Hong Kong. Racconto di una città sospesa

Hong Kong, città dal preponderante skyline e dal profondo porto naturale, a sud del Tropico del Cancro.

Central District, Western District, Wan Chai i suoi quartieri. Barche ed oceano all’orizzonte. Grattacieli specchiati. Incredibile suggestione, vertiginosa malìa, fascino insinuante.

Gli occhi di Marco Lupis scrutano, privi di filtri convenzionali e banalizzanti, luoghi e personaggi, catturando il magnetismo di una città stato mancata.

Ex colonia britannica passata alla Cina tra contrasti e proteste di piazza; divenuta con palese evidenza multietnica. Lì il tempo cambia, bruscamente, come le stagioni ed venti che la battono. Disuguaglianza economica e dinamismo commerciale internazionale; paradiso fiscale e perturbante indigenza. Metropoli e porto profumato. Industrie ed odorosi fumi d’incenso. Bassa natalità, invecchiamento demografico e moltitudine migrante che bussa alle porte. Bocche cantonesi, dita mandarine ma anche capillarmente suoni inglesi da ponente.

Avidamente curioso, l’autore abita la città sospesa: Cinesi, Filippini, Indonesiani, Thai, Giapponesi e visi occidentali intrecciati; agnosticismo, ateismo, chiese anglicane e cattoliche fuse con templi buddisti.

Alto livello di libertà civili e mano pesante con i manifestanti.

Siamo proprio lì, ne respiriamo l’atmosfera contraddittoria, antitetica, discordante, antinomica; ne gustiamo l’antichità, catapultati nel futuro più avveniristico. Immaginiamo, vestiti di magia.

Ci scopriamo inquieti, turbati, molestati nelle certezze codificate. Siamo su un binario in corsa e con lo sguardo perso in uno spazio verticale.

Piglio da fotoreporter, afflato giornalistico, narrazione da scrittore consentono al lettore di percepirsi emotivamente coinvolto dalle righe pittoriche rapide ed incisive; indiscretamente immischiato in un’analisi lucidissima del rapporto complesso e dubbio con la madrepatria cinese e dello scontro di due visioni dissimili di capitalismo.

Marco Lupis ci trasporta con passione implacabile in un mondo di mezzo, ci traina senza fatica su un crocevia tra mondi e culture differenti, ci incoraggia ad attraversare con vibrante emozione l’immobilismo culturale.

Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita (Roma, 1960), giornalista, fotoreporter e scrittore, è stato il corrispondente de La Repubblica da Hong Kong. Nato a Roma nel 1960, ha lavorato come corrispondente e inviato speciale in tutto il mondo, in particolare in America Latina e in Estremo Oriente, per le maggiori testate giornalistiche italiane (Panorama, Il Tempo, Il Corriere della Sera, L’Espresso e La Repubblica) e per la RAI (Mixer, Format, TG2 e TG3). Lavorando spesso in zona di guerra, è stato fra i pochi giornalisti a seguire i massacri seguiti alla dichiarazione di indipendenza a Timor Est, gli scontri sanguinosi tra cristiani e islamici nelle Molucche, la strage di Bali e l’epidemia di SARS in Cina. Con le sue corrispondenze ha coperto negli ultimi 25 anni l’intera area Asia-Pacifico, spingendosi fino alle isole Hawaii e all’Antartide. Ha intervistato molti protagonisti della politica mondiale e specialmente asiatica, come la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi e la premier pakistana Benazir Bhutto, denunciando spesso nei suoi articoli le violazioni dei diritti umani. I suoi reportage sono stati pubblicati anche da quotidiani spagnoli, argentini e americani. Oggi scrive sull’Huffington Post. Quando non è in viaggio in Oriente, vive nella Casa di famiglia in Calabria, con Silvia, Caterina, Alessandro, otto gatti, diverse migliaia di libri, alcuni antenati e molti trenini. “I cannibali di Mao” ha vinto l’edizione 2019 del Premio Internazionale di letteratura “Città di Como” come “Miglior libro di giornalismo di viaggio dell’anno” ed è stato finalista all’edizione 2020 del Premio Estense. “Il Male Inutile” è stato finalista all’edizione 2018 del Premio Cerruglio Ha pubblicato: “Interviste del Scolo Breve” (Del Drago, 2017) tradotto in otto lingue; “Il male Inutile” (Rubbettino 2018) tradotto in Spagna: “El Mal Inútil” (Dauro, 2020);”I Cannibali di Mao” (Rubbettino, 2019) e Hong Kong – Racconto di una città sospesa (il Mulino, 2021).

Giuseppina Capone

Paul Poiret:  l’inventore del kimono

Paul Poiret nasce a Parigi il 20 aprile del 1879. Paul era figlio di commerciante di tessuti e aveva manifestato, sin da bambino, la sua passione per la moda e per il disegno. Suo padre, che non credeva minimamente che l’arte avrebbe potuto dargli certezze economiche, una volta terminati gli studi, gli trovò lavoro presso la fabbrica di un suo amico che produceva ombrelli. Questo tipo di lavoro, per Paul, era molto frustrante e noioso: fuggivo con l’immaginazione progettando abiti per una bambola e disegnando Toilettes di fantasia”.

Il giovane aspirante stilista di moda voleva a tutti i costi inseguire il suo più grande sogno e decise, così, di recarsi da Madame Chéruit (che dirigeva la maison Raudnitz) per mostrarle i suoi figurini di moda. Inaspettatamente ella fu compiaciuta dei lavori di Paul e non solo li acquistò ma lo invogliò a continuare. Questa fu una piccola certezza per Poiret che gli diede la grinta necessaria per non arrendersi nel perseguire  i suoi obiettivi. Da lì a poco, infatti, iniziò a visitare le case di moda più importanti di Parigi per vendere i suoi figurini  e nel 1898 Doucet (famoso stilista di moda di quel tempo) gli propose di lavorare in esclusiva per lui. Doucet,  rimase folgorato dalle creazioni di Paul tanto da lasciargli lo spazio per i suoi esperimenti, tra cui una mantellina rossa abbottonata sulla schiena di cui si realizzarono 400 modelli. In breve tempo,  Doucet, essendo sempre più entusiasta del lavoro si Poiret, gli affidò la realizzazione di costumi di scena per alcune attrici clienti della Maison. Nel 1900 trovò lavoro da Worth (primo stilista del 1800) poiché, dopo la sua morte, il suo primogenito notò che la maggior parte della clientela non era più nel fior fior della gioventù e di conseguenza costringeva la maison a non aggiornarsi con le nuove tendenze di moda e difatti a non riusciva ad avere nuova clientela. Il figlio di Worth diede a Paul un grande incarico: rinnovare l’immagine della maison con creazioni innovative per i più giovani. Capi semplici e pratici sembravano essere molto richiesti e Paul tentò con un tailleur dalla linea molto semplice. Purtroppo, però, non ebbe gran successo poiché la clientela, al contrario di ciò che sembrava, era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare le novità.  Il rapporto si concluse quindi molto presto lasciando come unica testimonianza una toilette per la contessa Greffulhe.

La prima maison di Poiret

“Quando veniva l’autunno, tornavo dalla foresta di Fontsinebleau con una carrozza carica di foglie dorate, bruciate dal sole, e in vetrina le mescolavo con panni e velluti degli stessi colori. Quando nevicava, evocavo tutta la magia dell’inverno con stoffe di lana bianche, tulle e mussole combinate con rami secchi, e vestivo la realtà del momento intraprendendola in un modo che incantava i passanti”.

Paul Poiret aprì la sua prima maison nel 1903: due piccoli saloni e una vetrina sulla strada. Usufruì della vetrina per esporre le sue nuove meravigliose creazioni che ben presto attirarono tutte le donne tanto da farlo diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. L’intento di Paul era di andare a passo con le esigenze del momento liberando la donna dal corsetto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea a S, e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Continuò  a realizzare, appunto, abiti pratici e comodi come il mantello-kimono che divenne il prototipo di tutta una serie di creazioni successive. Lo chiamò Confucius e ogni donna ne acquistava almeno uno.

“Come tutte le grandi rivoluzioni, anche quella era stata fatta nel nome della libertà. Fu ancora nel nome della libertà che raccomandai l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno che da allora ha fatto fortuna”.
Da quel momento in poi, Poiret, cominciò a lavorare ad una nuova collezione basandosi solo sull’idea di donna moderna. Si trasferì, nel 1910, all’Hotel Partculier, in cui si divertiva ad organizzare spesso grandi feste. Poco tempo dopo creò il primo pantalone femminile (Jupe-coulotte) da indossare sotto la gonna. Due mesi dopo, accompagnato dalle sue modelle, con indosso capi firmati Poiret, iniziarono per Paul lunghi viaggi in giro per l’Europa, che furono per lui fonte di grande ispirazione per le nuove  creazioni. Al ritorno da questi meravigliosi e interessanti viaggi, Poiret aprì un nuovo atelier all’interno della quale i giovani lavoratori producevano profumi, mascara, e tanti altri cosmetici.

Nel 1914 organizzò una manifestazione per rappresentare il mercato americano e parigino con lo scopo di far collaborare la moda parigina e quella americana.  New York: proposta da parte di Paul per una nuova linea che consisteva la realizzazione di gonne corte e ampie con criolina. Finita la guerra, Paul, tornò a Parigi ma una tragica notizia lo scosse terribilmente: la morte dei suoi due figli e la decisione di sua moglie di voler la separazione. Afflitto dal forte dolore per la perdita di persone a lui care, decise di tornare a viaggiare ma questa volta verso il Marocco. Altra meta di grande ispirazione il Marocco per Paul, tornò, infatti, con un bagaglio ricco di nuove idee che diede, così, alle sue nuove collezioni un tocco di eleganza in più grazie anche all’utilizzo di nuovo materiale lussuoso come stoffe pregiate e ricamate. Sfortunatamente, nemmeno i suoi viaggi e le sue nuove collezioni gli furono d’aiuto in quel periodo di grande crisi e preso dalla disperazione decise di organizzare un’ennesima festa in cui appiccò un incendio per salvare le persone e portarle in salvo nel suo atelier. Nemmeno nei panni da supereroe riuscì a salvar la sua fama da stilista. Ma nel 1930 disse: “Sono solo, anche se mi rimangono alcuni nipoti e amici che credo mi vogliano bene. Sono tornano con passione alla pittura che ho sempre amato e praticato e nulla mi sembra più bello di esprimersi con i colori. Mi hanno proposto di rimettermi in attività, potrebbe succedere. Mi sento molti abiti sotto la pelle”.

Alessandra Federico

Scuola online: le difficoltà dei bambini a seguire lezioni attraverso lo schermo

“Non riuscivo a seguire la lezione online. Volevo tanto stare con i miei amici. Avevo tanta voglia di ridere con Luca durante la lezione di inglese perché la maestra è sorda. Volevo scambiare le figurine con i miei compagni di classe nell’ora della merenda. Finalmente siamo tornati  a scuola e spero che tutto questo duri per sempre”

Vivere questo particolare  periodo in cui il contatto umano e la vita sociale sono momentaneamente sospesi fa quasi dimenticare come ci si sentiva quando si poteva uscire liberamente di casa o abbracciare un amico. Purtroppo chi ne sta subendo maggiormente le conseguenze negative sono proprio i bambini: per i più piccoli è fondamentale stare insieme ai loro coetanei. È importante il contatto umano, anche darsi la mano durante la fila per entrare in classe o un abbraccio al proprio compagno di banco. Ancora, è importante guardare negli occhi e sentire la presenza fisica di un insegnante che ti spiega la lezione del giorno. Purtroppo, però, il contatto fisico tra i bambini era, da tempo, già ridimensionato  a causa del troppo utilizzo di videogiochi, social network e tutto ciò che possa ipnotizzare un bambino avanti ad uno schermo. Limitare loro anche l’opportunità di poter studiare insieme ai loro coetanei o praticare sport è stato veramente deleterio.

La soluzione potrebbe essere quella di far sì che una volta tornati alla normalità questi bambini possano trascorrere più tempo possibile in compagnia dei loro coetanei e il più possibile all’aria aperta senza ipnotizzarsi dinanzi ad uno schermo perché è importante che a quella età possano sentirsi liberi di dare sfogo alla loro fantasia, inventando e cambiando continuamente gioco purché sia frutto della loro inventiva, perché sviluppare la creatività nell’età infantile è fondamentale per far sì che in futuro possano riuscire a reinventarsi in ogni situazione.

Mattia è un bambino napoletano di 8 anni dotato di grande intelligenza ma che ha trovato purtroppo   difficoltà nel concentrarsi durante la lezione online. Ecco una breve intervista  a Cinzia (madre di Mattia) in cui ci racconta quale soluzione ha trovato per il suo bambino.

Cinzia, hai da subito trovato difficoltà Mattia nel seguire le lezioni online?

I bambini hanno bisogno di nuovi stimoli ogni giorno e questi li trovano soprattutto nel contatto umano. Mio figlio è un bambino molto volenteroso, andava bene a scuola e ha sempre praticato sport. Da quando ci sono state queste lezioni online non solo si è un po’ chiuso in se stesso perché non può vedere da mesi il suo migliore amico Paolo, ma ha trovato tanta difficoltà nel concentrarsi e nel seguire gli insegnanti.  Inizialmente sembrava che riuscisse a studiare ma col tempo notavo che si distraeva e ho deciso allora di cercare un aiuto, perché purtroppo con il mio lavoro posso dedicargli poco tempo per i compiti.

Che tipo di aiuto hai trovato?

Ho trovato un insegnante privato che segue Mattia tre volte la settimana per le lezioni extrascolastiche. Io credo  che Mattia abbia bisogno di qualcuno che gli parli faccia a faccia perché è un bambino che sente molto la necessità di avere un approccio fisico: gli ho sempre spiegato e dimostrato che il contatto fisico è importante quindi lui è abituato soprattutto a dare abbracci e baci, anche ai suoi maestri. È abituato a guardare negli occhi qualcuno quando gli parla, ma questo credo sia lo stesso per ogni bambino del mondo ma c’è chi ha vissuto questa situazione in modo diverso e riesce ugualmente a seguire le lezioni. Forse sono quei bambini che sono abituati a trascorrere molte ore avanti ad uno schermo.

 Crede sia dovuto a questo?

Ho sempre vietato a Mattia di trascorrere troppo tempo avanti al pc o alla play station,  al contrario, l’ho sempre invogliato ad impiegare il suo tempo libero, dopo lo studio, con amici e fare sport. Perché vedere mio figlio rimbecillirsi con un videogioco ore ed ore, ahimè, è la cosa che più mi spaventa. Ed è per questo che lui trova difficoltà a seguire lezioni online.  Parecchi suoi compagni di classe, invece, passano molto tempo alla play station o altri giochi, per cui sono loro stessi che dicono che preferiscono seguire le lezioni online anziché in presenza fisica, proprio perché affermano di essere diventata per loro un’abitudine vivere con uno schermo davanti agli occhi. Per quanto mi riguarda questo è tutto molto triste.

Come crede che farà con Mattia una volta finito questo periodo?

Quando questo periodo sarà terminato cercherò di far trascorrere a Mattia più tempo possibile con altri bambini e gli farò fare qualsiasi sport lui abbia voglia di praticare. Credo sia importante per il suo futuro sentirsi libero dalla schiavitù di uno schermo. Voglio che mio figlio sviluppi il cervello e la sua intelligenza più possibile adesso che esiste ogni mezzo per far si che i giovani di oggi abbiano più limiti, c’è bisogno che i genitori spronino  loro a capire qual è la strada giusta per il loro futuro e da cosa devono allontanarsi. Perché voglio che lui non si blocchi mai davanti ad un ostacolo e questo potrei ottenerlo se gli ripeto costantemente che studiare è fondamentale, leggere, inventare, creare, avere inventiva nei giochi senza playstation e cose virtuali che ti rubano la fantasia. Bisogna spronare i bambini ad essere creativi perché nel futuro non ci siano menti chiuse e zucche vuote ma nuove teste fantasiose e ingegnose.

Alessandra Federico

Anni ‘70: moda hippy, libertà e una nuova vita per la donna italiana

Il futuro apparteneva a loro: i giovani idealisti degli Anni ‘60 aspettavano impazienti il decennio successivo, decennio ricco di mutazioni sociali e di rivoluzioni. Sono stati anni che hanno totalmente cambiato il destino di un’intera generazione. Li ricordiamo, nonostante siano stati attraversati dalla generazione dell’ideologia e dal terrorismo, gli anni della più totale libertà, soprattutto per la donna, e per le rivendicazioni dei diritti di quest’ultime oramai non più considerate fenomeni di minoranza poiché aspiravano all’autorealizzazione. È stato un decennio che ha cambiato totalmente la società – come ad esempio l’avvenimento del 18 settembre 1970 quando in Italia ci fu un profondo cambiamento culturale: entrava in vigore la legge sul divorzio. Gli Anni ‘70 sono stati anni ricchi di nuovi avvenimenti e di mutamenti che hanno cambiato per sempre la visione del mondo da quel momento in avanti. Un decennio di grandi rivoluzioni tra le scuole occupate, i cortei delle donne, la nascita del primo movimento di liberazione omosessuale italiano, le manifestazioni, la scoperta della pillola anticoncezionale, delle prime esperienze riguardo all’assunzione di sostanze stupefacenti. In quei meravigliosi ma frenetici e folli Anni ‘70 c’era il coraggio di lottare e la voglia di vivere la vita. “Cambiare la società e farla diventare più giusta”, questo era l’obiettivo e i giovani che volevano ottenerlo erano in tanti e tutti volenterosi di vivere in un mondo migliore con più diritti e uguaglianze.
Anche la moda cambia
Tuttavia, di pari passo, non poteva non subire un grande mutamento anche l’abbigliamento. La moda degli Anni ‘70 assunse la forma di un grande movimento, quel movimento che stava per cambiare e rivoluzionare, appunto, anche la storia della moda. La moda si divideva secondo le diverse idee politiche: giacca di pelle, Ray Ban e la polo Lacoste erano prerogativa dei giovani di destra, invece, chi indossava l’eskimo verde abbinato ai jeans, maglioni larghi e borse a tracolla in cuoio o in tela erano quelli di sinistra. Gli hippy indossavano anche camicie larghe e lunghe tuniche trasparenti, colori sgargianti, le texture prendevano la forma di grandi fiori colorati e non solo, anche tra i lunghissimi capelli aggrovigliati sfoggiavano nastri e fermacapelli a forma di fiori e questo look era proprio il simbolo della libertà. Non a caso, la parola chiave era anti-fashion, voleva significare che tutto era permesso di indossare dai vestiti di cotone a basso costo all’Haute Couture, perché ciò che contava era non avere un look noioso e pare proprio che ci siano riuscita alla grande.
In quegli anni Elio Fiorucci fu il primo in Italia a captare questo tipo di moda e da lì a poco creò a Milano un grande emporio bazar che diventò punto d’incontro dei giovani, vi si poteva, oltretutto trovare ciò che più si desiderava per essere al passo con la bizzarra moda di quel tempo: zatteroni altissimi, jeans a zampa di elefante, camicie a fiori, e gadget colorati di tutte le forme e dimensioni, tute colorate elastiche aderenti adatte alla disco-dance. Non solo, giacche di pelle e Ray Ban per la clientela che seguiva l’altro stile di moda di quel tempo. Ma Yves Saint Laurent era, in quel periodo, lo stilista di moda più intraprendente e geniale. Le sue creazioni erano innovative e fantasiose poiché dettate dalla sua passione per l’arte. Yves credeva che l’ispirazione maggiore avrebbe potuto averla soprattutto grazie alla strada: aveva capito che avrebbe dovuto frugare, rovistare nel passato per rivisitare l’abbigliamento femminile creando così uno stile unico con il blazer, lo smoking, il trench, il tailleur-pantalone, il giubbotto di pelle che hanno immediatamente cambiato la visione riguardo alla donna. Finalmente lui e lei avevano lo stesso aspetto e rispetto in un’epoca ricca di positività, libertà e voglia di cambiare il mondo.
Alessandra Federico

Giancristiano Desiderio: football. Trattato sulla libertà del calcio

 Jean Paul Sartre scrive: «Il calcio è la metafora della vita».

Questo luogo comune può essere rovesciato in: «La vita è la metafora del calcio.»?

E’ quanto faccio, dichiarandolo, in football. Gli intellettuali, ma non solo loro, vedono il calcio come metafora, immagine, simbolo e così ripetono quello che è, appunto, un luogo comune. Sulla scia di Sergio Givone, ma andando al di là della sua intuizione, ho capovolto il luogo comune e ho mostrato che è la vita ad essere la metafora del calcio: ossia è l’esistenza umana che sembra modellarsi sul gioco calcistico fino a imitarlo o copiarlo. Per capire questo capovolgimento è necessario prendere il calcio proprio per ciò che è realmente: football, palla calciata. Si vedrà, allora, che le due regole del gioco del calcio, il controllo e l’abbandono del pallone, sono anche le due regole della vita.

Nel Novecento il calcio ha sconfitto i totalitarismi di Hitler e di Stalin.

Quale funzione politico-sociale-antropologica assume oggi il football?

Oggi il calcio è né più né meno che un divertimento, un affare e, volendo esprimere un giudizio moralistico, oppio. E’ anche giusto così. Questo accade perché il gioco praticato in una condizione di libertà è soltanto un gioco, mentre se il gioco è giocato in un regime dispotico o addirittura totalitario, come nel caso della Germania di Hitler e l’Urss di Stalin, diventa un gioco pericoloso, a tal punto pericoloso che in gioco c’è la vita. Proprio come accade nel gioco della filosofia quando la pratica del lavoro critico è condotta fino in fondo. Però, non c’è bisogno di vivere sotto una dittatura per scoprire la carica umana del gioco del calcio. Il mio libro, in fondo, vuole svolgere proprio questa funzione e assume il calcio come stimolo per pensare la vita e la sua connaturata libertà.

Il suo trattato lascia intendere che calcio sia il modello cognitivo del controllo e dell’abbandono, sostitutivo del “sistema di sicurezza” della storia del pensiero occidentale.

Il calcio come idea di libertà?

Sì, proprio così. Per poter giocare a pallone non possiamo fare altro che mettere la palla in gioco ossia rischiare di perderla, di subire il gioco avversario, di essere anche sconfitti. Ma non c’è altro modo per giocare. Così accade anche nella vita: per vivere non possiamo fare altro che mettere la vita in gioco e anche per pensare la vita non possiamo fare altro che metterla in gioco. La vita e la verità sono a tutti gli effetti come la palla, la sfera. Non era forse un grande filosofo presocratico, Parmenide, a dire che la verità è come una ben rotonda sfera? Una sfera che rotola, direbbe Eraclito. E noi non possiamo fare altro che controllare e abbandonare la palla, controllare e abbandonare la vita perché non siamo e mai saremo i padroni assoluti né del pallone né della vita. Ma, si aggiunga, proprio per questo siamo esseri votati alla libertà, perché per essere liberi è necessario giocare, lavorare, operare, partecipare alla vita e alla vita del sapere, del pallone. In fondo, il numero 10 più grande di ogni tempo, lo diceva già in modo mirabile quando osservava che la vita umana “partecipa” alla verità cioè la possiede se non per il tempo ristretto del giudizio conoscitivo che poi abbandoniamo per vivere.

La Var possiede una pretesa: controllare il gioco ed eliminare l’errore.

Ciò non stride con il carattere “hayekiano” di siffatto sport, che si profila come l’esito delle azioni dei giocatori e non di una volontà pianificatrice calata dall’alto? L’errore non è una variabile da accettare?

La Var è prima di tutto un’illusione: il convincimento di poter e dover controllare tutto. Poi è un rimedio peggiore del presunto male: perché non elimina l’errore ma lo assume trasformandolo in verità e imponendolo ai giocatori. Ma i giocatori giustamente si ribellano perché è il Gioco stesso che si ribella attraverso di loro. La Var è l’introduzione nel gioco dell’ossessione del sistema di sicurezza nel tentativo maldestro di eliminare l’errore, lo sbaglio. E’ la quintessenza delle contraddizioni della nostra cultura quando rifiuta la sua dimensione umana, umanissima. Nel libro suggerisco di usare la Var solo per la geometria ossia per il fuorigioco o per le linee, ad esempio per vedere se il pallone è di qua o al di là della linea; ma per il resto, ossia per le azioni di gioco, non solo va eliminata la Var ma va rivisto anche il regolamento con le assurdità del fallo di mano automatico, delle braccia attaccate al corpo. Il calcio è una danza e le braccia servono per danzare con equilibrio.

“Football” è un testo zeppo di storie vere. Può offrircene una?

Beh, c’è la storia del giocatore che fermò Hitler, Matthias Sindelar, o l’allenatore più importante nella storia del calcio italiano, Arpad Weisz, ma la storia che a me piace ripetere è quella del calciatore che giocava in due squadre e in una delle due sotto falso nome oppure la storia del mister che allenava due squadre che militavano nello stesso campionato e una domenica le due squadre si incontrarono e lui passava da uno spogliatoio all’altro per illustrare la strategia di gioco, dicendo chissà che cosa. Il gioco del calcio, che come tutte le cose non dominabili fino in fondo ha una natura ironica, è anche questo.

Giancristiano Desiderio, laureato in Filosofia all’Università Federico II di Napoli, inizia il suo lavoro giornalistico come collaboratore del Secolo d’Italia. Nel 1996 entra a far parte della redazione del quotidiano beneventano Il Sannio  e nel 1999 ne assume la direzione. Nel 1999 inizia a collaborare con il Corriere del Mezzogiorno  e con Sette  del Corriere della Sera. Nel 2000 Vittorio Feltri lo assume come redattore politico di Libero e svolge il lavoro di cronista parlamentare. Nel 2004 passa a L’Indipendente diretto da Giordano Bruno Guerri e nel 2005, con la direzione di Gennaro Malgieri, ne diventa vicedirettore. Nel 2005-2006 conduce il programma televisivo Walk Show su Rai Futura, canale Rai diretto all’epoca da Franco Matteucci. Nel 2005 ha fondato la Biblioteca Michele Melenzio di Sant’Agata de’ Goti e ne è direttore. Dal 2008 al 2013 è editorialista del quotidiano Liberal fondato da Ferdinando Adornato e diretto da Renzo Foa. Ha scritto per Lo Stato, Il Giornale, Il Foglio, Il Riformista, Percorsi. Insegna filosofia e storia al Liceo Manzoni di Caserta. Scrive per il Giornale e per il Corriere della Sera.

Giuseppina Capone

Eros e Thanatos ne I Racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini

Rossella Lisoni, Canterbury Tales è la fonte letteraria alla quale Pasolini si è ispirato per la realizzazione del suo film.

Quali caratteristiche possiede la narrazione di Chaucer ed in qual maniera è assorbita ed adottata da Pasolini nella produzione cinematografica in esame?

E’ lo stesso Pasolini ad asserire nella “Revue du cinéma image et son” a proposito del suo film I Racconti di Canterbury che egli non ha mai avuto l’ambizione di fare un film in inglese come se fosse un film in inglese, in quanto sapeva già prima di iniziarlo che sarebbe stato il punto di vista di un italiano che ha letto I Canterbury Tales e la notte ha sognato I Canterbury Tales.

Portando sullo schermo I Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer nel 1972 egli getta lo sguardo ad un’opera letteraria lontana nel tempo (“sono una forza del passato, solo nella tradizione è il mio amore” dirà il poeta in Poesia in forma di rosa), come se soltanto nel passato potesse ritrovare una dimensione gioiosa e incontaminata del vivere quotidiano e l’immagine di un eros liberamente vissuto.

I testi letterari ai quali attinge nei tre film de La Trilogia della vita “”Il Decameron”, I Racconti di Canterbury” e “Il Fiore delle 1000 e una notte” diventano nelle mani di Pasolini dei pre- testi, delle tracce narrative sulle quali costruire il suo personale discorso poetico, a volte distante dall’ideologia dell’autore preso in esame.

Certamente con “La Trilogia della vita” Pasolini fa esplodere certe tensioni presenti fin dall’inizio della sua produzione poetica, quello che ne “La religione del mio tempo” viene definito come “L ‘innocente bene della vita” Pasolini lo trovava un tempo nell’Africa nera (“Appunti per un’Orestiade africana”) e nell’India “Appunti per un film sull’India”), terre vergini ma non in grado di sottrarsi all’intervento di un Capitale che ne deforma il volto.

Negli anni 70 Pasolini si volge a riconsiderare un passato lontano dove ha origine la letteratura popolare, quindi una realtà autentica e sarà questa la filosofia che attraverserà per intero “La Trilogia della vita”.

Il desiderio di comunicare per far nascere la riflessione lascia ora con il film ‘I Racconti di Canterbury” il posto al piacere di fare, di raccontare per il piacere di raccontare.

Ricerca nostalgica quella di Pasolini, che sfugge alla logica della decadenza e rimanda ad un universo transtorico, per questo il Chaucer di Pasolini perde quasi del tutto ogni connotazione storica.

Pasolini si muove su due direzioni contrapposte: da un lato ignora la pagina chauceriana, il fatto cioè che il testo di Chaucer risenta di un’epoca gaudente che esce dalle paure medievali e si avvia a una concezione umanistica della vita e dall’altro Pasolini coglie, con colori lividi e atmosfere cupe, il momento in cui si afferma la società borghese, quell’economia mercantile che inesorabilmente finisce per imporre la propria logica perversa all’universo popolare e ai valori che lo caratterizzano.

Pasolini deideologizza il testo di partenza, ma dello stesso conserva la visione di un’età di trapasso epocale che porta con sé certezze passate e dubbi future.

Pasolini comprende che Chaucer prevede tutte le vittorie della borghesia, ma anche la sua fine .

Egli parla di una ricostruzione chauceriana visionaria, non un pretesto per ricostruire un mondo lontano dal punto di vista storico, in quanto la storia nel suo film è pura visione.

L’immaginario letterario e l’attività giornalistica di Paolini nella sua produzione cinematografica.

Ha ritrovato segni, rimandi, riverberi?

Fu lo stesso Pasolini ad affermare che “un poeta scrive sempre la stessa poesia e un regista gira sempre lo stesso film”. Gli assunti della sua poesia, dei suoi romanzi, dei suoi scritti corsari animano i suoi film. L’ amore viscerale per la propria terra e in seguito per le borgate romane, il tema dell’eros mai disgiunto da thanatos, il dissidio tra istinto e ragione, la critica ai valori della borghesia divenuti per Pasolini dei disvalori, assunti tipici delle sue poesie (“Poesie a Casarsa”,” La religione del mio tempo”) e dei suoi romanzi (“Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”) confluiscono nel suo cinema. Sia nel cinema degli esordi, in cui è descritto il mondo sottoproletario e il suo cammino verso la morte (Mamma Roma, Accattone), che nel film “storico”: “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui la storia del Cristo aderisce all’ottica dei film prima analizzati, con evidenti richiami al mondo contadino, il cui dialetto era stato analizzato nelle prime produzioni poetiche (“Poesie a Casarsa” e La meglio gioventù), che nel cinema di denuncia (Teorema), che nei i film in cui riecheggia la realtà storica a la propria biografia esistenziale servendosi del mito (Edipo Re, Medea) che infine nei 3 film de “La trilogia della vita”: Il Decameron, I Racconti di Canterbury e Il Fiore delle mille e una notte, in cui l’eros è un valore da contrapporre all’odiato presente, a quell’universo borghese che degrada la realtà. La differenza tra letteratura e cinema, sottolineerà il Pasolini teorico del cinema, sta nel maggior grado di realtà che quest’ultimo rispetto a quella riesce ad assicurare. Il confronto con la morte, inteso come assunto ossessivo, è  un dato ricorrente nell’intera produzione pasoliniana, è l’espressione del suo sentire profondo. Nel film I Racconti di Canterbury l’idea della morte ci accompagna lungo tutto il corso del film e la morte vestirà i panni del protagonista nel Racconto dell’indulgenziere. Sarà la morte ad avere la meglio su tutti, quasi a sottolineare che nel duello con la morte si esce sempre perdenti e che la vita termina là dove regna il denaro, cioè la corruzione. Il morire evocato sugli schermi pasoliniani si rivela come un non senso precipitato, quasi un improvviso non rendersi conto, pensiamo alla morte del quarto marito nella Novella della Donna di Bath. E’ quello degli anni 70 un Pasolini “corsaro” critico si della modernità derivante dall’omologazione delle conoscenze e della cultura operante direttamente dal potere e indirettamente dai mass-media, ma sempre in maniera contraddittoria (“per chi è crocefisso alla sua razionalità straziante, la rivoluzione non è più che un sentimento”). La qual cosa non gli impedisce di far salve le ragioni della poesia. Sarà lo stesso Pasolini a distinguere un cinema di poesia, al quale egli stesso tende, un cinema nel quale la macchina da presa fa sentire la sua presenza attraverso le riprese in soggettiva, da un cinema di prosa in cui certi procedimenti stilistici sono assenti.

Chaucer, probabilmente, offre a Pasolini un’occasione per elevare e glorificare il corpo nella sua dimensione più appagante e favolosa.

Quale idea emerge in relazione all’eros?

L’operazione che compie Pasolini ne I Racconti di Canterbury è ridurre il “dialogismo” Chauceriano e convertirlo in fatto visivo. La riconquista del reale va vista nei  procedimenti tecnico espressivi impiegati dal regista, cioè nelle scelte di scrittura che rendono autonoma un’opera che trae pur sempre spunto da un testo letterario.

Se il visibile è sottoposto alle leggi sociali e il discorso è limitato da un ordine imposto da un sistema ideologico, gli scarti tra l’uno e l’atro rappresentano i momenti in cui Pasolini può proporre l’autentico, la verità che il sociale reprime.

Far vedere il corpo nella sua integrità, mostrare l’atto erotico sullo schermo sono pratiche attraverso le quali l’intelletto fa irruzione sullo schermo, nella sua completa oscenità, in una società che tiene distante la sua esibizione.

Il regista interviene in maniera significativa sulla pagina scritta: ricondurre il dialogo sulla sfera del visivo non significa solo rendere omaggio ad un cinema che non esiste più, ma anche tenere cose e figure umane in campo mute, affinché il gesto, la corporeità fisica, anziché la parola, diventino elemento primario significante.

I Racconti di Canterburiy all’idea del corpo come vitalità, che era già stato del “Decameron” e che ritroveremo nel “Fiore delle 1000 e una notte” aggiungono un’immagine di questo stesso corpo completamente opposta.

Aleggia infatti all’interno del film un’idea di morte, di disfacimento fisico, di caducità dell’esistere che è presente soltanto parzialmente nel testo letterario di Chaucer.

Nel film sono presenti un corpus di novelle in cui l’eros è mostrato quale momento di liberazione e pienezza di vita, gioia del corpo e al contrario altre in cui l’eros sfocia nel thanatos, in cui emergono valenze tanatologiche nel momento in cui la società reprime la carica erotica, vitale dell’eros.

Allorché i corpi dei protagonisti delle novelle appaiono coperti esprimono una mercificazione e in ombra esprimono il peccato, come nel Racconto del Mugnaio, nel Racconto del Mercante, Racconto della Donna di Bath, mentre quando i corpi sono mostrati nudi e illuminati dalla luce del sole indicano una valenza positiva.

Nel Racconto del Fattore, la figlia del Mugnaio, la sola capace di dire la verità, ci appare nuda e illuminata dalla luce del sole. La sola figura femminile investita di un ruolo positivo e capace di esprimere un sentimento autentico, sganciato cioè dalla morale mercantile.

Nell’insieme però nel film il linguaggio del corpo non riesce a trasmettere una solare vitalità, comunica un senso di inerzia, di morte, di oppressione, unica eccezione la danza di Ninetto Davoli nel Racconto del Cuoco, danza che appare come una vana speranza.

Eros e Thanatos: è un connubio necessario ed imprescindibile? Inoltre, quanto è incisivo il contesto in cui si esprimono?

La morte, come più volte ricordato, rappresenta un assunto fondamentale nell’opera pasoliniana.

Presenta già nei primi componimenti poetici (Poesie a Casarsa) e nei suoi romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta), trova nel cinema la completa rappresentazione.

Sarà lo stesso Pasolini ad affermare che la libertà è “libertà di scegliere la morte” e sarà proprio thanatos, come lato oscuro di eros, a rappresentare uno dei cardini de I Racconti di Canterbury.

Nel film è presente una morte medievale, allegorica e come ricorda Pasolini ” morte nello stesso momento volgare fino all’abiezione”. La strada affollata di uomini vivi del film diviene nel finale del film un gruppo mortuario, quasi una discesa all’inferno per gli uomini che hanno venduto le loro anime al diavolo per ottenere un profitto economico.

L’ idea della morte che aleggia nel film non è associata all’idea del pellegrinaggio medievale, con mortificazione della carne, digiuni, silenzi, preghiere, ma al contrario siamo immersi in un’atmosfera paganeggiante, il cui principale interesse è costituito dal profitto economico.

Il senso religioso è svanito e l’umanità ha perso i suoi valori fondamentali la punto da vendersi il velo di Maria.

Viene esaltato il valore della parola, come religiosità , come comunicazione ma soltanto per propagandare il valore del guadagno cioè thanatos.

Fine di ogni valore e morte in senso allegorico dell’eros cioè della religiosità,

Morte dell’anima ma non della carne, non più in grado però di procurare all’uomo felicità.

Pasolini dichiarò: “I racconti di Canterburysono stati scritti quarant’anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi, solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d’altra parte era più moderno, poiché in Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già una contraddizione: da un lato l’aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del Medioevo, dall’altro l’ironia e l’autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva coscienza.»

Può commentare tale asserzione alla luce dei suoi studi?

The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer costituiscono un punto di riferimento basilare per una teoria dei generi tra Medioevo e Rinascimento, poiché sono una summa di forme e stili.

Con Chaucer la letteratura inglese del Middle English raggiunge la sua più alta espressione.

Egli diviene, per le sue proprie qualità, uno scrittore dotato di risorse tecniche, versatile e universalmente ammirato in tutto il medioevo inglese.

Il Medioevo di Chaucer è un’epoca in declino, i capisaldi del mondo medievale: la Chiesa e l’Impero mostrano segni di decadenza.

La borghesia, che con l’arma della satira trionfa sulle vecchie istituzioni, impone il richiamo alla religione.

Per il poeta il mondo dei sensi, lungi dall’essere una realtà intangibile, è un universo desiderabile anche nella sua caducità.

In qualità di gaudente, egli sa apprezzare tutto ciò che è terreno, non facendosi influenzare da preoccupazioni ultramondane, ma al contrario godendo di una serenità non riscontrabile negli altri scrittori medievali e riuscendo a ricavare dall’osservazione ironica, ma anche comprensiva dei suoi simili, quel genere di divertimento del quale solo l’artista sa godere. L’ambiente economico e sociale con le sue inquietudini e i suoi sconvolgimenti viene filtrato attraverso il carattere dei personaggi e trasfuso in esempi individuali e di egoismo e furfanteria, descritti con quello stesso interesse e gusto per il comportamento degli uomini e per le loro debolezze che si ritroverà in Shakespeare.

Il punto di vista di Chaucer è sempre quello di un laico, nonostante le testimonianze di un genuino sentimento religioso.

Egli nel suo complesso si mostra più attratto che scandalizzato dalle debolezze della natura umana.

Non un giudizio duro o un’aspra critica muove la volontà di Chaucer, bensì l’accettazione e la giustificazione di ogni creatura umana e la scoperta in essa di una profonda umanità.

Chaucer è volto al divertimento ed esalta la borghesia, come classe sociale produttiva e socialmente utile.

La grande capacità di Chaucer è la chiacchiera, i narratori più che narrare chiacchierano, le storie che raccontano sono un pretesto per dei meravigliosi pezzi di bravura comico-moralistica, con un’ infinità di citazioni preziose, di magniloquente didattiche fintamente arcaiche.

Chaucer, all’interno dell’opera, ha una duale identità, sia di autore che di pellegrino, elemento fondamentale che, insieme alle sue doti di narratore e umorista borghese, lo rendono quasi un antenato dei romanzieri del settecento inglese.

Il suo punto d’osservazione, anche se ironico, è sempre centrale, il tono anche se comico, mai buffo e ognuno dei suoi personaggi rappresenta una qualche verità essenziale dell’uomo, da qui la sua estrema raffinatezza.

 

Rosella Lisoni nasce a Marta in provincia di Viterbo, si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne e Contemporanee presso l’ Università degli Studi della Tuscia con una tesi sul cinema di Pasolini. Inizia la sua attività lavorativa insegnando lingua francese, attualmente lavora nella Segreteria di Direzione del Dipartimento per la Innovazione nei Sistemi Biologici, Agroalimentari e Forestali I -DIBAF, presso l’ Università della Tuscia.

Per anni ha scritto recensioni cinematografiche sulla rivista Cinema60.

Ha collaborato su un quotidiano on line di Viterbo e attualmente collabora con la rivista culturale L’ Ottavo.

Nel luglio 2020 ha pubblicato un saggio su Pasolini dal titolo: “Eros e Thanatos ne I Racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini”.

Giuseppina Capone

I sentieri delle Ninfe nei dintorni del discorso amoroso

Fabrizio Coscia è nato a Napoli, dove vive e insegna. È critico letterario e teatrale, collabora al quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo «Notte abissina» (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi «Soli eravamo e altre storie» (ad est dell’equatore, 2015, tradotta in tedesco), «La bellezza che resta» (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017), «Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon» (Sillabe, 2018), «I sentieri delle Ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso (Exòrma, 2019), «Lo scrivano di Nietzsche» (Mattioli 1885)

Alcuni testi tratti da «Soli eravamo» sono stati tradotti in inglese e pubblicati su riviste letterarie internazionali.

Omero con Calipso come HH, Humbert Humbert, il protagonista di Lolita, colti dalla mania della ‘ninfetta’.

Chi è la “ninfa”?

La Ninfa, secondo la mitologia, è una creatura mortale di origine divina, nata dalla spuma di sangue e sperma caduta in mare dalla castrazione di Urano. Ma è una creatura che, dai tempi dell’antica Grecia, continua a sedurci, a parlare alla nostra modernità attraverso le immagini, magari nascosta dietro l’icona di Bettie Page, la pin-up vestita solo di lunghi guanti di pelle nera, con un frustino in mano, sguardo dritto all’obiettivo, immortalata dagli scatti di Irving Klaw; oppure incarnata nell’eterna Marilyn Monroe, con la gonna del vestito bianco sollevata dal getto d’aria che esce dalla grata della metropolitana di Lexington Avenue. O la possiamo sorprendere nelle anonime modelle seminude delle pubblicità degli intimi e dei profumi sui muri della città o sugli edifici in ristrutturazione; o forse appena allusa in qualche immagine postata su Instagram, in qualche foto-profilo su Facebook, nei selfie ammiccanti che lasciano però solo un fugace segno nel mare della Rete, dove l’aura dell’incanto si perde, svapora nel trionfo di un effimero ripetibile all’infinito. È in ognuna di queste immagini che si possono seguire le deboli tracce della sua sopravvivenza. La ninfa moderna è solo il fantasma di ciò che un tempo è stata quella creatura mortale di origine divina, ma resta il fatto che essa è ancora viva, in quanto fantasma erotico, ed ecco perché, come tale, è pura immagine e parla attraverso le immagini, ma è un’apparizione che però rimanda immediatamente alla sua assenza, alla sua mancanza. Per questo le Ninfe sono «esseri di fuga», come l’Albertine di Proust, o la stessa Lolita di Nabokov, creature inafferrabili, che ci sono e allo stesso tempo non ci sono, rivelando dunque l’impossibilità del possesso nella relazione d’amore, e perfino il carattere intransitivo dell’amore stesso. Ci si innamora di un’immagine che nasconde un abisso. Per Platone però cadere preda della Ninfa, essere colti dalla mania, guardare in questo abisso ci permette di accedere a una dimensione superiore. Ecco, forse il mio libro cerca di capire, di indagare questo Altrove che sperimentiamo nell’ossessione amorosa.

Il mito elenca diverse categorie di Ninfe: ce ne offre una panoramica esemplificativa e ci indica la differenza con le Muse e le Moire?

Ogni Ninfa cambia nome a seconda dello spazio che abita: i boschi di montagna sono popolati dalle Oreadi, che possono vivere dentro gli alberi (come le Driadi o le Amadriadi); le fonti e i corsi d’acqua dolce sono il regno delle Naiadi: nelle sorgenti vivono le Pegee, nelle fontane le Creniadi, nei fiumi le Potameidi, nei laghi le Limniadi. Nelle profondità del mare nuotano le Nereidi; il cielo è popolato dalle Aurae, ninfe della brezza, e dalle Pleiadi. Il discorso amoroso è, pertanto, un movimento attraverso i luoghi delle Ninfe, che sono spesso emanazioni di un potere occulto, anche pieni di insidie, di inganni; ed è un movimento destinato a restare nei dintorni, nei paraggi, senza mai arrivare a destinazione, per così dire. Per quanto riguarda il loro rapporto con le Muse e le Moire, è difficile districarsi nella mitologia: le Muse, secondo le teorie più diffuse, sono considerate ad esempio «Ninfe dei monti», e le stesse fonti iconografiche più antiche che ci restano le rappresentano come Ninfe; così come le Moire, che tessono il filo del fato di ogni uomo e infine lo tagliano segnandone la morte, in effetti potrebbero essere apparentate alle Ninfe. Almeno così sembra suggerirci Omero, nel libro dell’«Odissea» in cui descrive, raccontando l’approdo di Ulisse a Itaca, l’antro delle Ninfe, dove si trovano, misteriosamente, anche dei telai di pietra. Queste Ninfe tessitrici sembrerebbe alludere proprio alle Moire, che decretano la vita e la morte dell’uomo. E del resto, quale fantasma erotico non è anche, allo stesso tempo, una musa ispiratrice (pensiamo alla Marthe di Pierre Bonnard, la modella più dipinta della storia dell’arte) e allo stesso tempo una raffigurazione di Thanatos?

Belle dame sans merci”, la figlia della fata cantata da John Keats nella sua splendida ballata.

La ninfa come una contemporanea incarnazione della femme fatale?

La femme fatale è una delle possibili incarnazioni della Ninfa: ha il suo archetipo primordiale in Lilith, principessa dei succubi, demone femminile di origine mesopotamica portatore di disgrazia, e vede il suo trionfo soprattutto nel Romanticismo e nel Decadentismo, con le figure di Salomè, le donne dannunziane, la Lulu di Wedekind, fino ad arrivare, se vogliamo, alla Lola di Marlene Dietrich ne «L’angelo azzurro», il film di von Sternberg, o alla donna pronta a spezzarti il cuore in due evocata dalla voce roca e profonda di Nico dei Velvet Underground. Anche qui, evidentemente, il fantasma ninfale si apparenta alla Moira, al suo potere di dare la vita e la morte.

Aby Warburg, ninfomane e ninfologo, storico dell’arte ebreo-tedesco ha fatto della Ninfa un’ossessione.

LaPathosformel inseguita da Warburg con il suo atlante di immagini come rivoluzione del concetto stesso di storia dell’arte, adoperando proprio il fermo immagine della Ninfa?

Per tutta la sua vita di studioso, a partire dalle ricerche sui quadri del Ghirlandaio, Aby Warburg è stato ossessionato dalla figura della Ninfa. Un’ossessione che lo ha portato fino alla follia, letteralmente, ma che allo stesso tempo gli ha dato anche la forza di risalire dall’abisso della follia. L’ultimo suo progetto è stato Mnemosyne, un atlante di immagini montate una accanto all’altra su grandi pannelli neri, in cui veniva abolito, appunto, il concetto di «storia dell’arte», sostituito dalle corrispondenze, le metamorfosi, le sopravvivenze delle immagini artistiche nel corso del tempo, anche da epoche lontanissime tra loro. Sono immagini legate da associazioni libere, non da rapporti storici o filosofici, ma da analogie sotterranee che spesso ci sfuggono e che Warburg definisce «psicologia dell’immagine», qualcosa cioè di molto simile all’inconscio freudiano. Ora, in questo progetto a cui lavorerà fino ai suoi ultimi mesi di vita, Warburg torna alla sua antica ossessione, alla Ninfa, alla sua Pathosformel, come la definisce, ovvero un fermo-immagine, una formula di pathos – letteralmente – qualcosa di stereotipico ma carico di energia, che ritorna e si ripete attraverso i secoli, per dare forma alla «vita in movimento», al demoniaco della vita in movimento, ovvero a qualcosa che non potrà mai essere ingabbiato, ma che sempre continuerà a emergere nonostante le rimozioni e i tentativi di neutralizzarlo.

Nympha, come racconta Ovidio di Clizia, può essere vittima di Eros.

L’amore perfetto è quello mistico?

Ninfa è, allo stesso tempo, predatrice e preda. Può far innamorare o innamorarsi. Nel mio libro parlo anche di Teresa d’Avila come una Ninfa di Dio. Dico che il suo amore mistico è perfetto, se amore perfetto può mai darsi, perché la sua estasi erotica, così ben rappresentata dalla scultura di Bernini, le permette di fare esperienza di qualcosa di straordinario: Teresa infatti esplora un godimento sessuale che la esilia da sé stessa, in un perpetuo trasporto verso l’Altro, però l’estasi, in questo caso, non è un’esperienza di trascendenza, ma al contrario di immanenza. Il godimento la fa uscire fuori di sé, per fondersi nell’Altro, confondersi nell’Altro, ma solo perché l’Altro, ovvero Dio, a sua volta si fonda e confonda nel suo corpo.

L’estasi di Teresa ci insegna, così, che non basta il cogito di Cartesio affinché esista l’io; che per «essere» occorre l’incontro con l’altro da sé, e se, come in questo caso, l’altro da sé è la divinità, allora l’infinito può dimorare in noi, attraverso il piacere che procura quell’incontro. Dio per Teresa smette di essere un’entità esterna, irraggiungibile, per diventare una realtà interiore e immanente. Se l’uomo posseduto dalle Ninfe può accedere al divino, ecco che la Ninfa posseduta da Dio scopre, del divino, la dimensione umana.

Giuseppina Capone

Gianpaola Costabile: Donne – Madonne. Memorie al femminile

Gianpaola Costabile è laureata in Lingue e Letterature straniere moderne. Ha pubblicato numerosi volumi tra i quali alcuni legati alla storia di Napoli, alla sua arte ed alla sua grande cultura (Napulera e Un Borbone per amico), altri di narrativa etica (Educare alla legalità. Istruzioni per l’uso, C come camorra, 70 ma non li dimostra) e di saggistica (Com passione). Nel giugno 2018 ha pubblicato Lo zaino della memoria, scritto in collaborazione con Maria Scialò e Daniela Cirillo. L’autrice è, inoltre, membro del comitato editoriale de ‘Il Papavero’ e cura alcune pagine culturali facebook quali quelle della Bibliomediateca «Ethos e Nomos» e della collana «La memoria narrata». Molti suoi racconti sono inseriti in antologie di recente pubblicazione. E’ Autrice di Donne – Madonne. Memorie al femminile.

Dodici ritratti di altrettante donne, un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale. Qual tratto le accomuna?

Le accomuna un comune sentire al femminile, un modo di impostare l’esistenza, di gestire il dolore investendo sulla capacità di affrontare le difficoltà: accogliendole e cercando possibili strategie di risoluzione delle stesse. Con senso di responsabilità e fiducia nella vita.

Maria Neve, Bernarda, Nunzia, Mariarca, Mirella, Consi, Mariangela, Azzurra, Dora, Rosaria, Mariama e Loreta vivono autonomi cammini che le pilotano tutte verso la spiritualità. E’ questa la chiave di lettura del libro?

La spiritualità è il motore del nostro agire. Non si può vivere, a mio avviso, solo di emozioni o di ragionamenti. E’ necessario integrare il nostro sentire ed il nostro pensare con una capacità empatica di interagire con il mondo immanente e trascendente. Non la vedo come una frattura tra diverse modalità di affrontare la vita, ma, anzi, un arricchimento esistenziale nel sapere armonizzare i diversi aspetti della nostra umanità.

Le sue pagine conservano un’impostazione laica, tuttavia il focus attentivo è puntato sulla spiritualità, vettore di un’umanità positiva. Cosa l’ha indotta valicare i confini del pudore che protegge, solitamente, la religiosità individuale?

Questa domanda è molto interessante, perché credo che, oggi, si abbia molto più pudore nell’affrontare questi temi che nel narrare invece scene di sesso: che sicuramente rendono la lettura più intrigante. Ho apprezzato molto Maurizio De Giovanni quando, nella sua bella prefazione al libro, ha sottolineato tale impostazione, definendola ‘coraggiosa’. Ma, come nelle precedenti produzioni, a me interessa scrivere in maniera coerente col mio modo di essere e di pensare. E, per dirla tutta, non credo tanto nella definizione di religiosità individuale: è un po’ come dire in un rapporto di coppia: “Ti amo, ma a modo mio”. Sinceramente credo che ci voglia una grande dose di onestà intellettuale per scindere quanto di egoistico esista nel relativismo che caratterizza molte nostre affermazioni ricorrenti.

Può definire il “trascendente” nell’accezione in cui le protagoniste della sua narrazione l’intendono?

“Trascendente” è il guardare in alto, al di là dell’orizzonte. E’ il non sentirsi soli sulla Terra, ma desiderati ed amati in ogni attimo della giornata. E’ il conoscere e vivere un codice di norme etiche e morali che presuppongono, però, un (se vogliamo) innaturale amore per il prossimo, specie per quello di cui faresti volentieri a meno nella tua vita.

Ogni storia è preceduta da un richiamo che annuncia al lettore il vissuto della protagonista mentre, al termine di ciascun racconto, vengono offerti testi poetici o brani di canzoni coerenti con gli argomenti dissertati. Può donarci un’esemplificazione?

In realtà ogni racconto si ispira ad una figura riferibile alla devozione mariana, che ho scoperto essere molto più attiva e sviluppata di quanto non immaginassi. Ma le Madonne che propongo, a loro volta, esprimono aspetti della vita che io ho come tematizzato, introducendoli con citazioni di artisti famosi e facendoli concludere con una breve antologia di brani ad hoc. Per questo trovo molto appropriata la definizione per ‘Donne-Madonne’ di caleidoscopio di universi femminili.

Giuseppina Capone

Salvatore Ferragamo: il rivoluzionario della calzatura italiana

Salvatore Ferragamo nacque a Bonito (provincia di Avellino vicino la città di Napoli) nel giugno 1898. Undicesimo di ben quattordici figli, conduceva una modesta quanto serena vita assieme ai suoi fratelli e i suoi genitori ma nonostante ciò, purtroppo, le loro condizioni economiche non diedero l’opportunità di far studiare lui e i suoi fratelli tranne che per il primogenito e, in ogni modo, in seguito a  grandi sacrifici da parte dei genitori.

Salvatore non si allontanò dal suo paese a differenza di altri emigranti di quel periodo e all’età di undici anni aveva lavorato per un anno a Torre del Greco presso un calzolaio e una volta compiuti dodici anni possedeva già una bottega di calzolaio tutta sua (acquistata grazie all’aiuto economico dei suoi fratelli maggiori), dove produceva scarpe su misura per le persone del posto. Nel 1912 all’età di quattordici anni decise di partire per gli Stati Uniti per raggiungere uno dei suoi fratelli a Boston e per perfezionare le sue capacità di designer e per trovare fortuna.

Una volta che si fu ambientato in America trovò lavoro in un negozio di scarpe a Los Angeles che forniva calzature per attori e cast dei film che si giravano ad Hollywood. Un giorno il regista protestò per la qualità di alcuni stivali  e Salvatore si offrì di confezionarli da solo. Il regista accettò e ne rimase soddisfatto ed entusiasta del risultato. Da lì a poco il numero di clienti fedeli a  Ferragamo crebbe velocemente: stelle del cinema da Anna Magnani, Sofia Loren a Marylin Monroe si rivolgevano a lui per i modelli unici e innovativi che Salvatore riusciva a realizzare. Il genio della calzatura italiana si affidava alla modernità della scarpa di quel momento e allo stesso tempo voleva unirla al concetto di qualità, ed è per questo motivo che successivamente si trasferì proprio ad Hollywood dove aprì l’Hollywood Boot Shop guadagnandosi il nome di “Calzolaio delle stelle”.

 “Ricordo di non essermi sentito ne triste ne pieno di nostalgia, un giorno sarei tornato ricco e famoso e avrei mostrato all’Italia come si dovevano fare le scarpe.”

Nel 1927 tornò in Italia dove aprì a Firenze il suo primo laboratorio dove realizzava scarpe da donna destinate, per i primi tempi, solo al mercato americano. In breve tempo diede vita alla sua prima azienda “Salvatore Ferragamo” e nel 1930 il pittore futurista Lucio Venna creò la prima etichetta e il primo manifesto pubblicitario Ferragamo. Ma la ditta dichiarò bancarotta nel 1933 a causa della inadeguata gestione amministrativa e della crisi mondiale. Ma, grazie alla sua geniale inventiva e creatività, per Salvatore ci fu ugualmente una rinascita: Palazzo Spini Feroni, negli Anni ‘50 (dove dal 1938 aveva creato la sua sede) era ormai meta di dive del cinema, delle famiglie reali e del jetset internazionale. Le giovani dive si recavano da Ferragamo per ordinare calzature che consideravano impeccabili per il designer, per la qualità e per l’inventiva.

Le calzature di Ferragamo sono state considerate vere e proprie opere d’arte: i suoi disegni spaziano da creazioni più bizzarre a linee di eleganza più tradizionale tanto da essere fonte di ispirazione anche per altri designer di calzatura del suo tempo. Una delle sue creazioni più famose fu negli Anni ‘30: la zeppa in sughero. Una vera e propria innovazione. Ferragamo realizzò la sua idea della zeppa in sughero durante il periodo del Fascismo quando la politica autarchica del regime era mirata sulla produzione interna consolidando in questo modo la moda italiana del tempo.

Salvatore Ferragamo muore nel 1960, ma la fama del suo marchio non è mai passata di moda grazie alla guida di sua moglie Wanda e dei loro sei figli Leonardo, Massimo, Giovanna, Fiamma, Ferruccio e Fulvia, che hanno portato avanti, sino ad oggi, il marchio Ferragamo.

Alessandra Federico

 

 

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