello spazio della cappella venne riempito con dipinti degli episodi della vita di Gesù. Da questi affreschi in poi, rispetto all’altro ciclo di Assisi, il senso della profondità e del rilievo permangono.

Giotto, accentua le gradazioni del colore, rende i contorni meno duri e incisivi, li attenua dando spazio ai  paesaggi che diventano sempre più parte della composizione. Ancora, Giotto, mette  a punto nuove definizioni degli affetti e dei sentimenti: la calma e concitazione dei volti dei personaggi danno rappresentazioni diverse e sempre più reali.

L’ultima fase della sua carriera, Giotto, la trascorse maggiormente viaggiando da Firenze a Napoli, a Milano, a Bologna. L’attività fiorentina dell’artista si svolse soprattutto nella chiesa francescana di Santa Croce, nella quale Giotto dipinse ben 4 cappelle che ad oggi, però, rimangono solo gli affreschi eseguiti per decorare le cappelle Peruzzi e Bardi, entrambe nel transetto dell’edificio. Le storie dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista che decorano le pareti della cappella Peruzzi (1327-1318 – oggi molto rovinate ) segnano una notevole svolta nella carriera dell’artista: il senso di grande monumentalità reso attraverso la chiara disposizione delle figure e delle ampie strutture architettoniche è maggiore e restituisce l’idea dell’altissimo momento del percorso dell’artista. Per la decorazione della cappella Bardi, invece, furono scelte le storie di San Francesco  (1325-1328)

Verso la città partenopea

Da lì a poco, Giotto si recò a Napoli in seguito alla chiamata di re Roberto d’Angiò  presso la corte angioina. Giotto, in breve tempo venne nominato dal re “primo pittore di corte e nostro fedele” assegnandogli anche uno stipendio annuo. L’artista rimase  a Napoli fino al 1333. Una volta tornato a Firenze, essendo responsabile della fabbrica del Duomo, avviò la costruzione del celebre campanile. Poco tempo dopo, realizzò, per la chiesa bolognese di Santa Maria degli Angeli, il polittico raffigurante la Vergine in trovo e i quattro santi. Giotto morì l’8 gennaio del 1337 e venne sepolto in Santa Reparata.

Alessandra Federico

 

 

Giotto: l’artista imprenditore del Trecento

Giotto nasce a colle di Vespignano nel 1267 (Vicchio, Toscana) da una famiglia di possidenti terrieri. Affidato in tenera età alla bottega di Cimabue, rivela ben presto le sue capacità artistiche attraverso il suo primo disegno  (pecorella fatto col carbone su un sasso). Non solo, per la famosa “O” di Giotto (era capace di disegnare una perfetta circonferenza senza l’aiuto del compasso),  fu la conferma che il piccolo aspirante pittore-architetto possedeva grandi doti  artistiche che avrebbero fatto la storia dell’arte.

Nel 1287 sposò Ciuta con la quale ebbe ben quattro figlie e quattro figli. Successivamente aprì una bottega all’interno della quale progettava, assieme ai suoi alunni, ai quali lasciava fare compiti secondari, le opere e composizioni più importanti. Durante la sua lunga carriera, Giotto, ebbe mutamenti profondi. Si allontanò, infatti, dalla tradizione e compì nella pittura il grande mutamento: rinunciò a conservare la tradizione per esporsi invece ai rischi di un’elaborazione personale e, grazie alla sua scelta di distaccarsi dalle vecchie tradizioni, riuscì a stabilire un rapporto privilegiato e diretto con tutto ciò che viene definito natura. Agevolando la formazione dell’artista tutto questo fece sì che i suoi personaggi fossero maggiormente dotati di espressività di sentimenti e di stati d’animo.

La formazione di Giotto

Nella formazione e maturazione di Giotto ebbero una notevole importanza gli stimoli intellettuali di cui si nutrì la sua opera. Ad Assisi l’artista entrò in contatto con un pensiero profondamente innovatore (pensiero antiscolastico francescano), quasi sovvertitore rispetto all’autorità costituita dalla chiesa,  e con il forte senso della realtà di dio. Mentre a Padova entrò in contatto con la raffinata vita di corte e con i fermenti  di un’università votata allo studio della medicina, della filosofia aristotelica e del rapporto fra corpo  e anima.

Sempre a Padova, ebbe qualche nozione della civiltà bizantina del mosaico. Conobbe, inoltre, il percorso della scultura francese dal Duecento al Trecento.

Giotto era uno dei pochi grandi artisti capaci di mutare incessantemente pur rimanendo sé stesso. Questa grande capacità di espansione del linguaggio giottesco si lega ai mutamenti culturali del periodo passando anche attraverso forme di lavoro artistico. Nel periodo della sua maturità Giotto fu anche artista-imprenditore: progettava le opere, dirigeva il lavoro degli allievi all’interno della sua bottega che produceva per l’intera Italia. Giotto fu, di fatti, il protagonista della rivoluzione pittorica in Italia del Trecento. Con lui nasceva un nuovo modo di rappresentare e di raccontare.

Le opere di Giotto ad Assisi

Poco più che ventenne (1292) dipinse una delle volte e alcune scene bibliche ad Assisi. Poco dopo si dedicò alla realizzazione degli affreschi dedicati alla vita di San Francesco: ventotto scene ispirate alla vita del santo. San Francesco non era più raffigurato come immagine della santità, ma la sua umanità si distanzia dall’immagine formale, conforme ai canoni della pittura bizantina. Gli artisti traducono la sua leggenda come l’incontro con una persona reale. Le figure sono inserite in paesaggi aperti in modo da farle apparire perfettamente reali.

Alessandra Federico

Il MARCONI va in scena… al tempo del COVID

Gli studenti dell’I.S. “G. Marconi” di Giugliano impegnati nel progetto realizzato nell’ambito dell’iniziativa “PER CHI CREA” promosso dal MiBAC e SIAE

E’ già ripreso con fervore da alcune settimane dopo una lunga pausa causata dalla situazione che si è generata dalla pandemia e dal lockdown, nel rispetto delle norme anti Covid-19, il lavoro di preparazione per la messa in scena nella nuova modalità online del lavoro che vede protagonisti gli studenti dell’I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania. 

Nato originariamente come “musical”, con il sostegno del MiBAC e di SIAE nell’ambito dell’iniziativa PER CHI CREA, ha dovuto necessariamente fare i conti con tutte le problematiche legate al Covid-19 che hanno limitato la possibilità di studiare e stare a scuola in presenza e di conseguenza di portare avanti l’iniziativa.

La prof. Giovanna Mugione, dirigente scolastico del prestigioso Istituto, che ha conquistato nel corso degli anni importanti riconoscimenti nazionali ed internazionali, però, non si è arresa all’impossibilità di andare in scena con il musical “Il Marconi va in scena” e insieme ai docenti impegnati nel progetto, all’autore, al regista, agli esperti (storica dell’arte, giornalista, musicista, coreografa) coinvolti nel lavoro ha ripensato l’iniziativa attualizzandola all’odierna situazione.

Gli studenti del Marconi saranno quindi i protagonisti con i loro personaggi di questa storia d’amore ambientata tra presente e passato nei luoghi dei Sedili di Napoli.

Certo, il lavoro di organizzazione e realizzazione è e sarà più complesso ma gli studenti-protagonisti di questo straordinario impegno, dagli attori ai tecnici audio-video, non hanno perso l’entusiasmo iniziale anzi hanno accettato con interesse e impegno la nuova sfida lanciata certi di portare a termine questa nuova importante esperienza.

 

 

Piero Sorrentino: Un cuore tuo malgrado

Abbiamo incontrato Piero Sorrentino per parlare del suo libro.

Un cuore tuo malgrado: su quali temi si innesta la sua riflessione?

Sono partito dalla prima scena del libro, scrivendo solo quella e senza darmi un tema preciso. Il capitolo di apertura, quello nel quale avviene il rovinoso tamponamento tra l’autobus guidato dalla protagonista e voce narrante, Bianca, e l’automobile sulla quale viaggiano Dario Spatola, sua moglie Giulia e il loro figlio piccolo Vittorio, è anche il capitolo nel quale ho rifuso pressoché integralmente l’unico spunto autobiografico del romanzo, uno scontro appunto tra un autobus e un’auto al quale mi era capitato di assistere, praticamente nelle stesse identiche modalità raccontate nelle prime pagine del romanzo, ma per fortuna con esiti assai meno disastrosi. Da quel pullman era scesa un’autista donna, dall’auto era venuta fuori una famiglia di tre persone, e mi aveva colpito il fatto che la relazione che si era immediatamente innescata da quello scontro era una relazione tra donne. Mentre l’uomo, come spesso idiotamente facciamo noi maschi, era corso a guardare il paraurti della sua bella automobile, l’autista donna era andata immediatamente verso la mamma che teneva in braccio suo figlio e aveva messo una mano a coppa, a casco, sulla testa del bambino, benché fosse chiarissimo che nessuno si era fatto neppure un graffio. Da lì ho cominciato ad assecondare il meccanismo immortale del “what if’”, del cosa sarebbe successo se le conseguenze di quello scontro fossero state invece decisamente più gravi.

E a partire da questo, ho capito che la prima cosa che mi interessava raccontare era quella che Ottieri aveva chiamato in un suo libro bellissimo “L’irrealtà quotidiana”, quella irrealtà quotidiana, nel caso della storia raccontata in “Un cuore tuo malgrado”, di chi vive un momento di pura sorte che dura dieci secondi – cioè appunto l’incidente – e le conseguenze di questo che si allungano su tutta la vita. Quindi stare dentro un dolore e raccontare una ferita, un trauma che da un lato trascolora nella normalità del dopo, nella ripresa della vita, ma contemporaneamente anche, seguendo un movimento opposto, la quotidianità che assume le fattezze del trauma, le giornate in cui non hai neppure la possibilità di elaborare un lutto intanto per il non trascurabile motivo che sei stato tu il portatore di quel lutto; e poi perché non hai la possibilità di dire addio a quel momento, in questo caso l’incidente d’auto provocato da Bianca, perché di quel fatto, che pure ha portato alla morte di due persone, ne resta una terza, resta colui che è sopravvissuto, e dunque resta il testimone scandaloso non solo del suo dolore ma anche del TUO dolore, la sua esistenza è la denuncia continua non solo della tua colpa ma della tua fragilite della tua impossibilità di trovare un posto, in qualsivoglia forma, nel mondo sbagliato, nell’universo storto che hai contribuito giocoforza, e tuo malgrado, appunto, come recita il titolo del libro, a creare.

Il suo romanzo narra anche di due sorelle, legate da un laccio sentimentale inscindibile, quello della famiglia. Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare ed attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Perché le famiglie sono il nodo che stringe fino al soffocamento o che ti salva dal precipizio, dipende da come e quanto riesci a regolarlo senza farti male. In questo caso un ruolo importantissimo nel romanzo è quello di Margherita, la sorella di Bianca. Margherita è una traduttrice letteraria, ed è dunque anche in fondo una scrittrice – noi spesso ci dimentichiamo che un traduttore è anche uno scrittore. Intere generazioni di noi non hanno mai letto The catcher in the rye di Salinger, hanno letto Il Giovane Holden di Adriana Motti. E dunque in virtù di questo suo statuto professionale Margherita è profondamente consapevole che le parole sono creature viventi, assumono forme diverse, significanti che mutano spesso radicalmente da una lingua all’altra, e quindi sa che le parole che salvano non sono facili da rintracciare, proprio come spesso non è facile portare da un’altra lingua i sensi, le sfumature, i significati, le gradazioni. Margherita sa quello che sapeva benissimo Marina Cvetaeva quando diceva: “Faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene. Lei ci prova con Bianca subito dopo l’incidente, le suggerisce di seguire la terapia di parola per eccellenza, che è quella psicoterapeutica, ma ottiene da parte di sua sorella un rifiuto forte, frontale, diretto, e quindi a un certo punto farà un passo di lato provando a starle accanto utilizzando altre virtù, quella della speranza, per esempio, o della temperanza, assecondando la semplicità dimessa dei bisogni di Bianca. È un personaggio, quello di Margherita, al quale pensavo sempre come se agisse tenendo tra le mani la mappa dell’ “Isola del Tesoro” di Stevenson, un pezzo di carta per il quale ci sono morti, arrembaggi, tradimenti salvo poi scoprire che era tutto inutile visto che il tesoro fin dall’inizio era già altrove, non è mai stato lì dove era indicato. Per Margherita la salvezza di Bianca corrisponde esattamente a quella crocetta sulla mappa: apparentemente vicinissima, letteralmente sotto gli occhi, eppure irraggiungibile.

Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole impatto emozionale.

Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione?

Io non volevo raccontare il tempo della sintesi, della elaborazione. Sarebbe stato un altro romanzo, quello del tempo che passava, e Aldo Busi, per esempio, questo l’ha detto magnificamente nell’incipit di quel suo primo romanzo straordinario che è “Seminario sulla gioventù”: “Che cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore…”.

Quello della protagonista è un percorso di urgenza, la traiettoria di qualcuno che non capisce o non vuole capire di dover armonizzare la sua esperienza del tempo con quella degli altri, che siano appunto Dario, ma anche sua sorella Margherita. E per raggiungere questo scopo utilizza anche mezzi e strategie di puro inganno.

Questo è un libro sul dolore, sul senso di colpa, sul trauma ma è anche un libro sulle maschere. In esergo ho indicato tre o quattro versi di un testo di un poeta molto bravo – temo non troppo noto – che è Vittorio Reta, morto suicida molto giovane, nel ‘77, a neppure 30 anni, versi che per il lettore sono – almeno credo, almeno queste erano le mie intenzioni – una traccia utile di decifrazione di tutta la vicenda del libro. È come se gli consegnassi subito in mano le chiavi che aprono la porta di questo romanzo ma poi ovviamente gli stacco la targhetta col numero, è lui che deve andare, come è doveroso che sia, alla ricerca del percorso giusto da fare per trovare la toppa utile con la quale aprirlo.

Amore, condivisione, solidarietà sono solo alcuni dei temi che affronta.

Qual è il messaggio etico ultimo che intende veicolare?

Qui non saprei bene che cosa rispondere, anche perché credo che la letteratura non debba mai mandare messaggi, soprattutto etici. Questa, del resto, è anche una storia che contiene aspetti contraddittori e respingenti del nostro essere e del nostro animo, come la rabbia. Di tutti i sentimenti, io credo che sia la collera che spesso spinge le persone più direttamente alla volontà di esprimersi. Come nel caso di Dario, il personaggio che subisce una grave tragedia, che è profondamente in collera con la vita, e che da questa sembrerebbe, con quella brutta espressione che spesso usiamo, sempre sul punto di essere invitato da chi gli sta accanto, come a volte capita in questi casi, a “buttarsi subito nel lavoro”. In realtà è per colmare lo strappo che l’esperienza della perdita apre nella sua esistenza, Dario va contro l’insegnamento tragico di Lacan, Freud, della psicoanalisi, quando spingono verso la notissima “elaborazione del lutto”. Non la capisce, non gli interessa. Siccome viene presentata come lento ritorno alla normalità, smussamento del dolore e così via, lui fa finta di intraprendere questo percorso tenendo un corso di fotografia, lanciandosi in un nuovo progetto fotografico, ma in fondo la sua volontà è quella di tenersi stretta questa esperienza tragica (per esempio continua a tenere in bella vista nel suo studio le fotografie della moglie e del figlio, anzi le dispone in modo tale che risultino a lui SEMPRE e COSTANTEMENTE visibili), lui raccoglie l’eredità di questa tragedia, non vuole che vada dispersa perché sennò rischierebbe di sentire di star perdendo una dimensione della nostra vera condizione, cioè quella di esseri viventi esposti irreparabilmente al rischio, letteralmente ogni secondo, della morte, la nostra e quella altrui. E lo fa imponendosi una costrizione, quella di un progetto fotografico in cui assume molte identità. È un lavoro realmente esistito di un americano che si chiama Caleb Cole, “other people’ clothes”, i vestiti degli altri, e questa costrizione lui la vive non come un limite che richiude una esperienza ma come un varco da attraversare.

La storia che narra delinea un percorso che pare indurre ad evadere dalla “comfort zone”, sfidando i propri spettri per smettere di sopravvivere e iniziare realmente a vivere.

Questo delicatissimo libro nasce con uno scopo salvifico? La scrittura stessa può assurgere ad una funzione soterica?

Anche in questo caso, guardo sempre con sospetto i libri che nascono con delle intenzioni. Però è altrettanto vero che questo non è un libro interamente nero e pessimista, e in fondo uno spiraglio di luce si apre con il personaggio del bambino Carlo, che incarna una ipotesi e una prospettiva di futuro e di redenzione (anche se ovviamente non dirò quale e in che modo per lasciare il sacrosanto gusto della scoperta dei lettori). E Carlo lo fa assumendo su di sé la figura della Speranza. A pensarci, non è tanto facile comprendere la natura di virtù della Speranza, che sembra non avere alcun legame con le altre sei Virtù, perché nella Speranza c’è inevitabilmente la condizione del futuro, di qualcosa che non c’è e che noi crediamo verrà, ma non esiste, ci è estranea la Speranza. Io posso essere forte, temperante, giusto, prudente, e posso soprattutto esserlo qui e ora, ma la Speranza, chi lo sa. In fondo è pure qualcosa che ci pesa: aspettiamo i giorni favorevoli futuri, e però mentre lo facciamo sentiamo ancora di più il peso dei giorni presenti che sono angoscianti. C’è una pagina dello Zibaldone in cui Leopardi notava come abbiamo un sacco di modi e di parole per esprimere il timore, il temere, l’intimorire, il timoroso e così via, alla speranza, diceva, toccano “una parola o due”, e questo vale, notava Leopardi, non solo per l’italiano ma per lo spagnolo, anche il greco…

Ecco, io ho voluto che in quella figura si addensasse una possibilità di ricostruire un tessuto di contatto anche con una esistenza tormentata nella quale la luce della speranza si può accendere e può arrivare da dove meno te l’aspetti.

 

Piero Sorrentino

Suoi racconti sono stati pubblicati nelle antologie Voi siete quiIl corpo e il sangue d’Italia(minimum fax), Niente resterà pulito(Rizzoli), A occhi aperti(Mondadori). È dottore di ricerca in Studi letterari. Dal 2010 è autore e conduttore del programma radiofonico Zazà, in onda su Rai Radio3. Questo è il suo primo romanzo.

Giuseppina Capone

Eleonora Molisani: Affetti collaterali

Parliamo con Eleonora Molisani del suo romanzo, “Affetti collaterali”.

Sei personaggi in cerca di ascolto, che vanno alla deriva tra incomunicabilità e solitudine esistenziale. Quanto ha attinto dal contemporaneo urlato isolamento interiore?

Facendo la giornalista da più di 25 anni non riesco a prescindere dall’osservazione di quello che mi circonda. Il progresso ha accorciato le distanze fisiche ma ha amplificato quelle emotive, i rapporti umani sono in crisi, l’incomunicabilità familiare e quella tra genitori e figli è un’emergenza che non si può ignorare. Siamo distratti da mille cose e perdiamo il senso di quello che è più importante, salvo poi rendercene conto quando capita una tragedia. La pandemia, per esempio, che ci ha costretti a fare i conti con le cose che negli anni avevamo trascurato, a ripensare le priorità. E poi: più che la narrativa “di evasione” mi interessa quella “di invasione”. Mi ispiro alla frase kafkiana: “Un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”. Amo la narrativa che scuote le coscienze, che turba e disturba. Che non lascia indifferente nel bene o nel male, che lascia dentro di noi un sedimento.

Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Mi ripeto, ma penso che l’emergenza della pandemia abbia enfatizzato all’ennesima potenza quello che volevo esprimere nel romanzo. Molte coppie vivono la stanchezza di rapporti di lunga data, sperimentano quotidianamente la fatica di seguire i figli, le difficoltà del lavoro, la crisi economica. Di conseguenza può essere comprensibile la tentazione di evadere, di cedere alla distrazione di “affetti collaterali” che danno l’illusione di evadere dalla routine, di ricevere ascolto e attenzioni, come capita a Nero e Scura nel romanzo. Migliaia di adolescenti si sentono inascoltati dalla famiglia e dalla società, non compresi, senza punti di riferimento saldi, e si rifugiano nel mondo virtuale oppure nelle dipendenze, come succede a Ricola, la giovane protagonista di Affetti collaterali. Migliaia di immigrati vivono la speranza nel momento dell’accoglienza, e poi sono costretti a vivere la disperazione di una falsa integrazione sociale, come capita a Blanca, la ragazza madre extracomunitaria della storia e a suo figlio Momo, un ragazzo pieno di rabbia e di voglia di riscatto.

I protagonisti della sua narrazione esistono in quadri della quotidianità che si scopre sotto i loro occhi mediante circostanze comuni che divengono le porte per una sensibilità, a volte, al limite della sopportazione. Perché ha deciso nei suoi racconti d’esplorare il banale, reale, vero quotidiano anziché l’esuberante straordinario?

Credo che ci si rifugi sempre di più nello straordinario, nell’intrattenimento, perché la verità, nuda e cruda, procura sconcerto, sensi di colpa, paura. Questo timore genera nelle persone distanza e indifferenza verso i problemi altrui, individui anestetizzati, sempre più superficiali ed egoriferiti. Philip Roth diceva che “la letteratura dev’essere spietata, anche terribile”, che “il libro è un feroce viaggio all’interno di ferite aperte”, che “il compito del narratore è di presentare al mondo i problemi, anche se non spetta a lui risolverli”. Sentendomi prima di tutto una giornalista, la realtà che mi interessa non è quella dell’ombelico dello scrittore, ma quella che si annida nell’esclusione, nell’abbandono, nella violenza, nell’ingiustizia, nelle speranze e nelle sconfitte delle persone normali. Sempre citando Roth: “nella narrativa bisogna contemplare gli afflitti, i feriti, i vulnerabili, gli accusati e i loro accusatori”.

Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, non si sceglie d’amare né d’essere amati?

L’amore non intrappola ma sicuramente è una “trappola”. Nel senso che è relativamente facile nel momento passionale, quello in cui si immagina solo la parte entusiasmante ed avventurosa del viaggio a due. Poi, però, se non ci si mette in ascolto dell’altro, può diventare una fatica quotidiana. Volevo rappresentare persone che si sono scelte con convinzione, che si amano, eppure non fanno altro che ferirsi e farsi del male, perché non trovano la chiave per comunicare nel modo giusto tra loro. Come diceva il poeta Eugenio Montale, in ciascuno di noi coesistono la dolcezza e l’orrore. Dipende da noi saper riconoscere la bellezza o le fragilità altrui, se non ci mettiamo in ascolto dell’altro le relazioni costruttive diventano distruttive. Spesso ci poniamo nel modo sbagliato, siamo troppo centrati sulle nostre esigenze, con il risultato di tirare fuori dall’altro solo la parte aggressiva, rabbiosa, negativa. Per questo nel romanzo sia Nero che Scura cercano negli “affetti collaterali” quella accoglienza e quell’ascolto che come coppia non riescono più a darsi. E’ una dinamica che si scatena spesso in famiglia, perché la convivenza è un lavoro duro, quotidiano. Lo psicologo statunitense Carl Rogers diceva: “Ascoltare vuol dire capire ciò che l’altro non dice”. Se vogliamo essere amati dall’altro, dobbiamo metterci prima di tutto in ascolto.

Qual è il rapporto con il tempo dei suoi personaggi?

Il rapporto con il tempo è fondamentale. Nelle dinamiche familiari il tempo ha un ruolo determinante. Perché inesorabilmente stanca, trasforma, logora. Come dicevo prima, nella coppia il tempo può essere deleterio se dopo la passione non si coltivano il dialogo e il reciproco ascolto. Lo stesso vale per il rapporto tra genitori e figli. Se l’adolescente, nel momento in cui ha più bisogno di ascolto e di conferme, non viene riconosciuto, seguito e amato dai genitori, cresce come una pianta arida, storta. E’ quello che capita a Ricola, che con il suo gesto estremo farà capire ai genitori l’importanza dei tempi in amore. Ci sono cose che vanno fatte nei tempi giusti, e se non vengono fatte in quel determinato tempo, rischiano di non poter essere più recuperate. Nei rapporti umani vale sempre il detto: “Chi ha tempo non aspetti tempo”. Nel mio romanzo il tempo sarà fatale per tutti e sei i personaggi.

 

Eleonora Molisani, Eleonora Molisani, giornalista professionista, si occupa di attualità, costume e libri per il settimanale Tustyle. Collabora, come docente di giornalismo, comunicazione e new-media, con la Scuola Mohole di Milano, dove cura la rassegna letteraria annuale “Parolibere”. Ha collaborato alla redazione di libri di scolastica e saggistica per Garzanti e McGraw-Hill. Nel 2014 ha esordito nella narrativa con “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” (Priamo & Meligrana). Nel 2016 ha partecipato all’antologia “Pausa caffè” (Prospero). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo, “Affetti collaterali” (Giraldi). Nel 2020 ha partecipato all’antologia “Lettere al padre” (Morellini). Nel 2020 ha partecipato all’antologia “Reboot-Lettere d’amore a Milano” (BookaBook). Nel 2021 ha pubblicato la raccolta di poesie: “Romanticidio, spoesie d’amore e altri disastri” (Neo edizioni).

Organizzatrice di eventi culturali, online ha fondato la community “Natural Born Readers and writers”, per la tutela della bibliodiversità. Cura la rubrica di libri “Book & Mood” per Scrittori a domicilio.

Giuseppina Capone

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