I sentieri delle Ninfe nei dintorni del discorso amoroso

Fabrizio Coscia è nato a Napoli, dove vive e insegna. È critico letterario e teatrale, collabora al quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo «Notte abissina» (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi «Soli eravamo e altre storie» (ad est dell’equatore, 2015, tradotta in tedesco), «La bellezza che resta» (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017), «Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon» (Sillabe, 2018), «I sentieri delle Ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso (Exòrma, 2019), «Lo scrivano di Nietzsche» (Mattioli 1885)

Alcuni testi tratti da «Soli eravamo» sono stati tradotti in inglese e pubblicati su riviste letterarie internazionali.

Omero con Calipso come HH, Humbert Humbert, il protagonista di Lolita, colti dalla mania della ‘ninfetta’.

Chi è la “ninfa”?

La Ninfa, secondo la mitologia, è una creatura mortale di origine divina, nata dalla spuma di sangue e sperma caduta in mare dalla castrazione di Urano. Ma è una creatura che, dai tempi dell’antica Grecia, continua a sedurci, a parlare alla nostra modernità attraverso le immagini, magari nascosta dietro l’icona di Bettie Page, la pin-up vestita solo di lunghi guanti di pelle nera, con un frustino in mano, sguardo dritto all’obiettivo, immortalata dagli scatti di Irving Klaw; oppure incarnata nell’eterna Marilyn Monroe, con la gonna del vestito bianco sollevata dal getto d’aria che esce dalla grata della metropolitana di Lexington Avenue. O la possiamo sorprendere nelle anonime modelle seminude delle pubblicità degli intimi e dei profumi sui muri della città o sugli edifici in ristrutturazione; o forse appena allusa in qualche immagine postata su Instagram, in qualche foto-profilo su Facebook, nei selfie ammiccanti che lasciano però solo un fugace segno nel mare della Rete, dove l’aura dell’incanto si perde, svapora nel trionfo di un effimero ripetibile all’infinito. È in ognuna di queste immagini che si possono seguire le deboli tracce della sua sopravvivenza. La ninfa moderna è solo il fantasma di ciò che un tempo è stata quella creatura mortale di origine divina, ma resta il fatto che essa è ancora viva, in quanto fantasma erotico, ed ecco perché, come tale, è pura immagine e parla attraverso le immagini, ma è un’apparizione che però rimanda immediatamente alla sua assenza, alla sua mancanza. Per questo le Ninfe sono «esseri di fuga», come l’Albertine di Proust, o la stessa Lolita di Nabokov, creature inafferrabili, che ci sono e allo stesso tempo non ci sono, rivelando dunque l’impossibilità del possesso nella relazione d’amore, e perfino il carattere intransitivo dell’amore stesso. Ci si innamora di un’immagine che nasconde un abisso. Per Platone però cadere preda della Ninfa, essere colti dalla mania, guardare in questo abisso ci permette di accedere a una dimensione superiore. Ecco, forse il mio libro cerca di capire, di indagare questo Altrove che sperimentiamo nell’ossessione amorosa.

Il mito elenca diverse categorie di Ninfe: ce ne offre una panoramica esemplificativa e ci indica la differenza con le Muse e le Moire?

Ogni Ninfa cambia nome a seconda dello spazio che abita: i boschi di montagna sono popolati dalle Oreadi, che possono vivere dentro gli alberi (come le Driadi o le Amadriadi); le fonti e i corsi d’acqua dolce sono il regno delle Naiadi: nelle sorgenti vivono le Pegee, nelle fontane le Creniadi, nei fiumi le Potameidi, nei laghi le Limniadi. Nelle profondità del mare nuotano le Nereidi; il cielo è popolato dalle Aurae, ninfe della brezza, e dalle Pleiadi. Il discorso amoroso è, pertanto, un movimento attraverso i luoghi delle Ninfe, che sono spesso emanazioni di un potere occulto, anche pieni di insidie, di inganni; ed è un movimento destinato a restare nei dintorni, nei paraggi, senza mai arrivare a destinazione, per così dire. Per quanto riguarda il loro rapporto con le Muse e le Moire, è difficile districarsi nella mitologia: le Muse, secondo le teorie più diffuse, sono considerate ad esempio «Ninfe dei monti», e le stesse fonti iconografiche più antiche che ci restano le rappresentano come Ninfe; così come le Moire, che tessono il filo del fato di ogni uomo e infine lo tagliano segnandone la morte, in effetti potrebbero essere apparentate alle Ninfe. Almeno così sembra suggerirci Omero, nel libro dell’«Odissea» in cui descrive, raccontando l’approdo di Ulisse a Itaca, l’antro delle Ninfe, dove si trovano, misteriosamente, anche dei telai di pietra. Queste Ninfe tessitrici sembrerebbe alludere proprio alle Moire, che decretano la vita e la morte dell’uomo. E del resto, quale fantasma erotico non è anche, allo stesso tempo, una musa ispiratrice (pensiamo alla Marthe di Pierre Bonnard, la modella più dipinta della storia dell’arte) e allo stesso tempo una raffigurazione di Thanatos?

Belle dame sans merci”, la figlia della fata cantata da John Keats nella sua splendida ballata.

La ninfa come una contemporanea incarnazione della femme fatale?

La femme fatale è una delle possibili incarnazioni della Ninfa: ha il suo archetipo primordiale in Lilith, principessa dei succubi, demone femminile di origine mesopotamica portatore di disgrazia, e vede il suo trionfo soprattutto nel Romanticismo e nel Decadentismo, con le figure di Salomè, le donne dannunziane, la Lulu di Wedekind, fino ad arrivare, se vogliamo, alla Lola di Marlene Dietrich ne «L’angelo azzurro», il film di von Sternberg, o alla donna pronta a spezzarti il cuore in due evocata dalla voce roca e profonda di Nico dei Velvet Underground. Anche qui, evidentemente, il fantasma ninfale si apparenta alla Moira, al suo potere di dare la vita e la morte.

Aby Warburg, ninfomane e ninfologo, storico dell’arte ebreo-tedesco ha fatto della Ninfa un’ossessione.

LaPathosformel inseguita da Warburg con il suo atlante di immagini come rivoluzione del concetto stesso di storia dell’arte, adoperando proprio il fermo immagine della Ninfa?

Per tutta la sua vita di studioso, a partire dalle ricerche sui quadri del Ghirlandaio, Aby Warburg è stato ossessionato dalla figura della Ninfa. Un’ossessione che lo ha portato fino alla follia, letteralmente, ma che allo stesso tempo gli ha dato anche la forza di risalire dall’abisso della follia. L’ultimo suo progetto è stato Mnemosyne, un atlante di immagini montate una accanto all’altra su grandi pannelli neri, in cui veniva abolito, appunto, il concetto di «storia dell’arte», sostituito dalle corrispondenze, le metamorfosi, le sopravvivenze delle immagini artistiche nel corso del tempo, anche da epoche lontanissime tra loro. Sono immagini legate da associazioni libere, non da rapporti storici o filosofici, ma da analogie sotterranee che spesso ci sfuggono e che Warburg definisce «psicologia dell’immagine», qualcosa cioè di molto simile all’inconscio freudiano. Ora, in questo progetto a cui lavorerà fino ai suoi ultimi mesi di vita, Warburg torna alla sua antica ossessione, alla Ninfa, alla sua Pathosformel, come la definisce, ovvero un fermo-immagine, una formula di pathos – letteralmente – qualcosa di stereotipico ma carico di energia, che ritorna e si ripete attraverso i secoli, per dare forma alla «vita in movimento», al demoniaco della vita in movimento, ovvero a qualcosa che non potrà mai essere ingabbiato, ma che sempre continuerà a emergere nonostante le rimozioni e i tentativi di neutralizzarlo.

Nympha, come racconta Ovidio di Clizia, può essere vittima di Eros.

L’amore perfetto è quello mistico?

Ninfa è, allo stesso tempo, predatrice e preda. Può far innamorare o innamorarsi. Nel mio libro parlo anche di Teresa d’Avila come una Ninfa di Dio. Dico che il suo amore mistico è perfetto, se amore perfetto può mai darsi, perché la sua estasi erotica, così ben rappresentata dalla scultura di Bernini, le permette di fare esperienza di qualcosa di straordinario: Teresa infatti esplora un godimento sessuale che la esilia da sé stessa, in un perpetuo trasporto verso l’Altro, però l’estasi, in questo caso, non è un’esperienza di trascendenza, ma al contrario di immanenza. Il godimento la fa uscire fuori di sé, per fondersi nell’Altro, confondersi nell’Altro, ma solo perché l’Altro, ovvero Dio, a sua volta si fonda e confonda nel suo corpo.

L’estasi di Teresa ci insegna, così, che non basta il cogito di Cartesio affinché esista l’io; che per «essere» occorre l’incontro con l’altro da sé, e se, come in questo caso, l’altro da sé è la divinità, allora l’infinito può dimorare in noi, attraverso il piacere che procura quell’incontro. Dio per Teresa smette di essere un’entità esterna, irraggiungibile, per diventare una realtà interiore e immanente. Se l’uomo posseduto dalle Ninfe può accedere al divino, ecco che la Ninfa posseduta da Dio scopre, del divino, la dimensione umana.

Giuseppina Capone

Gianpaola Costabile: Donne – Madonne. Memorie al femminile

Gianpaola Costabile è laureata in Lingue e Letterature straniere moderne. Ha pubblicato numerosi volumi tra i quali alcuni legati alla storia di Napoli, alla sua arte ed alla sua grande cultura (Napulera e Un Borbone per amico), altri di narrativa etica (Educare alla legalità. Istruzioni per l’uso, C come camorra, 70 ma non li dimostra) e di saggistica (Com passione). Nel giugno 2018 ha pubblicato Lo zaino della memoria, scritto in collaborazione con Maria Scialò e Daniela Cirillo. L’autrice è, inoltre, membro del comitato editoriale de ‘Il Papavero’ e cura alcune pagine culturali facebook quali quelle della Bibliomediateca «Ethos e Nomos» e della collana «La memoria narrata». Molti suoi racconti sono inseriti in antologie di recente pubblicazione. E’ Autrice di Donne – Madonne. Memorie al femminile.

Dodici ritratti di altrettante donne, un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale. Qual tratto le accomuna?

Le accomuna un comune sentire al femminile, un modo di impostare l’esistenza, di gestire il dolore investendo sulla capacità di affrontare le difficoltà: accogliendole e cercando possibili strategie di risoluzione delle stesse. Con senso di responsabilità e fiducia nella vita.

Maria Neve, Bernarda, Nunzia, Mariarca, Mirella, Consi, Mariangela, Azzurra, Dora, Rosaria, Mariama e Loreta vivono autonomi cammini che le pilotano tutte verso la spiritualità. E’ questa la chiave di lettura del libro?

La spiritualità è il motore del nostro agire. Non si può vivere, a mio avviso, solo di emozioni o di ragionamenti. E’ necessario integrare il nostro sentire ed il nostro pensare con una capacità empatica di interagire con il mondo immanente e trascendente. Non la vedo come una frattura tra diverse modalità di affrontare la vita, ma, anzi, un arricchimento esistenziale nel sapere armonizzare i diversi aspetti della nostra umanità.

Le sue pagine conservano un’impostazione laica, tuttavia il focus attentivo è puntato sulla spiritualità, vettore di un’umanità positiva. Cosa l’ha indotta valicare i confini del pudore che protegge, solitamente, la religiosità individuale?

Questa domanda è molto interessante, perché credo che, oggi, si abbia molto più pudore nell’affrontare questi temi che nel narrare invece scene di sesso: che sicuramente rendono la lettura più intrigante. Ho apprezzato molto Maurizio De Giovanni quando, nella sua bella prefazione al libro, ha sottolineato tale impostazione, definendola ‘coraggiosa’. Ma, come nelle precedenti produzioni, a me interessa scrivere in maniera coerente col mio modo di essere e di pensare. E, per dirla tutta, non credo tanto nella definizione di religiosità individuale: è un po’ come dire in un rapporto di coppia: “Ti amo, ma a modo mio”. Sinceramente credo che ci voglia una grande dose di onestà intellettuale per scindere quanto di egoistico esista nel relativismo che caratterizza molte nostre affermazioni ricorrenti.

Può definire il “trascendente” nell’accezione in cui le protagoniste della sua narrazione l’intendono?

“Trascendente” è il guardare in alto, al di là dell’orizzonte. E’ il non sentirsi soli sulla Terra, ma desiderati ed amati in ogni attimo della giornata. E’ il conoscere e vivere un codice di norme etiche e morali che presuppongono, però, un (se vogliamo) innaturale amore per il prossimo, specie per quello di cui faresti volentieri a meno nella tua vita.

Ogni storia è preceduta da un richiamo che annuncia al lettore il vissuto della protagonista mentre, al termine di ciascun racconto, vengono offerti testi poetici o brani di canzoni coerenti con gli argomenti dissertati. Può donarci un’esemplificazione?

In realtà ogni racconto si ispira ad una figura riferibile alla devozione mariana, che ho scoperto essere molto più attiva e sviluppata di quanto non immaginassi. Ma le Madonne che propongo, a loro volta, esprimono aspetti della vita che io ho come tematizzato, introducendoli con citazioni di artisti famosi e facendoli concludere con una breve antologia di brani ad hoc. Per questo trovo molto appropriata la definizione per ‘Donne-Madonne’ di caleidoscopio di universi femminili.

Giuseppina Capone

Salvatore Ferragamo: il rivoluzionario della calzatura italiana

Salvatore Ferragamo nacque a Bonito (provincia di Avellino vicino la città di Napoli) nel giugno 1898. Undicesimo di ben quattordici figli, conduceva una modesta quanto serena vita assieme ai suoi fratelli e i suoi genitori ma nonostante ciò, purtroppo, le loro condizioni economiche non diedero l’opportunità di far studiare lui e i suoi fratelli tranne che per il primogenito e, in ogni modo, in seguito a  grandi sacrifici da parte dei genitori.

Salvatore non si allontanò dal suo paese a differenza di altri emigranti di quel periodo e all’età di undici anni aveva lavorato per un anno a Torre del Greco presso un calzolaio e una volta compiuti dodici anni possedeva già una bottega di calzolaio tutta sua (acquistata grazie all’aiuto economico dei suoi fratelli maggiori), dove produceva scarpe su misura per le persone del posto. Nel 1912 all’età di quattordici anni decise di partire per gli Stati Uniti per raggiungere uno dei suoi fratelli a Boston e per perfezionare le sue capacità di designer e per trovare fortuna.

Una volta che si fu ambientato in America trovò lavoro in un negozio di scarpe a Los Angeles che forniva calzature per attori e cast dei film che si giravano ad Hollywood. Un giorno il regista protestò per la qualità di alcuni stivali  e Salvatore si offrì di confezionarli da solo. Il regista accettò e ne rimase soddisfatto ed entusiasta del risultato. Da lì a poco il numero di clienti fedeli a  Ferragamo crebbe velocemente: stelle del cinema da Anna Magnani, Sofia Loren a Marylin Monroe si rivolgevano a lui per i modelli unici e innovativi che Salvatore riusciva a realizzare. Il genio della calzatura italiana si affidava alla modernità della scarpa di quel momento e allo stesso tempo voleva unirla al concetto di qualità, ed è per questo motivo che successivamente si trasferì proprio ad Hollywood dove aprì l’Hollywood Boot Shop guadagnandosi il nome di “Calzolaio delle stelle”.

 “Ricordo di non essermi sentito ne triste ne pieno di nostalgia, un giorno sarei tornato ricco e famoso e avrei mostrato all’Italia come si dovevano fare le scarpe.”

Nel 1927 tornò in Italia dove aprì a Firenze il suo primo laboratorio dove realizzava scarpe da donna destinate, per i primi tempi, solo al mercato americano. In breve tempo diede vita alla sua prima azienda “Salvatore Ferragamo” e nel 1930 il pittore futurista Lucio Venna creò la prima etichetta e il primo manifesto pubblicitario Ferragamo. Ma la ditta dichiarò bancarotta nel 1933 a causa della inadeguata gestione amministrativa e della crisi mondiale. Ma, grazie alla sua geniale inventiva e creatività, per Salvatore ci fu ugualmente una rinascita: Palazzo Spini Feroni, negli Anni ‘50 (dove dal 1938 aveva creato la sua sede) era ormai meta di dive del cinema, delle famiglie reali e del jetset internazionale. Le giovani dive si recavano da Ferragamo per ordinare calzature che consideravano impeccabili per il designer, per la qualità e per l’inventiva.

Le calzature di Ferragamo sono state considerate vere e proprie opere d’arte: i suoi disegni spaziano da creazioni più bizzarre a linee di eleganza più tradizionale tanto da essere fonte di ispirazione anche per altri designer di calzatura del suo tempo. Una delle sue creazioni più famose fu negli Anni ‘30: la zeppa in sughero. Una vera e propria innovazione. Ferragamo realizzò la sua idea della zeppa in sughero durante il periodo del Fascismo quando la politica autarchica del regime era mirata sulla produzione interna consolidando in questo modo la moda italiana del tempo.

Salvatore Ferragamo muore nel 1960, ma la fama del suo marchio non è mai passata di moda grazie alla guida di sua moglie Wanda e dei loro sei figli Leonardo, Massimo, Giovanna, Fiamma, Ferruccio e Fulvia, che hanno portato avanti, sino ad oggi, il marchio Ferragamo.

Alessandra Federico

 

 

Omofobia e il coraggio di chi lotta: intervista a chi combatte ogni giorno per i suoi diritti

Quando si ha a che fare con le emozioni e con l’amore, nulla è sbagliato. L’omosessualità non è una malattia. È ora che le persone, tutte le persone, inizino a sentirsi libere di amare ed essere amate. A volte, però, incontrano nel corso della loro vita chi le fa sentire diverse, trovando difficoltà nell’accettarsi e nel dichiararsi apertamente gay. La vera battaglia inizia nel momento in cui decidono di raccontarlo ai propri genitori, con la speranza di essere accettati perché è lì che cercheranno rifugio. Infine, oltre le mura di casa, dove la loro vita diventa davvero difficile, dove sono costretti a lottare contro chi ancora crede che nell’amore ci siano regole da seguire, e dove c’è ancora la concezione che, se sei gay, sei diverso.

Seguire la massa

Parole razziste, provocazioni, veri e propri atti di bullismo sono costretti a subire da chi ancora vive con questi pregiudizi. Le parole delle persone omofobe sono una coltellata nel cuore di chi ama le persone dello stesso sesso. Ma cos’è che ci fa avere più paura a manifestare chi siamo davvero? Questa società ci impone di essere chi realmente non siamo, ci fa crescere con l’angoscia di non riuscire a essere come gli altri e di rimanere soli. Questo porta la maggior parte delle persone a vivere e comportarsi fingendo di essere chi non si è realmente, indossando una maschera per compiacere il prossimo. La paura di essere criticati o ancora peggio derisi, fa si che le persone, soprattutto nell’età adolescenziale, arrivino ad adeguarsi alla massa per essere stimati. Tale comportamento porta gravi conseguenze: difficoltà a relazionarsi, continua mancanza di fiducia in se stessi e nel prossimo, a volte aggressività o peggio ancora suicidio. Ma chi ha deciso che solo l’eterosessualità è naturale?

“Sono gay e non è stato facile per me farmi accettare. Ho attraversato un periodo difficile nella mia vita: oggi, però, grazie alla mia famiglia, riesco ad affrontare ogni pregiudizio”.

Queste sono le parole di Mauro, napoletano di 45 anni che racconta la sua storia e come ha lottato per sopportare la meschinità di chi ancora non accetta questa realtà.

Mauro, quanti anni avevi quando ti sei dichiarato?

Avevo 19 anni, precedentemente avevo avuto una sola fidanzata. Era molto bella: bionda con gli occhi verdi. Stavamo bene insieme ma nel momento in cui trascorrevo troppo tempo con lei, iniziavo a diventare insofferente. Credo di essere stato con lei solo per mascherare la mia vera natura, perché l’ho sempre saputo di provare attrazione verso il mio stesso sesso, ma avevo difficoltà ad accettarmi e ad accettare il fatto di essere ‘diverso’, perché è così che ti fanno sentire in questo mondo pieno di malignità e pregiudizi. Facevo dunque fatica a essere me stesso, a volte anche con chi poteva capirmi e starmi accanto. Temevo il loro giudizio, bastava uno sguardo per farmi iniziare ad avere paranoie e credere che mi stessero prendendo in giro. Avevo otto anni quando m’innamorai del mio compagno di banco, Massimiliano, ma questo l’ho sempre tenuto per me.

Qual è stata la prima persona con la quale ti sei sentito libero di parlare?

La prima persona con la quale mi sono apertamente dichiarato gay è stata proprio la mia prima e unica fidanzata, Giorgia. La sua reazione fece commuovere anche me. “Ti voglio bene, sono felice per te”, mi disse tra le lacrime. Mi ha sempre capito e per questo motivo ho sempre voluto che rimanessimo amici. La seconda persona a cui avrei voluto dirlo era mia madre, ma l’avevo persa da circa un anno. Mi accontentai di parlare alla sua foto. Io sapevo che lei c’era, mi bastava alzare lo sguardo e guardare le stelle per sentirla accanto. Era la stella che brillava di più. Decisi di confidare a mio padre questo mio piccolo segreto, gli parlai apertamente, senza peli sulla lingua. Sapevo mi avrebbe capito, così non passò molto tempo e ne parlai alle mie tre sorelle e i miei due fratelli. Il rapporto con la mia famiglia è da sempre stato speciale per me, ho sempre trovato conforto, il mio rifugio. Fuori di casa, però, la mia vita non era facile: subivo atti di bullismo, critiche e parole razziste.

Come hai affrontato queste situazioni?

La maggior parte delle volte li aggredivo per difendermi, ma si finiva sempre per scatenare una rissa. Tornavo a casa con un occhio gonfio o un labbro sanguinante almeno due volte a settimana. La mia famiglia mi ha aiutato, mi è stata vicino, mi ha fatto capire che non è importante ciò che pensano queste persone perché non è fondamentale avere il rispetto di gente come loro nella mia vita. Iniziai ad acquisire un altro metodo: l’indifferenza. Sorridevo quando mi prendevano in giro. Purtroppo in Italia c’è ancora troppa ignoranza e per evitare di soffrire ancora, decisi di andare a vivere a Londra per diversi anni. Adesso vivo in Italia da almeno dieci anni.

Adesso che sei tornato in Italia, vivi le stesse esperienze o le cose ti sembrano essere cambiate? Posso dire che sicuramente le cose oggi sono cambiate perché le persone hanno la mentalità più aperta ed è un po’ più difficile che io possa avere a che fare con un omofobo, anche se non ti nascondo che proprio ultimamente ho avuto un’esperienza poco piacevole con un mio collega che ha utilizzato parole offensive sul mio conto riguardo al mio orientamento sessuale. Posso dire che rispetto agli anni ’90, oggi riesco a rapportarmi quasi con tutti in Italia, anche se tornerei volentieri a Londra, dove sei libero da ogni pregiudizio.

E cosa ci dici sull’amore?

Sono stato fidanzato diverse volte, ora vivo una relazione a distanza con Andrea, napoletano come me, che vive a Bologna dove lavora come cuoco in una cucina di un ristorante. Stiamo insieme da circa due anni, ma non posso negare che la lontananza è dura per cui presto prenderemo la decisione di avvicinarci. Prima di stare con lui ho avuto altre storie d’amore ma spesso mi ritrovavo ad avere a che fare anche con uomini sposati con donne, quelli che hanno paura di dichiararsi omosessuali, quelli che temono il giudizio altrui, perché in questo mondo non è facile essere se stessi. Insomma, il mio di mondo non è semplice da vivere, ci sono tanti ostacoli da superare, lotte continue per avere gli stessi diritti degli etero e situazioni particolari da affrontare quasi tutti i giorni. Per quanto l’omosessualità possa essere stata accettata, viviamo ancora in un paese dove, per essere accettati, dobbiamo essere tutti uguali.

Secondo te quindi l’emancipazione è un’ipocrisia?

Non del tutto. Di certo non posso dire che dagli anni ’70 ad oggi sia tutto uguale o che sia tutta una finzione quella di accettare i cambiamenti. Ma posso dire che si respira ancora tanta ignoranza nella folla di questo Paese. La maggior parte degli uomini, oggi, sono ancora maschilisti, c’è ancora il cosiddetto ‘padre padrone’, quelli che tendono a manovrare la donna, tanto per dirne una. Inoltre, penso anche che la maggior parte delle persone fingano di accettare ‘quelli come me’.

Questa cosa come ti fa sentire?

È un qualcosa che ho imparato ad accettare nel corso degli anni e con l’esperienza, ci ho fatto l’abitudine. Ci sono persone poco sensibili e quelle le incontrerai sempre, quindi ho deciso di affrontare questa situazione con serenità, essendo sempre me stesso anche se non accettato da tutti. O meglio, non essendo accettato sul serio.

Che consiglio ti sentiresti di dare a chi ancora non si è dichiarato?

Penso che ognuno abbia i propri tempi, ma la cosa fondamentale è che non bisogna avere paura del giudizio altrui. Quindi se non ci si sente di farlo per il solo terrore di essere presi in giro, non è un buon motivo. Non c’è cosa più bella di essere se stessi. Se i diritti ottenuti dalle donne negli anni ’70 rappresentano un esempio di emancipazione della società, l’accettazione dei gay sarebbe un ulteriore passo avanti. Necessario per capire che nel mondo siamo tutti uguali.

Alessandra Federico

 

L’amore (im)perfetto

Pietro Falconetti, imprenditore, laureato in Filosofia e un master in Digital Reputation, è autore di “L’amore (im)perfetto.

Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, non si sceglie d’amare né d’essere amati?

Si viene scelti dall’amore e quando questo evento accade, spetta a Noi decidere la mossa successiva. Elena di Omero ha scelto Paride, ha scelto l’amore del momento alle regole scaturite da un amore già consumato, logorato da abitudini consolidate. Ha avuto coraggio. Elena, il personaggio del mio romanzo cerca con tutte le forze di restare ancorata al suo matrimonio senza voler annullare l’amore nato tra lei e Alessandro. Non vuole scatenare una “seconda guerra di Troia”. Fortunatamente per me, nel romanzo “L’amore (im)perfetto” non ci riesce, non mi vedrei nei panni di Omero.

L’amore, soventemente, appare fugace, ingannevole, temporaneo e deludente per i protagonisti dei suoi racconti. Ritiene che siffatto sentimento non possa assumere carattere salvifico?

L’amore è salvifico. Ci fa toccare il cielo con un dito e precipitare negli inferi quasi contemporaneamente. Ed è quest’oscillazione quasi impercettibile tra la somma felicità e l’oblio più recondito che salva l’essere umano dalle abitudini quotidiane. Non è possibile prescindere dall’amore. Dobbiamo accettarlo in tutte le sue sfumature, cercando di “scendere” quando ci porta molto su e di risalire quando tocchiamo il fondo. Amare è relazionarsi con l’altro, con il diverso. Questa è la sfida che ognuno di noi deve accettare e condividere.

Ci spiega l’esigenza di dedicarsi alla narrazione di breve respiro?

Nessuna esigenza in particolare. Piuttosto direi un desiderio di poter dare forma a dei pensieri, a delle idee. Esporre un concetto è molto rischioso. Passare dall’intangibile al tangibile è una strada tutta in salita, impervia e piena di curve. Si potrebbero perdere dei pezzi fondamentali di ciò che si vuole narrare, ma la smania di provarci è sempre in agguato e quando si desidera ardentemente, il desiderio va assecondato e realizzato, col rischio di schiantarsi contro di un muro.

Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Quale idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Abbiamo creato un mondo iperconnesso, perennemente collegato e l’assurdità è che vengono sempre meno le relazioni fisiche tra esseri umani. Ognuno di Noi è un soggetto, un individuo che ha necessità di relazionarsi, anche solo con se stesso. Qui nasce il problema: una relazione è sempre uno scontro con il diverso, con l’altro, in cui i sentimenti, le emozioni, tutto quello che non è fisico diventa predominante per far si che lo scontro diventi incontro. Ne “L’amore (im)perfetto” ho cercato di far emergere il momento topico delle relazioni: l’incontro.

I protagonisti della sua narrazione esistono in quadri della quotidianità che si scopre sotto i loro occhi mediante circostanze comuni che divengono le porte per una sensibilità, a volte, al limite della sopportazione. Perché ha deciso nei suoi racconti d’esplorare il banale, reale, vero quotidiano anziché l’esuberante straordinario?

Perché proprio la “Banale” realtà quotidiana che ad un certo punto di una relazione diventa lo “Straordinario”. L’intervento straordinario che ci troviamo ad affrontare consiste nel rivitalizzare qualsiasi momento già vissuto. Tutto ciò che è abitudine deve essere reinterpretato, reinventato, rivisitato e riadattato. Ed è per questo che ci si deve impegnare ad essere libri e lettori della propria vita e di quella altrui. Mai stancarsi di leggere e farsi leggere.

Giuseppina Capone

Charles Frederick Worth: il primo couturier a diventare  designer

Charles Frederick Worth è stato il primo a trasformare la figura del sarto in quella del designer quando, nel 1800, il popolo vestiva secondo le regole che imponeva la corte e seguendo il gusto della regina. Esistevano solo couturier fino a quando Charles Frederick Worth ha dato vita a quella che oggi chiamiamo storia della moda.

La moda è stata, a partire dal medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità. Dimostra, con il modo di apparire, la saldezza del principio originario da cui discende il patto su cui si fonda un’intera civiltà mettendo in evidenza i segni della ricchezza e del potere. Ma fra il XIII e il XIV, nell’Europa occidentale, questa fissità tradizionale, è stata sostituita dalla regola della trasformazione e della modernità. Da lì in avanti l’abito non avrebbe rappresentato più il ruolo sociale di una persona secondo regole rigide ma soggette al gusto e all’inventiva di coloro a cui veniva riconosciuta la capacità di far avverare e mettere in pratica questa nuove creazioni.

La storia del  primo creatore di moda

Charles Frederick Worth nasce in Inghilterra nel 1825. Figlio di famiglia borghese inizia, sin da bambino, a lavorare in una ditta di tessuti londinesi. Nel 1845 si reca  a Parigi dove svolge il suo primo lavoro da commesso a La ville Paris.  Da li a poco si occupa del reparto di scialli e mantelli svolgendo il ruolo di assistente alle vendite de Gagelin.

“La mia inventiva è il segreto del mio successo”. Charles mette in atto per la prima volta il suo innovativo metodo di presentazione dei capi: Marie Augustine Vertnet (commessa presso Gagelin) diventa la sua prima modella in carne e ossa e da li a poco anche sua moglie. In poco tempo, le signore dell’alta società, vengono attratte da quei meravigliosi e innovativi abiti di creolina realizzati da Worth per Marie. Non solo, questi meravigliosi abiti danno il via ad una vera e propria rivoluzione della moda. In questi anni le nouve autés confectionnes fanno la prima comparsa nei reparti del magazzino. Nel 1851 a Londra la maison Gagelin era l’unica ditta mondiale a presentare una produzione di capi pronti all’esposizione universale. Non si può di certo dire che le persone non trovassero alcuna fatica nell’accettare il cambiamento e le novità proposte da Worth poiché implicavano la rottura delle vecchie abitudini dell’abbigliamento.

La carriera di Worth era ormai rapida e in ascesa: nel 1853 entra in società con il nuovo proprietario di Gagelin, Octave – Opime – Gagelin, ma nel 1858 il sodalizio si scioglie. Nell’aprile 1858 Worth entra in società con otto Bergh e nel 1860 la Worth et Bobergh viene definita come “couturirse e nouveates confectionnes” (cucito e nuove creazioni). Questa maison vende stoffe e propone abiti creati da Worth confezionati su misura dove però le persone potevano scegliere le sue varie proposte ma non avere una propria invenzione. Nasce cosi l’haute couture. Anche coloro che vestivano secondo lo stile dell’imperatrice iniziavano a rivolgersi a Worth. Nel corso degli anni 1850 per la realizzazione dell’abito femminile erano necessari lunghi metraggi di stoffa, anche per creare abiti con la creolina raddoppiando dunque le proporzioni di stoffa. Il modello che lo porta al successo è un abito da sera la cui gonna è ricoperta da tulle di seta. Però per far sì che il nome Worth diventasse sinonimo di moda, l’ingegnoso stilista conquistò l’imperatrice e le sue dame. Nel 1860 la moglie dell’ambasciatore austriaco, la principessa Pauline Von Metternich, convoca Marie Worth (moglie del designer) per avere una dimostrazione dell’album dei modelli delle creazioni di Worth. Da quel momento, grazie alla principessa Pauline e alla sua richiesta di far confezionare per lei un abito da sera e uno da giorno, il primo geniale designer inizia ad avere maggiore successo. Da li a poco diventa anche  fornitore ufficiale degli abiti da sera e di rappresentanza dell’imperatrice. Mentre l’azienda di Worth andava a gonfie vele, il designer iniziava ad apportare modifiche all’abito femminile proponendo idee innovative:  creare un abito il cui orlo si ferma alla caviglia sostituito da una sottoveste e una sopravveste drappeggiata, mentre la creolina aumenta di dimensione per qualificare lo status delle classi alte. Worth riduce drasticamente sul davanti spostando l’ampiezza sul dietro e dando forma ad un breve strascico, aggiunge un sopragonna lunga fino al ginocchio chiamato tunica. Nel 1869 riduce ulteriormente la creolina trasformandola in un sellino di crine rigido in modo da sostenere solo la parte alta del dietro della gonna. L’obiettivo era quello di seguire la silhouette femminile. L’abito richiedeva metri e metri di tessuto, di passamanerie e di nastri e, di conseguenza, Worth riduce il busto con un effetto a vita alta. Subito dopo nasce il modello princess: abito strutturato per intero in modo tale da seguire le forme del corpo della donna e svasando la gonna verso l’orlo. Ancora, nel 1874, lancia la moda della corazza: corpetto che arriva ai fianchi allungandosi sia al davanti che al dietro. La sopragonna viene aperta la centro unendo i due lembi sul dietro per formare uno strascico. Ancora una volta cambia la silhouette femminile passando ad una struttura longilinea dall’aspetto forte e corazzato.

Alessandra Federico

L’isola di Procida Capitale italiana della Cultura 2022

La vittoria di Procida, come Capitale Italiana della Cultura 2022, è stata celebrata anche oltreoceano. A tessere le lodi della piccola isola è stata la rivista economica statunitense Forbes. “L’isola di Procida nel Golfo di Napoli festeggia la conquista del titolo di Capitale Italiana della Cultura 2022, dopo aver combattuto la concorrenza di altri nove finalisti.

La minuscola isola, ammirata per la sua architettura vivace e le case dai colori vivaci, è arrivata al primo posto grazie alla sua presentazione “La Cultura non Isola, ovvero la cultura non isola” (giocando sulla parola “isola” in italiano)”, ha scritto la giornalista Rebecca Ann Hughes.
Queste le motivazioni alla base della scelta della giuria: “Il progetto culturale presenta elementi di attrattività e qualità di livello eccellente. Il contesto di sostegni locali e regionali pubblici e privati è ben strutturato, la dimensione patrimoniale e paesaggistica del luogo è straordinaria, la dimensione laboratoriale, che comprende aspetti sociali e di diffusione tecnologica è dedicata alle isole tirreniche, ma è rilevante per tutte le realtà delle piccole isole mediterranee.

Il progetto potrebbe determinare, grazie alla combinazione di questi fattori, un’autentica discontinuità nel territorio e rappresentare un modello per i processi sostenibili di sviluppo a base culturale delle realtà isolane e costiere del paese. Il progetto è inoltre capace di trasmettere un messaggio poetico, una visione della cultura, che dalla piccola realtà dell’isola si estende come un augurio per tutti noi, al paese, nei mesi che ci attendono. La capitale italiana della cultura 2022 è Procida”.

In gara c’erano anche altre città italiane Ancona, Bari, Cerveteri (Roma), L’Aquila, Pieve di Soligo (Treviso), Taranto, Trapani, Verbania, Volterra (Pisa), ma il fascino dell’isola e la sua unicità hanno sbaragliato la concorrenza.

Nicola Massaro

Delinquenza e povertà in Venezuela: “Si sopravvive ogni giorno”

“Ogni giorno ringraziavo il cielo per essere ancora vivo”.

Caracas, Maracay, Valencia: tre su ventidue città in Venezuela sono vere e proprie capitali della delinquenza, dove la criminalità arriva a impossessarsi del 30% della popolazione per ogni città. Dal 2001 al 2016 ci sono stati quasi 300mila omicidi. Nel 2018 è stato il Paese più violento del mondo, con una percentuale di 98 omicidi per 100mila abitanti. Oggi tre milioni di venezuelani vivono all’estero, di cui almeno due milioni sono partiti dopo il 2015. Lo stato sudamericano è devastato da una profonda crisi economica e la popolazione vive una situazione disastrosa, costretta a combattere ogni giorno contro la criminalità per sopravvivere. Senza tener conto della povertà, difficoltà a trovare cibo, mancanza di acqua corrente, di luce e gas. Il Venezuela è uno dei Paesi con le più ingenti riserve petrolifere al mondo e questa risorsa è stata fonte di grande guadagno per l’economia venezuelana fino alla diminuzione del prezzo del petrolio. La povertà in Venezuela costringe la popolazione a derubare anche i vicini di casa per un pezzo di pane, perché lavorare per uno stipendio di cinque euro al mese porta alla disperazione. La crisi sociale ed economica del paese sudamericano spinge la maggior parte delle persone ad emigrare, ma non è facile per chi non riesce a racimolare i soldi necessari per potersi permettere una vita migliore.

 

“Ho vissuto davvero anni d’inferno. Quando mettevo piede fuori casa, non sapevo se sarei ritornato. Una delle poche cose che ricordo con nostalgia è la pioggia. Perché lì la pioggia è calda e quando mancava il riscaldamento in casa, molte persone scendevano in strada muniti di bagnoschiuma e shampoo per farsi la doccia sotto il cielo. Si creava un’atmosfera calda e festosa, soprattutto per i più piccoli”.

 

Nathan ha 25 anni ed è solo uno dei tanti emigrati dal Venezuela. Da due anni vive in Italia con i suoi genitori, con sua sorella e sua figlia di soli sette anni. Nathan racconta la sua storia e di come è sopravvissuto alla silenziosa guerra che ogni giorno era costretto ad affrontare.

Quanto sono frequenti gli atti criminali nel tuo paese?

In Venezuela per ogni dieci metri che percorri, hai già incontrato almeno cinque malviventi che, armati di pistola o fucili, ti chiedono soldi, telefono o qualsiasi cosa tu possieda che per loro possa aver un qualche valore. Arrivano addirittura a rubarti le scarpe così sei costretto a camminare scalzo e se ti rifiuti o se non hai niente da dargli ti bastonano, nel migliore dei casi. Ma quando hanno voglia di sparare, ti tolgono la vita. Per loro è un gioco. Ed è questo che mi fa più rabbia: vedere queste persone aggirarsi per le strade di Maracay con un fucile tra le mani e un sorriso smagliante, perché per loro è divertimento guadagnare uccidendo le persone. Ma ciò che mi faceva più paura era dover proteggere mia nipote. Non è giusto far vivere un animo così delicato in una realtà così crudele: sguardi minacciosi e volti sanguinanti, era davvero una sofferenza per me dover dire a Laia che andava tutto bene, che saremmo arrivati a casa sani e salvi quando la verità era che nemmeno io sapevo se ce l’avremmo fatta. E questo accadeva tutti i giorni. Quasi sempre, quando andavo a lavoro, lasciavo a casa soldi e cellulare. A volte mi veniva in mente di camminare anche scalzo, tanto qualcuno mi avrebbe obbligato a dargli le scarpe. La sera, invece, andavo a bere una birra a casa della ragazza di cui mi ero innamorato: Mary, e ogni sera dovevo prima guardare dalla finestra per assicurarmi che non ci fosse nessun malvivente nei dintorni, poi fare una corsa per entrare nel palazzo dove abitava lei. Tutto questo per la paura di essere derubato o aggredito. E abitava di fronte casa mia. Ora per fortuna anche lei è andata a vivere all’estero con la sua famiglia.

Hai perso persone a te care, vittime della criminalità?

Mio fratello maggiore Marcos ha perso la vita per colpa di quei delinquenti. Aveva 16 anni. Me l’hanno portato via perché ha avuto il coraggio di affrontarli, rifiutando loro di dargli lo stipendio che aveva appena ricevuto. Due colpi dritti alla testa. Questo è tutto quello che ricordo perché avevo solo 9 anni. La figlia della mia vicina di casa è stata presa in ostaggio per sette mesi, chiedendo in cambio soldi, cibo e automobile. La polizia interviene ma solo se ne ha voglia. A volte arriva dopo due o tre giorni. Ho perso anche alcuni amici. Per questo motivo ho deciso di portare mia sorella, mia nipote e i miei genitori lontano da lì. Soprattutto per dare un futuro migliore a Laia, per salvare almeno la sua infanzia.

Hai qualche ricordo particolare della tua infanzia in Venezuela?

Il rosso. Il colore rosso del sangue che ricopriva il volto o l’intero corpo delle vittime era ormai una scena che vedevo quotidianamente. Questo non lo dimentico. È un colore che tuttora mi disturba un po’, non lo nego. Poi ricordo gli spari, soprattutto quelli oltre le sette di sera, perché dopo quell’ora c’è il coprifuoco. Ci rinchiudevamo tutti nelle nostre case e accendevamo la televisione, così per i più piccoli i rumori erano coperti dal volume alto di un film, almeno per un po’. A tarda notte, per fortuna, si sentiva solo qualche macchina passare. Questa è una cosa che ricorderò per sempre. E le urla. Urla e pianti di chi era vittima di quei delinquenti. Perché mio padre lo diceva sempre: ‘arriverà anche il turno nostro se non andiamo via da questo paese infame’. Parlava con mia madre, io lo sentivo, aveva ragione. Aveva ragione perché quei bastardi ci hanno portato via Marcos. Era un incubo, la paura di dover uscire da casa anche solo per andare a scuola non ci faceva dormire la notte. Ho anche dei ricordi piacevoli, anche perché preferisco ricordare i momenti belli anziché quelli brutti. Le giornate calde al mare o la doccia in strada sotto la pioggia. Il ricordo più bello che ho è legato a mio fratello: mio padre ci portava tutte le domeniche a pescare e una sera, al ritorno, lui mi regalò un soldatino di plastica della sua collezione. Lo porto tuttora con me, mi aiuta a sentirlo più vicino.

Che lavoro facevi in Venezuela?

Facevo il magazziniere e guadagnavo l’equivalente di 5 euro al mese. Praticamente quei soldi non erano sufficienti nemmeno per sfamare mia nipote e quindi ero costretto a fare due lavori. Era difficile anche procurarsi del cibo perché nei supermercati andava tutto a ruba. Molte volte non riuscivo ad arrivare in tempo a lavoro perché i treni non funzionavano a causa della mancanza di corrente e gli autobus spesso saltavano le corse. Avevo un motorino che hanno ovviamente cercato più volte di rubare. Mi trovavo sotto casa: ‘dammi le chiavi del tuo motorino’, disse un uomo dalla voce inquietante. ‘Io faccio parte della delinquenza quanto te. Che facciamo, io rubo a te e tu rubi a me?’, gli dissi. Ero costretto a dire così per non vedermi portare via l’unico mezzo che avevo a disposizione per portare soldi a casa.

In quale altro modo procuravi del cibo per te e la per la tua famiglia?

In Venezuela il cibo si procura ogni giorno, perché devi trovare soldi ogni giorno. Io mi inventavo lavori diversi, dal vendere oggetti vecchi che avevo a casa, all’accettare qualsiasi tipo di lavoro che mi proponevano, purché fosse onesto. Ci vogliono almeno 20 euro per fare la spesa lì, perché lo stipendio è basso ma la vita è abbastanza cara. Ad esempio, noi utilizziamo spesso la farina di mais per i cibi che prepariamo, ma arrivava una volta alla settimana per ogni supermercato di ogni provincia e quindi spesso non la riuscivo a trovare o se la trovavo dovevo rispettare una fila di 150 o 200 persone per acquistare un solo pacchetto. Inoltre,  parecchi commercianti, per paura della delinquenza, sono costretti a rimanere all’interno del magazzino e a passare la merce attraverso lo sportello. Un po’ come le farmacie notturne. Ci sono anche negozi come i supermercati dove puoi tranquillamente acquistare merce come in Italia, ma sono pochi.

Come ti trovi adesso in Italia?

Posso dire di essere nato di nuovo. La mia vita in Venezuela fa parte ormai del mio passato e ne farò sicuramente tesoro perché qualsiasi esperienza ci aiuta a crescere e ci insegna delle cose importanti. A volte ci lascia segni positivi, altre volte negativi, ma ad oggi so dire che tutto quello che ho vissuto mi ha fatto capire quanto è importante godersi ogni giorno la vita e apprezzare le piccole cose. In Italia mi trovo molto bene, vivo a Napoli da due anni e i Napoletani sono molto calorosi. Mi trovo bene qui soprattutto perché il mio lavoro mi  permette di vivere e non più di sopravvivere, facendomi togliere anche qualche sfizio come acquistare un paio di scarpe in più senza la paura di doverle dare a qualcuno. Passeggio tranquillamente per le strade della città e posso mangiare quello che voglio a qualsiasi ora del giorno,  senza preoccuparmi di trovare il market vuoto. La cosa che più mi dà gioia è che finalmente la mia famiglia può vivere serena e che mia nipote potrà avere un futuro migliore rispetto a quello che le sarebbe toccato in Venezuela.

Alessandra Federico

Antonina Nocera: Metafisica del sottosuolo

Antonina Nocera vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante nella scuola secondaria superiore.

Ha pubblicato una monografia dal titolo Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (Franco Angeli, 2010), e il saggio Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze, 2020) oltre a svariati articoli su riviste come Kaiak-A philosophical Journey, Il Maradagàl, Kainos. Un suo racconto si trova nella raccolta L’ultimo sesso al tempo della peste a cura di Filippo Tuena, (NEO edizioni, 2020) .Gestisce il blog letterario Bibliovorax (www.bibliovorax.it) dal 2016 dedicato alle recensioni di narrativa e poesia e interviste di autori contemporanei. Scrive per una rubrica dedicata alla divulgazione dei classici della letteratura russa sulla pagina Cultura Italia-Russia.

“Metafisica del sottosuolo” : titolo fortemente suggestivo ed evocativo. Può spiegare l’accostamento dei termini?

Il titolo è un omaggio a un antropologo e filosofo, forse lo studioso par excellence, del cosiddetto sottosuolo dostoevskiano, René Girard che in un suo saggio analizza le dinamiche psicologiche dei bassifondi delle anime dei personaggi più significativi di Dostoevskij. Solitamente si accosta la metafisica a idee astratte e poco terrene; senza scomodare i greci e Heidegger, metafisica del sottosuolo è un’interrogazione sul senso globale, essenziale del Male, nelle sue mille declinazioni; poi si avvicendano la Verità, il Potere, la Libertà che nel mio saggio si interfacciano con le azioni umane, il delitto, con il libero arbitrio e la coscienza: il sottosuolo dostoevskiano è propriamente il luogo dove il male, in tutte le sue forme plurime, si materializza e incarna nei personaggi: allo stesso tempo il percorso di Rogas (nel Contesto) e il suo dialogare con i vari personaggi del romanzo da Cres a Riches, sembrano essere una sorta di ‘parodia’ del sottosuolo dostoevskiano e delle sue tappe: il male come libero arbitrio rappresentato da Cres, la svolta nichilista rappresentata da Riches e la ribellione interiore di Nocio .

Nella comparazione con Sciascia, va detto, il titolo si completa con il sottotitolo: “Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij” a indicare un preciso percorso teorico.

Lei ha esaminato con accuratezza tre romanzi: Il contesto di Sciascia, I fratelli Karamazov Delitto e castigo di Dostoevskij. Qual è il metodo che ha adoperato ed il fine che ha inteso perseguire?

Sono comparatista e pertanto seguo un metodo che pone due oggetti tra loro apparentemente diversi e lontani e li mette in dialogo; il metodo qui usato richiama a grandi linee il “paradigma indiziario” di Carlo Ginzburg: come un detective il critico, lo studioso si concentra su degli indizi, – anche apparentemente marginali – per poi costruire una visione ampia e strutturata.

Oggetto di indagine pare essere l’uomo al cospetto di interrogativi etici circa il Bene ed il Male, mentre affronta temi quali delitto, punizione e giustizia. Quali sono, a tal proposito, le assonanze e le divergenze che ha ravveduto tra Sciascia e Dostoevskij?

Dostoevskij e Sciascia avevano in comune una grande dote: la capacità di scavare all’interno dell’uomo, questo mistero senza fine sul quale non si può mai pronunciare la parola definitiva. Il Contesto, Delitto e Castigo e I fratelli Karamazov sono tre romanzi, ciascuno con le proprie peculiarità, che indagano nel fondo della psiche, scandagliano le reazioni dell’uomo di fronte a questioni capitali come il delitto, atto supremo di tracotanza e ribellione all’ordine morale e alla legge. In entrambi gli autori il delitto è una “soglia” un passaggio oltre il quale si spalanca un vuoto di senso. La ricerca della verità e del colpevole nel giallo, nel poliziesco è chiaramente un tentativo di ristabilire un ordine razionale, compensativo di cui la giustizia dovrebbe farsi garante. Ma sia Sciascia che Dostoevskij hanno compreso che questo schema lineare è troppo stretto per contenere tutte le contraddizioni della società, del potere e delle ribellioni del sottosuolo umano, tendente al male e all’autoaffermazione. Così il commissario Rogas si trova di fronte a “uno stato detenuto”, una contraddizione insanabile che lo porta a contatto con il vero volto del potere, quello incistato nei gangli della società civile e delle commissioni di giustizia. Rogas, la ragione investigativa, la ricerca della verità, sono un tutt’uno. La sua morte, lungi dal rappresentare il sacrificio espiatorio, è invece una sorta di atto vuoto, senza senso e senza soluzione. Le esequie della verità, appunto. Quando Sciascia, in Appunti sul giallo parla di sostanza ontologica del delitto, sta in fondo ribadendo la formula dostoevskiana del delitto “filosofico” di Raskol’nikov: in questo frangente Dostoevskij e Sciascia parlano lo stesso linguaggio, la differenza è che Raskol’nikov fa i conti con un’altra giustizia, quella interiore e la perfeziona con l’accettazione della redenzione religiosa.

Dostoevskij e Sciascia sono soltanto apparentemente differenti per stile e contenuto. La lettura delle loro pagine, però, rivela un comune trasporto metafisico per le plurime e molteplici patine dell’animo umano. Quale idea emerge dell’Uomo rispetto alla Libertà?

La libertà è una questione originaria in Dostoevskij e ad essa si ricollega il problema del male e della verità, ma anche quella del bene. Senza libertà non vi può essere un bene autentico ma al contempo la libertà assoluta trascende in arbitrio, porta al delitto. Questa antinomia è fondamentale per capire il capitolo della leggenda del Grande Inquisitore, una digressione di straordinaria profondità che anima le pagine del romanzo dei Karamazov. Nel saggio ho ravvisato delle analogie tra un personaggio particolarmente inquietante Riches – il Presidente della Corte Suprema che Sciascia fa dialogare con Rogas- e appunto, il Grande Inquisitore di Dostoevskij. In questo dialogo emergono le questioni cruciali sul potere e la libertà: alle masse viene raccontata la bella favola della giustizia; per Riches questa non mira più alla ricerca della verità ma è una farsa necessaria. Da qui si comprende come la tanto paventata libertà sia molto complessa come orizzonte etico da perseguire. L’uomo non è libero di scegliere, anche se sia Sciascia che Dostoevskij sono promotori dell’uomo autenticamente libero socialmente e spiritualmente.

Il suo saggio è senz’altro caratterizzato da una scrittura agile. A chi si rivolge ed è possibile immergersi nella lettura nonostante non si sia un “addetto ai lavori”?

Il mio saggio inaugura una collana di saggistica breve che è stata pensata appositamente per un pubblico ampio che comprenda specialisti del settore e lettori appassionati. Mi piace l’idea che possa essere letto da uno studente di liceo e universitario, dal critico, dal ricercatore, dall’appassionato di Sciascia e di Dostoevskij. E mi piace che lo legga anche chi non conosce i romanzi che cito e che magari ne approfitta per approcciare queste letture. La cultura apre sempre nuove strade.

Giuseppina Capone

 

 

Massimo Prati: Rivoluzione inglese. Paradigma di modernità

Lei compie un’analisi di una serie di opere di storici britannici, relative alla Rivoluzione Inglese, mai tradotte nel nostro paese. Ce ne offre una sinossi?

Effettivamente, quelle a cui lei fa riferimento, nella maggioranza dei casi sono opere mai tradotte nel nostro paese. In altri casi ancora, siamo di fronte a lavori di ricerca pubblicati in italiano oltre 50 anni fa e che non sono più in commercio da moltissimo tempo; per questo motivo, si tratta di testi poco conosciuti al grande pubblico. Infine, ci sono pubblicazioni relativamente recenti di cui, per ora, non esiste un’edizione italiana. Io ho lavorato sullo studio e sulla lettura integrale di decine di questi libri. Riassumere complessivamente il contenuto di queste ricerche è praticamente impossibile. Per lo studioso o per il ricercatore interessato all’argomento, rimando alla bibliografia del mio libro. Nell’ambito di questa intervista, penso possa utile segnalare tre pubblicazioni, risalenti a periodi anche molto distanti tra loro: 1) “The Levellers and the English Revolution”, di H.N. Brailsford, del 1961. 2) “The Far Left in the English Revolution. 1640 to 1660”, di Brian Manning, uscito nel 1999. 3) “The English Civil War. 1640-1660”, di Blair Worden, pubblicato nel 2009 e, a mia conoscenza, non ancora tradotto in italiano. Henry Noel Brailsford, (25/12/1873-23/3/1958), è stato uno dei più importanti e autorevoli giornalisti britannici di orientamento progressista. Il suo libro sui Livellatori uscì a tre anni dalla sua morte, grazie al lavoro di “editing” svolto da un grande storico inglese: Christopher Hill. Si tratta, a mio parere, della più importante ricerca sull’argomento. Nelle oltre 700 pagine del libro si racchiude l’attività di questo importante movimento politico in tutte le sue sfaccettature: gruppo dirigente, iniziative dei militanti, pubblicistica di partito, contenuti programmatici e molto altro ancora. Rispetto a quello di Brailsford, il libro di Brian Manning, in termini quantitativi è un lavoro di dimensioni minori: la sua ricerca è inferiore alle 140 pagine. Ma, a mio parere, il suo lavoro è comunque prezioso. Brian Manning (21/5/1927-24/4/2004) era uno storico di orientamento marxista, allievo del sopraccitato Christopher Hill. Nel suo libro, il cui titolo potrebbe essere tradotto in “L’Estrema Sinistra e la Rivoluzione Inglese dal 1640 al 1660”, l’autore si concentra sulla storia dei movimenti politici e le lotte sociali più radicali di quel periodo. Basandosi anche sui lavori precedenti di altri ricercatori, lo storico britannico riporta alla memoria le prime lotte operaie di minatori e portuali nella metà del Seicento inglese. Blair Worden è un professore universitario britannico, nonché un eminente storico, specializzato nella storia inglese del periodo di Oliver Cromwell. Il suo pregevole libro, che ho ricordato poc’anzi, tra le altre cose è un testo fondamentale per la dettagliata ricostruzione delle vicende di guerra.

La sua ricerca è basata sul metodo comparativo. Quali sono i termini che raffronta e quali sono le ragioni che l’hanno indotta a donare ai lettori un duplice piano di lettura?

Nel mio libro, parto dal presupposto teorico che la Rivoluzione Inglese abbia anticipato fenomeni e processi sociali manifestatisi più ampiamente, e più compiutamente, in vicende storiche successive. Questo, pur rifuggendo da teorie deterministiche o basate sulla ciclicità della storia, mi ha portato ad operare una serie di comparazioni tra la Rivoluzione Inglese e altri processi rivoluzionari del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento. D’altra parte, come in tutti i miei libri, cerco di fornire al lettore un duplice piano di lettura: da un lato un lavoro di ricostruzione dei fatti che permetta, anche a chi non è addentro alla materia, di avere un inquadramento storico facilmente comprensibile; dall’altro, una serie di approfondimenti, di suggestioni e di chiavi di letture utili a chi ha già una serie di competenze sull’argomento.

Un picchetto di minatori del Derbyshire nel 1649, le lotte dei portuali di Newcastle nel 1654 o, ancora, le petizioni organizzate da migliaia di donne di Londra, militanti dei Levellers (Livellatori): eventi dimenticati ma forieri di profondo interesse. Si tratta di eventi esemplificativi di modernità nella maniera in cui si sono svolti?

Come forse si può intuire dalla mia risposta precedente, il mio lavoro di ricerca parte da un’idea piuttosto semplice. La Rivoluzione Inglese, in qualità di primo processo rivoluzionario dell’età moderna, e del nascente sistema capitalista, ha in qualche modo prefigurato scenari sviluppatisi più profondamente in epoche successive. Da questo punto di vista, gli esempi di combattività operaia e di attivismo femminile che lei richiama alla mente, confermano, a mio parere, la validità dell’ipotesi da cui sono partito. Nel libro si possono trovare innumerevoli esempi che vanno in questo senso, sia in termini di Macrostoria e grandi eventi collettivi, sia in termini di comportamenti individuali.

Qual è stata l’eredità lasciata dalla Rivoluzione Inglese? C’è un prima ed un dopo?

Io tendo ad interpretare l’eredità della Rivoluzione Inglese prendendo in esame un ampio periodo che va dal 1640 al 1689. Periodo che comprende quindi la fase delle guerre civili, la Restaurazione e la cosiddetta “Rivoluzione Gloriosa” (la seconda rivoluzione sviluppatasi tra il 1688 e il 1689). Per questo, a mio parere, sarebbe più giusto parlare di singole eredità delle due rivoluzioni, tenendole separate, nella misura del possibile, l’una dall’altra. Entrambe le rivoluzioni, pertanto, presentano tratti di straordinaria modernità e attualità. Ma, a mio parere, la prima rivoluzione (tra il 1642 e il 1658 circa) offre spunti di maggiore interesse per le sue tendenze libertarie, egualitarie, solidaristiche e alternative (perlomeno in alcune sue correnti di pensiero). Anche se, da un punto di vista ideale, la “Glorious Revolution” ha il merito di avere sancito il principio della tolleranza religiosa. È stato detto che il Toleration Act (1689) rispondeva alle esigenze di una società che puntava al business e voleva liberarsi delle vecchie diatribe. Ma credo che si tratti, piuttosto, di un riflesso -sul piano legislativo- di un bisogno profondo: la volontà di vivere in pace dopo circa 150 anni di lotte religiose, roghi, torture, persecuzioni e mutilazioni.
In generale, comunque, direi che la “Glorious Revolution” ha prodotto cambiamenti profondi -economici e istituzionali- che possono essere considerati fondamentali per il funzionamento di una moderna società capitalista e che, in parte, stabiliscono un modello ancora vigente. Mi riferisco, soprattutto, alla dialettica politica che si articola tramite lo schieramento di due o più fronti parlamentari contrapposti, e alla conseguente prassi di funzionare per maggioranze di governo. Ma mi riferisco anche alla gestione finanziaria dello stato e al suo funzionamento tramite la stesura e l’approvazione di bilanci preventivi. E, ancora, a provvedimenti legislativi tesi ad incrementare il commercio estero. Ma, personalmente, sono i tratti utopistico-libertari della prima rivoluzione quelli a cui io guardo con maggiore interesse.
Lei ha conferito alla sua ricerca un taglio divulgativo. Quali difficoltà ravvede nell’avvicinare coloro che non sono specialisti di materia allo studio della Storia?

Questa sua ultima domanda mi offre lo spunto per una precisazione. Io, pur essendo un grande appassionato di storia, non sono uno storico di formazione. I miei studi universitari sono di tipo letterario, con una specializzazione in comunicazione interculturale e corsi post-laurea in linguistica. Proprio in ragione di quanto le ho appena detto, agli inizi della mia carriera di studente, prima di stabilire a quale facoltà iscrivermi, ero stato a lungo indeciso se orientarmi verso gli studi di storia, da me coltivati per molti anni come autodidatta, o verso gli studi di lingue e letterature straniere. Alla fine fu decisivo il fatto che la Facoltà di Lingue dell’Università di Genova proponesse un corso di “Scienze dell’Informazione e della Comunicazione Sociale e Interculturale”. Si trattava di un orientamento di studi dal taglio fortemente interdisciplinare, con un ventaglio molto ampio di insegnamenti delle varie scienze sociali e discipline scientifiche (sociologia, psicologia, storia sociale dell’arte, semiotica, linguistica, ecc.). La specializzazione in queste scienze, e in queste discipline, mi ha dato pertanto la possibilità di misurarmi con numerosi studi sociali che, pur partendo da approcci diversi, hanno comunque un denominatore comune.
Ma la passione per la storia era, ed è, comunque rimasta. L’idea di compiere una ricerca in campo storico aveva quindi risposto alla necessità di ricomporre l’ideale frattura consumatasi all’inizio della mia carriera universitaria, e cioè al momento di scegliere un corso di studi di letteratura anziché uno di storia.
Ma la scelta dell’argomento ed il taglio del lavoro della mia tesi (che, con studi nei 20 anni successivi, è divenuto il libro di cui stiamo parlando in questo momento) erano dipesi in modo specifico da due letture: “Le Cause della Rivoluzione Inglese”, di Lawrence Stone e “The Making of the English Working Class”, di Edward P. Thompson. Nel primo libro lo studioso -pur criticando i risultati fino ad allora ottenuti- non escludeva la possibilità che attingendo dalle scienze sociali si potessero ottenere interessanti e innovative acquisizioni in campo storico: “Con tutti i loro difetti, gli scienziati sociali possono fornire un correttivo al rimestare tra i fatti, di gusto tanto antiquario, in cui gli storici cadono con tanta facilità; possono far osservare problemi d’importanza generale, lontani dalla sterile irrilevanza di tanta ricerca storica; possono porre nuove domande e proporre nuovi modi di considerare quelle vecchie; possono fornire nuove categorie e di conseguenza nuove idee”.
Inutile dire che rimasi immediatamente affascinato dalle prospettive aperte da un simile invito. Si trattava di cimentarsi in una sfida da affrontare con la modestia e la cautela che ogni ricercatore deve avere (e che, in primo luogo, passano per uno studio attento, incrociato, e approfondito delle fonti), ma anche con la positiva ambizione di mettere in campo le competenze acquisite in anni di studio nell’ambito delle scienze sociali. Ecco, le ho fatto questa lunga precisazione perché credo che si possano avvicinare nuovi lettori alla Storia proponendo, nuove idee, nuove categorie e nuove chiavi di lettura.

Massimo Prati si è laureato all’Università di Genova in Comunicazione Interculturale. Ha proseguito gli studi in Linguistica all’Università di Ginevra, nell’ambito del DEA, e in English Literature al St Claire’s College-Oxford. È formatore a Supercomm-Ginevra e insegnante nel College Aiglon. È autore di un racconto della raccolta Sotto il segno del Grifone (2004); de I racconti del Grifo (2017) e de Gli svizzeri, pionieri del football italiano (2019).

Giuseppina Capone

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