Asperger: la vita oltre la diversità

“Certe volte mi dimentico del resto del mondo. Vivere con Lucas ogni giorno è come stare in un universo parallelo con delle regole tutte sue”.

La sindrome di Asperger è più frequente nei bambini maschi dai 4 ai 10 anni. Questa sindrome comporta varie problematiche riguardo il comportamento e la socialità. “Piccoli professori” fu cosi che li definì il pediatra Hans Asperger agli inizi del Novecento (da cui appunto prendono il nome i bambini Asperger) per la loro grande volontà nell’approfondire la conoscenza riguardo qualsiasi interesse essi abbiano: musica, scienza, letteratura, matematica, collezionismo, animali.  Capaci di arrivare ad essere più preparati di un  loro stesso insegnante. Allo stesso tempo, però, questi bambini speciali, hanno un carattere solitario, hanno difficoltà a comunicare e a relazionarsi con gli altri, utilizzano un linguaggio di poche parole ma parlano a raffica. Il gruppo di malattia che riguarda il comportamento prende il nome di “Disordini dello sviluppo”.

È considerata, da molti studiosi, come una forma di autismo poiché coloro che hanno la sindrome di Asperger assumono comportamenti simili a coloro che sono autistici: comportamento ripetitivo e schematico anche se, a differenza del bambino autistico, il bambino Asperger riesce a manifestare tranquillamente i suoi sentimenti nei confronti dei suoi familiari. Inoltre, ha un’intelligenza e un linguaggio nella norma e i suoi sintomi non peggiorano col passare degli anni.

È facile che l’origine possa essere multifattoriale, ovvero tanti  fattori che entrano in gioco nel determinare questa sindrome: predisposizione genetica, in considerazione della ricorrenza dei casi al’interno di alcune famiglie. Per di più, l’assunzione di sostanze tossiche durante la gravidanza potrebbe alterare il normale sviluppo del sistema nervoso centrale del bambino e predisporre la sindrome. Allo stato, però, ancora oggi non esistono dati scientifici certi.

Le difficoltà e le agevolazioni di un bambino Asperger

I bambini Asperger hanno difficoltà nel ricambiare sorrisi o nel guardare negli occhi l’interlocutore. Hanno inoltre un’ossessiva attenzione verso determinati oggetti o interessi come la scienza o la musica. Allo stesso tempo, però, possiedono una maggiore facilità nel memorizzare numeri o date e sono velocissimi nei calcoli matematici. Per un bambino Asperger, i suoi interessi e le sue passioni, sono una vera e propria risorsa in quanto continui stimoli per lui e non solo, può diventare un maggiore input per relazionarsi con gli altri bambini. Il bambino Asperger va supportato adeguatamente non solo dai suoi genitori ma anche dai suoi insegnanti, altrimenti potrebbe andare incontro a depressione o disturbi d’ansia perché si renderà conto, durante la sua adolescenza, delle difficoltà che incontra nei rapporti con il prossimo. In ogni caso, possono condurre una vita pari a quella di qualsiasi altra persona.

“Con mio figlio è una continua avventura, ogni giorno sembra di stare in un film diverso da quello del giorno precedente. Non è semplice stare ai suoi ritmi ma ce la sto mettendo tutta. Adesso abbiamo trovato il nostro equilibrio”.

Celeste, madre di Lucas (bambino con sindrome di Asperger) racconta la loro storia.

Quando avete scoperto che Lucas è un bambino Asperger?

Lucas aveva 5 anni quando iniziò a essere ossessionato da una pallina di carta. La buttava contro il muro e poi la andava a riprendere. Questo accadeva almeno per la maggior parte della giornata poi passava da un’ossessione all’altra: conosce a memoria tutti i nomi degli animali in particolare i dinosauri e li ripeteva in continuazione. Abbiamo quindi deciso di portarlo dal pediatra che a sua volta ci ha consigliato di consultare un neuropsichiatra infantile che ha approfondito la questione attraverso alcuni test specifici per la diagnosi della sindrome di Asperger, basati sia sulla valutazione del comportamento sia sulle capacità cognitive.

Come l’avete presa quando vi hanno dato la certezza che Lucas è Asperger?

Io sono scoppiata a piangere anche avanti al bambino e lo psicologo mi ha consigliato di non farmi mai vedere da Lucas in lacrime perché altrimenti potrebbe avvertire questa situazione come un disagio, come una cosa che rende tristi. Il neuropsichiatra, ci ha poi regalato un libro contenente tutti i consigli per come relazionarsi con le persone Asperger e devo dire che anche se inizialmente è stata dura, adesso ce la stiamo cavando.

 Avete un’educatrice?

Sì e devo essere sincera ci è stata di grande aiuto perché riesce a gestire la situazione in modo tale da evitare qualsiasi crisi nervosa che Lucas possa avere, qualora non dovesse ottenere ciò che vuole e a dirla tutta è stata un’educatrice anche per me e per mio marito, perché ci ha insegnato non solo ad essere forti ma soprattutto a riuscire a gestire da soli la circostanza quando lei non c’è. Lucas ha tutti i libri sugli animali e ogni volta che fa i capricci o non vuole mangiare o non vuole lavarsi scendiamo a compromessi: 10 punti ogni pasto quindi 30 punti al giorno e arrivati a 200 punti vince un libro. Praticamente un libro alla settimana. Questo è un metodo molto efficace che ci ha insegnato Maria, l’educatrice di Lucas. In sostanza, Maria è stata una mano dal cielo. L’educazione di Maria con Lucas è stata anche di grande aiuto per quanto riguarda il suo rapporto con i suoi compagni di classe.

Adesso Lucas come vive il suo rapporto con i suoi coetanei?

Decisamente meglio, ma ha trascorso parecchi anni in solitudine giocando da solo e leggendo ogni tipo di libro sugli animali e non solo, è preparatissimo in letteratura e in matematica anche più dei suoi stessi insegnanti tanto che spesso li interroga, affermando poi che non hanno studiato abbastanza. All’età di 13 anni Lucas ha iniziato a farmi domande sul suo modo di essere e del perché fosse cosi tanto diverso dai suoi coetanei. È stato difficile ma adesso, anche grazie a Maria, (la sua educatrice) Lucas sta conducendo una vita pari a quella dei suoi coetanei. Con Lucas è un mondo diverso, è spesso anche emozionante.

Alessandra Federico

Curvy: le difficoltà per la donna oversize

“Non esiste cosa più triste del voler cambiare il proprio aspetto perché convinti del fatto che, per essere belli, per essere accettati, bisogna a tutti i costi somigliare al canone di bellezza che ci mostrano. Io non posso credere che ogni donna voglia davvero essere uguale ad un’altra e che si sottoponga addirittura a una o più chirurgie plastiche per non essere quella diversa, per avere il corpo e il viso che ci impongono di avere. Rendiamoci conto, una volta per tutte, che ancora oggi non siamo liberi di scegliere come vogliamo essere, che ci annientano la personalità e  ci manovrano come marionette, ed è per questo che spesso mi pongo questo quesito: chi stabilisce come debbano essere le donne e qual è il modo giusto di vedere le cose? Io credo sia giusto confrontarsi e ispirarsi a qualcuno o a qualcosa ma senza annientare sé stesse. Il fatto è che noi crediamo di essere liberi di scegliere ma è la società che decide come dobbiamo essere e senza accorgercene obbediamo. Il modo in cui lo fanno non è diretto. In modo subdolo giocano sulla nostra psiche mirando sul nostro punto debole, ovvero sull’aspetto estetico di una donna: pubblicità, social media e tanto altro, per inculcare nelle nostre menti che quelle sono le regole giuste da seguire e che se non le rispetti non sarai accettata e, automaticamente, senza neppure che possiamo accorgere, pur di esserlo, diventiamo un branco di pecore pronte ad obbedire al nostro pastore. Quindi, il messaggio che voglio mandare alle donne,  è quello di riflettere e cercare di uscire da questa trappola che non ci fa vivere una vita felice ne tanto meno indipendente. Siate voi stesse, qualunque corpo voi abbiate, qualunque colore della pelle abbiate e da qualsiasi posto voi veniate”.

Quando una donna non segue tutte le regole per essere esteticamente impeccabile come vorrebbero che fosse, è facile che possa sentirsi derisa, o, addirittura, emarginata, esclusa in diversi ambiti soprattutto quelli lavorativi. Sembra quindi che disobbedire al canone di bellezza che ci viene imposto dalla società sia quasi eresia. Bisognerebbe, dunque,  seguire precisamente ogni regola per essere accettati, per essere considerati: essere sempre alla moda indossando capi d’abbigliamento di tendenza, non solo, anzitutto riuscire ad avere un aspetto esteriore che sia alla pari dello stereotipo di perfezione che ci mostrano, ossia, che  la vera bellezza sia quella di avere un corpo magro. E pare proprio che, non rientrare nella categoria della donna perfetta, chiuda tutte le porte, poiché una donna con un corpo da Barbie viene assunta immediatamente qualsiasi sia il settore lavorativo, per una donna oversize, invece, la probabilità che possa essere assunta è più difficile. Purtroppo chi ci rimette sono coloro che scelgono di vivere la loro vita nel modo indipendente senza sentirsi in  obbligo di dover avere un corpo o un viso chirurgicamente ritoccato come chiede  oggi la società. Ma secondo quale punto di vista di quale persona abbiamo deciso quale debbano essere le cose belle e quali quelle brutte? La vera bellezza è, semplicemente, quella che i nostri occhi riescono a vedere, a percepire nonostante le diverse imperfezioni che possa avere il corpo di una donna o anche di un uomo. Addirittura di un oggetto o di un animale. Ciò che conta è sentirsi a proprio agio nella propria pelle, vedersi belli allo specchio così come si sceglie liberamente di essere a seconda della propria indole, carattere e soprattutto di un personale gusto, a secondo di come si osserva la vita, perché tutto ciò che vedono i nostri occhi può diventare perfetto secondo il modo in cui decidiamo noi di osservarlo e di viverlo. In sostanza, sentirsi liberi di scegliere come voler essere è fondamentale, perché ci si sente, di conseguenza, accettati per quello che realmente si è, e soprattutto si ha la facoltà di condurre la vita che si desidera e non quella che vuole qualcun altro.

Samantha, quarantuno anni, racconta la sua storia da donna oversize.

Samantha, come vivi la relazione con il tuo corpo?

La mia relazione con il mio corpo è ottima, finalmente, dopo quasi trentaquattro anni di conflitto tra me e lui, me e la società. Oggi lo vedo come un alleato e parte di me, cerco di curarlo e tenerlo efficiente (ho 41 anni anche se non li dimostro e diversi traumi sportivi alle spalle) non lo vedo come un biglietto da visita o qualcosa da modificare, so che cambia con il tempo e lo accetto. Mi piace molto essere tonda, mi piace il mio viso e credo di essere fortunata, mi piacciono molto le donne tonde. Certo è normale anche per me ogni tanto essere giù di morale, o insoddisfatta, ma è una cosa passeggera e di certo determinata dall’influenza massiccia dei mass media e dei social (e di photoshop).  Io credo che anche il corpo di una donna in carne possa essere attraente.  Non si tratta, naturalmente, di incitare la donna ad avere a tutti i costi il corpo di una donna curvy, perché fino al momento in cui questo non causa problemi come l’obesità, tutto è lecito e ognuno deve sentirsi libero di stare bene nel proprio corpo senza il timore di essere preso in giro o che ogni giorno possa esserci qualcuno che ti guarda con l’aria disgustata.

Quale consiglio dai alle donne Curvy per far si che accettino il proprio corpo?

Accettare il proprio corpo non è facile, va detto, bisogna lavorare dentro di sé, studiare, mettere in discussione i mass media, la società e le esigenze del ‘business del corpo’ come lo definisco io, darsi molto tempo, riprovare, essere indulgenti con noi stesse e con gli altri corpi e persone, informarsi e non fermarsi alle facili formulette per la perdita di peso. Non solo, chiedere aiuto qualora non si dovesse avere la forza di farcela do soli. Molte donne non sanno nemmeno di essere dismorfofobiche o di soffrire di disturbi della propriocezione e alimentari.  Direi loro, prima di tutto, di ricordare che il cibo è una necessità e avere fame è naturale, rinunciare al cibo non aumenterà il nostro valore, e diventare magre come ci vogliono non aumenterà al nostra autostima perché non sono questi i valori che contano nella vita quanto la persona che scegli di essere. Le direi di non dar retta a chi non sa fare altro che soffermarsi sull’aspetto esteriore perché di quelle persone non ne avrà bisogno perché non faranno parte della sua vita. Provare ad accettare il proprio corpo nonostante diverse imperfezioni vi renderà perfette perché avrete imparato a guardare la vita con semplicità e soprattutto a dare importanza alle cose che contano davvero: l’essenza di una persona. Iniziare a pensare al proprio corpo come a un alleato da amare, coccolare, preservare, mostrare, vestire bene. Non a caso il motto della mia linea è: se ti piace è già l’abito adatto a te. Io mi sentivo divina e ho iniziato a vestirmi da diva. Vi assicuro che ha funzionato. Scegliete di indossare quello che vi fa impazzire non quello che vi camuffa, cercate online: c’è di tutto per qualsiasi taglia. Vestirci come ci piace ha un grande potere, perché l’accettazione parte dalla mente per poi arrivare al cuore e al corpo. Soltanto quando ci sono in ballo problemi di salute legati all’obesità, si dovranno prendere provvedimenti. Ma fin quando si tratta di essere “rotondette” o fuori dal canone di perfezione che impone la società, fregatevene.

Sei mai stata vittima di bullismo?

Oh si, sin da piccola, ovunque, e anche da adulta. Perché ero bimba grassa e bizzarra, da ragazzina ero grassa e non vestivo con abiti firmati, un calvario che però mi ha fortificata non poco. Anche ora che ho quarantuno anni sento battute, raccolgo occhiate, ma è molto diverso, non mi tiro indietro se c’è da difendermi o difendere.

Fatevi aiutare, se sentite di essere troppo oppresse, chiedete aiuto a qualcuno di neutro e autorevole. Ricordate che spesso chi vi discrimina è un poveraccio pieno di problemi che maschera fragilità e insicurezza attaccando voi, proiettando su di voi il mostro che lui vede in sé stesso. Con questo non voglio dire che dobbiate lasciarlo fare, può farvi pena ok, ma voi dovete proteggervi e proteggere le altre vittime d ei bulli.

Hai avuto difficoltà anche a cercare lavoro?

Mentre studiavo cercai anche lavoro in un bar, in diversi ristoranti e pub. Mi sentivo dire continuamente no, fino a quando decisi di domandare il perché: “abbiamo bisogno di clientela, e per averla abbiamo bisogno di u n bel corpo femminile che serve ai tavoli”. Scappai in lacrime, anche perché avevo solo 22 anni. Ad oggi gli avrei fatto una bella risata in faccia. Penso sia una cosa molto triste questa, perché scelgono ragazze belle anche se non sono capaci di servire un caffè. Nel  2014 ho capito che  potevo creare per altre donne abiti come da sempre creavo per me stessa. Sono cresciuta con nonna sarta e magliaia, ha sempre realizzato per me abiti  bellissimi e da lei ho imparato a cucire. Crescendo ho capito che per la mia taglia non c’era nulla di mio gusto quindi ho iniziato presto a cucire per me. Avere un mio stile unico e gusto autonomo nel vestire è stata per me una grande rivincita contro tutte quelle persone che vestono uguali. La mia passione vera non è la moda, ma l’arte: sono laureata in scultura all’accademia di Brera e di Atene. Poco tempo fa mi chiesero se volevo sfilare come modella Curvy ma  rifiutai. Non ho mai pensato di diventare  modella, almeno non nel significato classico del termine, ma essere esempio (role model come direbbero in USA), quello si, vorrei essere una donna esemplare più che una modella. Mi piace usare il mio corpo come mezzo per comunicare e aiutare le altre donne, ma mi piace molto anche fare ricerca e parlare ai convegni\ conferenze. Essere modelle oggi, con tutto il carico di responsabilità nei confronti delle donne e bambine, è un compito difficile, anche per le modelle oversize e curvy, che spesso dimenticano che non basta essere belle, bisogna essere anche esemplari. Attenzione però, a percepire bene il significato messaggio che voglio mandare. Mi spiego: non è incitare le donne ad essere in sovrappeso perché si sa che l’obesità è una malattia, e non è nemmeno un messaggio per dire loro che fanno bene ad esserlo, Ma è, chiaramente e per chi lo riesce a capire, un messaggio di conforto per far capire loro che fanno bene a sentirsi a proprio agio con il proprio corpo nonostante vengano prese in giro. Che poi col tempo possano risolvere, nel caso dovessero averne, problemi di salute, noi glielo auguriamo con tutto il cuore. Inoltre,  auguro loro di sentirsi libere di essere e non di apparire.

Alessandra Federico

Silvia Celani: Ogni piccola cosa interrotta

Silvia Celani è al suo esordio per Garzanti con “Ogni piccola cosa interrotta”.

 “Sono le nostre imperfezioni a renderci più forti. Sono loro a tracciare la strada delle nostre cose interrotte” Questo sembra essere il senso della sua narrazione. Può esemplificare il concetto racchiuso nel termine “imperfezione”?

L’imperfezione è tutto ciò che non rientra nel canone. Nello schema. È la diversità. La particolarità. In un certo senso, le imperfezioni modellano la nostra identità. Siamo ciò che siamo, grazie alla mappa di nèi che ci contraddistingue. Eppure, spesso l’imperfezione è vissuta con valenza negativa, diminutiva. Mentre scrivevo di Vittoria, speravo proprio di ribaltare questo assioma. Di sfatarlo.

Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

C’è un filo che lega il passato al nostro presente, e che, in qualche modo, definisce anche il futuro che intendiamo costruire. Le esperienze, quelle che ricordiamo, ma anche quelle che sono sbiadite, che ci si presentano interrotte; finché non troviamo il coraggio di fare i conti con tutto questo, è complicato compiere i passi che servono per vivere pienamente le nostre vite. Per capirle fino in fondo. Quindi, sì: credo che con il nostro passato non solo si possano fare i conti, ma in realtà si debbano fare i conti. Un po’ come decide di fare Vittoria, anche se con grandissimo dolore e con enormi difficoltà.

“Ogni piccola cosa interrotta” fa riferimento alle piccole increspature dell’anima. Le crepe possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?

Le crepe sono un passaggio. Come le imperfezioni, spesso vengono appesantite di un valore negativo: ma attraverso una crepa può passare la luce, attraverso una crepa può defluire un dolore. Il passato mischiarsi con il presente, sfociare nel futuro. Una superfice perfettamente liscia è incapace di trattenere. Non produce attrito. Non lascia spazio a nessuna scintilla. Dovremmo imparare a perdonare i nostri difetti. Accoglierli. Vestirli, come si indossa un abito. Miglioraci accettandoli, e accettandoci.

“L’amore che ognuno di noi riceve ha la stessa funzione delle stelle per i navigatori. Ci indica la rotta. Rimane in fondo alle nostre tasche, così, ogni volta che lo desideriamo, ogni volta che ne sentiamo la necessità, possiamo accertarci che sia sempre lì affondandovi una mano.” L’amore s’inabissa ma non scompare?

L’amore è l’unica cosa che dura. Ha un nucleo di metallo pregiato, inscalfibile. Soprattutto l’amore che riceviamo durante la nostra infanzia e durante l’adolescenza. Quell’amore ci definisce. Ci rende ciò che siamo.

È una specie di tesoro sotterraneo.

Amore, condivisione, solidarietà sono solo alcuni dei temi che affronta. Qual è il messaggio etico ultimo che intende veicolare?

Imparare a guardarci allo specchio. Non avere paura di noi stessi. Non avere paura di essere felici, anche se questo significa andare oltre il solcato. Essere diversi. Essere imperfetti.

Giuseppina Capone

Quello che non sono mi assomiglia

Gianluca Giraudo, dopo la laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione a Torino ha frequentato un dottorato in Scienze Sociali a Roma, dove si è appassionato ai temi dell’identità e dei cambiamenti della società. Ora lavora nell’ambito della produzione televisiva.

Fughe intenzionali, amori inammissibili, piccole ossessioni, flirt goffi, mestizie fulminee, inerzia dell’esistenza, desideri latenti, lontananze subìte e cercate, famiglie sguaiate e complesse, ricerca di inediti equilibri e nuove identità. Molteplici e plurimi temi per un romanzo corale. Può motivare la scelta della polifonia?

Iniziando a scrivere ho capito che tra i tratti della mia voce dovevano esserci la sfumatura, la scomposizione dei punti di vista e la restituzione di una storia che fosse la somma di tante storie diverse. Credo che oggi l’identità, tema che ritrovo al centro di “Quello che non sono mi assomiglia” (Autori Riuniti), si presti moltissimo a questo modo di lavorare e intendere le storie.

Dieci capitoli, dieci nomi propri e dieci personaggi. C’è un filo rosso che li attraversa?

Ho una passione e una grande memoria per i nomi. Tendo a conservarli e a cercare corrispondenze, un po’ seriamente un po’ per gioco, tra il “bagaglio” che si portano dietro e le persone cui sono associati. Ritengo che tutti e dieci i personaggi siano coprotagonisti del romanzo, poi certo, c’è Ignacio, che è il protagonista tra i protagonisti. Il suo nome e la sua storia aprono il libro e lo accompagnano in tutti gli snodi.

Lei esplora la provvisorietà dell’Occidente sincronico come Annie Ernaux o Yasmina Reza: sagacia solo a prima vista distratta e breve intuizioni. Qual è la cifra caratteristica della sua narrazione?

Sono lusingato, e un po’ intimorito, da questi accostamenti. Ernaux e Reza rappresentano due autrici cruciali per le mie letture e la mia ispirazione. Apprezzo il modo che hanno di esplorare i processi laterali, più nascosti, che accompagnano le vite di ognuno, senza la vergogna di tirare fuori anche il marcio o l’indicibile. La loro scrittura giova di questo coraggio, risultando di un’eleganza irraggiungibile. Muovere anche solo un passo in questa direzione è per me fonte di motivazione e spinta a lavorare sodo.

“Grazie al mio lavoro so bene che di una persona non vediamo mai la persona, ma solo una rappresentazione.”. Quale idea intende veicolare della verità e della sua discutibile univocità?

Come accennavo sopra, per la mia idea di narrativa ritengo fondamentale la scomposizione dei punti di vista, la credenza che non esista una verità, ma solo tante versioni dei fatti. In “Quello che non sono mi assomiglia” ogni personaggio non solo aggiunge un pezzo di sé al romanzo, ma cambia anche le carte in tavola rispetto alle dichiarazioni dei personaggi che lo hanno preceduto. E al lettore non resta che questo: la sfida di tracciare una sua personale strada tra le storie o, meglio ancora, trovare la forza di accoglierle tutte, senza necessariamente trovare una sola “verità”.

I numeri a piè di pagina disposti al contrario: per quale ragione?

Si tratta di una cifra stilistica della casa editrice Autori Riuniti, che si ritrova in tutti i suoi bei libri. Devo dire che questa peculiarità si è adattata bene al mio piccolo “giallo”.

Giuseppina Capone

Lorenzo Sartori e “La Sindrome di Proust”

Lorenzo Sartori, giornalista, vive tra Crema e Milano. Dal 2000 è editore e direttore responsabile della rivista Dadi&Piombo, la prima testata italiana che si occupa di wargames e ricostruzioni storiche in miniatura. E’ autore de La sindrome di Proust (Plesio Editore/Lambda House, 2020, romanzo, thriller futuristico).

 “Madeleine de Proust” è una locuzione che può designare una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore e in particolare un sapore o un profumo, che evocano in noi ricordi del passato, come una madeleine al narratore de “Alla ricerca del tempo perduto”. Quanto il titolo del suo scritto evoca la cosiddetta “memoria olfattiva”?

La Sindrome di Proust è un thriller incentrato sul tema della memoria e dell’identità di un individuo. È ambientato in un futuro in cui la cosa più preziosa che abbiamo, i ricordi, rischiano di non appartenerci più, di diventare qualcosa di prezioso anche per gli altri, qualcosa per cui possa valere la pena uccidere. Il titolo è un esplicito riferimento alla memoria olfattiva perché solo gli odori sono capaci di svegliare in noi i ricordi con quella prepotenza che in un thriller può rivelarsi decisiva. L’olfatto è in grado di aprirci all’improvviso una porta sul passato e l’esperienza può essere piuttosto forte e completa.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Non credo si possano mai chiudere i conti con il passato. Forse si possono sospendere. I ricordi sono la nostra identità e il tema dell’identità a me è molto caro. Siamo quello che siamo proprio perché ricordiamo. Il presente, o meglio, la nostra percezione del presente dipende in modo imprescindibile da ciò che è stato il nostro passato. O ciò che ricordiamo che sia stato.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller . Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

Credo che La Sindrome di Proust sia un thriller sui generis, almeno per il panorama italiano, dove spesso thriller e gialli sono la stessa cosa, cambia solo l’etichetta e dove troppo spesso la figura del serial killer sembra essere l’unica in grado di caratterizzare il genere, impersonificando il male assoluto e al tempo stesso ricoprendo il ruolo di un degno antagonista. Per me il thriller è prima di tutto tensione e colpi di scena. Ci sono autori che sono in grado di costruire tutto ciò con pochi ingredienti e soprattutto con poco sangue. Credo che un buon thriller debba lavorare soprattutto sulle immagini e sulla capacità di suscitare emozioni buttandoci dentro il lettore. In campo cinematografico penso a Hitchcock, alla sua abilità nel rendere iconica e al tempo stesso tensiva una semplice sequenza.

La Sindrome di Proust non è un thriller investigativo in senso stretto, il protagonista non è un poliziotto o un investigatore o un giornalista, uno abituato appunto a indagare, magari tormentato da un trauma del passato. Alec Raines è un giovanotto di 27 anni che ama il suo lavoro, un possibile lavoro del futuro, quello del “correttore di ricordi”, che gli permette di avere accesso alle vite degli altri. Un lavoro che solleva questioni etiche che lo stesso protagonista inizia a porsi. Un lavoro che lo condurrà dentro a un qualcosa di più grande di lui prima che se ne possa accorgere. Questo è un romanzo dove il confine tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che sbagliato, non è così netto.

“Di fatto si sapeva che i pensieri e i ricordi sono il risultato di un mutamento del nostro DNA. Se annusiamo o tocchiamo un oggetto il nostro cervello memorizza le informazioni ricevute e lo fa modificando un certo numero di neuroni in modo da fornirci una memoria di quell’oggetto. E i neuroni contengono DNA. E’ su questo che si basa poi la digitalizzazione dei ricordi.” In cosa consistono il download e l’upload dei ricordi?

La digitalizzazione e quindi lo scarico e la conservazione dei ricordi è qualcosa di ancora lontano, ma non quanto si potrebbe pensare. Il DNA, e i nostri neuroni contengono DNA, può contenere dati digitalizzati e pure tanti. Lo stato dell’arte è che in un solo grammo di DNA (sintetico, realizzato il laboratorio, ma tecnicamente potrebbe essere anche quello umano o animale) si possono archiviare fino a 700 tera byte di dati digitali, ovvero 700mila giga. Non solo, questi dati possono durare per migliaia di anni. Nessun hard disk si avvicina neanche lontanamente a questo potenziale. Il “ponte” tra dati digitali e essere viventi è stato gettato, con quali prospettive future, beh, è forse il caso che iniziamo a pensarci.

L’inviolabilità della memoria suscita riflessioni di natura etica?

Direi proprio di sì. I ricordi sono la sfera più intima della nostra identità, violata quella sfera possiamo solo andare incontro agli scenari immaginati da Orwell in 1984, dove la psicopolizia ti può leggere nel pensiero e il libero arbitrio cessa di avere qualsiasi importanza. Già adesso l’intelligenza artificiale sta condizionando le nostre scelte e le nostre vite: ogni volta che facciamo una ricerca su Google in qualche modo diamo informazioni preziose sui nostri interessi e desideri. Ormai da anni lasciamo ovunque tracce digitali della nostra vita (viaggi, acquisti, visite mediche e ricoveri…) e anche questi sono ricordi di cui facilmente perdiamo il controllo e di cui qualcuno potrebbe approfittare.

 

Lorenzo Sartori è anche autore di diversi giochi di simulazione, storici e fantascientifici, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue e apprezzati in tutto il mondo. Si occupa anche di organizzazione di eventi sia di carattere ludico che letterario. È direttore artistico del f estival letterario Inchiostro (www.festivalinchiostro.it) e della rassegna DeGenere (http://degenere-storie.blogspot.com). In ambito letterario ha pubblicato le seguenti opere: Home Run (Sad Dog Project 2015, racconto lungo, fantascienza); Sonata per violino (Sad Dog Project 2016, racconto lungo, noir paranormale); Michael Farner (Nativi Digitali Edizioni, 2016, romanzo breve, noir surreale);L’ombra del primo re (Gainsworth Publishing, 2017, romanzo, fantasy);Alieni a Crema (Plesio Editore, 2018, romanzo, fantascienza).

 Giuseppina Capone

Whitney Houston: I Will Always Love You supera 1 miliardo di views

 Un successo senza tempo per la terza volta disco di diamante.

Il fulminante debutto con l’omonimo “Whitney Houston” del 1985, la portò in vetta alle classifiche mondiali, grazie a brani memorabili come “Saving All My Love for You”, “How Will I Know” e la cover di “Greatest Love of All”. La cantante statunitense ottenne lo stesso successo internazionale due anni dopo con il suo secondo album, pubblicato il 2 giugno 1987 dall’ Arista Records. L’album “Whitney” conteneva ben cinque canzoni capaci di raggiungere la Top Ten Usa. “I Wanna Dance with Somebody (Who Loves Me)”, “Didn’t We Almost Have It All”, “So Emotional” e “Where Do Broken Hearts Go”. I primi quattro singoli, raggiunsero il primo posto nella Billboard Hot 100, un record assoluto che ha fatto dell’ interprete, la prima artista donna a realizzare questa impresa. “Whitney” comprendeva anche “Love Will Save the Day”, l’unico singolo dell’album non trainato da un videoclip, fondamentale all’apice dell’era di MTV, capace di raggiungere lo stesso la top ten. Il perdurare della popolarità di colei che la presentatrice Oprah Winfrey ribattezzò “The Voice” è stato confermato nei giorni scorsi, quando il video di “I Will Always Love You” ha raggiunto il miliardo di visualizzazioni su YouTube. Garth Brooks, cantante country statunitense, detiene il record per il maggior numero di album certificati come diamanti, ben nove. Altri con tre o più album che hanno raggiunto lo status di diamante sono i Beatles, i Led Zeppelin, Shania Twain e gli Eagles. Non si tratta del primo brano capace di raggiungere questo straordinario traguardo. La gran parte dei pezzi che ci sono riusciti sono più recenti hit e tormentoni degli anni Duemila. Ma anche qualche brano storico ha già raggiunto tale successo, come ad esempio Bohemian Rhapsody, prima canzone degli anni Settanta a superare il miliardo di views.

Anche dopo la morte Whitney Houston continua a fare storia, per la terza volta un suo album è disco di diamante. Questa volta si tratta di ‘Whitney’ (1987). Lo status di diamante equivale a dieci milioni di album venduti. Lo stesso status era stato ottenuto da ‘Whitney Houston’ (1985) e ‘Bodyguard’ (1992). E’ la prima volta che un’artista afro-americana raggiunte un tale primato.

Nicola Massaro

Giacomo Balzano: Il vuoto dentro

Giacomo Balzano, psicanalista di orientamento adleriano. Fra le sue opere ricordiamo: Disagio Giovanile: storie di cambiamenti, Giovani del Terzo Millennio (volume che ha vinto nel 2006 il Premio Internazionale di saggistica “Città delle Rose”), I nuovi mali dell’anima, Oltre il disagio giovanile. Per Besa editrice ha pubblicato il romanzo Alessia e le sue tenebre (2011) e il saggio Alfred Adler e lo scisma della psicoanalisi (2014).

Può definire le peculiarità del senso di vuoto ed i modi più frequenti in cui si tenta di colmarlo nella scansione del proprio percorso umano ed esistenziale?

Il senso di vuoto è un vissuto di mancanza, di assenza affettiva che spinge il bambino (la personalità di un individuo si forma nei primi 5 anni) a rincorrere abnormi compensazioni per colmarlo e contenere le angosce associate. Queste compensazioni sono centrate sull’assunzione di condotte di stampo narcisistico che inseguono un’ipocritica grandezza. E il modello di Narciso, connota l’attuale spirito dei tempi e influenza la formazione e gli ideali perseguiti dalla persona.

Il disagio giovanile nella fase adolescenziale è il tema che affronta. Chi sono gli interessati?

L’OMS (L’Organizzazione Mondiale della Sanità) in un suo studio del 2008 aveva affermato che nel 2020 i Disturbi in Età Evolutiva, sarebbero stati la prima causa di morte e disabilità. Ed è ciò che sta accadendo. Il disagio nei bambini, nei preadolescenti e negli adolescenti sta diventando una vera e propria epidemia psicosociale. Un dato su tutti forse può illustrare la situazione: in Italia ogni anno si tolgono la vita 3.000 giovani dai 15 ai 25 anni, mentre gli incidenti stradali (spesso suicidi mascherati) sono la prima causa di morte in adolescenti e giovani adulti.

Lei è uno psicoanalista ad orientamento adleriano. Per i non addetti ai lavori, quali peculiarità riserva siffatta propensione rispetto a temi come prevenzione della devianza minorile e della dispersione scolastica, l’educazione alla salute, l’educazione affettiva e la formazione dei genitori e degli insegnanti?

Alfred Adler è stato il primo apostata della psicoanalisi (dopo aver collaborato con Freud per nove anni) e il primo analista a fondare un’autonoma scuola denominata “Psicologia Individuale”. E’ stato l’iniziatore del filone socio-culturale della psicanalisi ed ispirato l’opera di Fromm, Sullivan, Horney ecc. Tra i suoi allievi troviamo Victor Frankl il creatore della logoterapia mentre anche Karl Popper, che prima di diventare il famoso filosofo della scienza era uno stimato psicopedagogo, seguì il lavoro innovativo di Adler presso le scuole della Vienna socialdemocratica degli anni ’20. In quell’epoca, il governo della città diede proprio il compito all’analista viennese di riformare la Scuola. Adler e i suoi allievi si applicarono con abnegazione a questo lavoro e istituirono i primi consultori per i bambini problematici, tennero corsi di formazione per genitori e insegnanti, istituirono la figura dello psicologo presso gli asili e le scuole di ogni grado e crearono anche una scuola sperimentale che operava secondo i principi del cooperative learning. Tutte iniziative, come possiamo osservare, ancora attualissime.

La cronaca segnala, soventemente, episodi di inaccettabile violenza compiuta da o tra giovanissimi. Possono la brutalità, la sopraffazione, l’abuso essere percepiti dagli adolescenti come curativi rispetto all’indicibile dolore provato?

Il bullismo e le condotte eterolesive sono spesso un modo distorto del giovane di cercare valorizzazioni, dopo aver sperimentato insuccessi nel perseguire mete affermative più utili e socializzate. Sono quindi compensazioni fittiziamente curative, in quanto prevedono distanza affettiva dall’Altro (e il barometro della normalità è la capacità della persona di strutturare legami compartecipativi nel proprio contesto comunitario) e l’indurimento “dell’anima”. Di contro, le ansie e i sensi di inadeguatezza, che in ultima analisi hanno determinato lo stile “brutale”, non sono adeguatamente riconosciute e risolte dalla persona.

Terapista e giovane paziente, intelligente, precocemente classicista; ambedue pongono in discussione le proprie granitiche certezze. Può esemplificare i tratti del loro rapporto?

Ogni rapporto analitico efficace dovrebbe vertere sulla costruzione di una creativa relazione empatica così che l’analista “Vede con gli occhi del paziente, ascolta con le sue orecchie, vibra con il suo cuore”. Ciò che ho cercato di riportare nel romanzo. In ciò seguendo anche i dettami dal celebre poeta Walt Withman: “Non chiedo ad una persona ferita come si sente, io stesso divento la persona ferita”. Concetti simili a quelli alderiani che guidano il lavoro degli analisti di questa scuola e che hanno diretto anche la scrittura del mio romanzo.

Giuseppina Capone

Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi

Michele Di Gerio, laureato in Medicina Veterinaria ed in Conservazione dei Beni Culturali -indirizzo Archeologico, area Classica, ha effettuato presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ricerche su reperti ossei di specie animali da reddito rinvenuti negli scavi di Pompei. Ha condotto studi sugli strumenti chirurgici ritrovati negli scavi di Ercolano e Pompei. Nell’ambito delle ricerche riguardanti la figura del medico romano ha effettuato studi sulla pittura ‘Enea ferito’, rinvenuta negli scavi di Pompei. Col Dipartimento di Archeologia dell’Università di Colonia ha condotto ricerche su reperti ossei di specie animali e resti di molluschi del II-III secolo d.C. rinvenuti nelle ‘Terme romane’ di Baia. Presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” sta conducendo indagini su reperti ossei e dentali di cane rinvenuti negli scavi di Pompei. Le sue ricerche sono state pubblicate da Rivista di Studi Pompeiani e KuBA, rivista scientifica dei Dipartimenti di Archeologia delle Università di Colonia e Bonn. Tiene lezioni di Archeozoologia presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha pubblicato tre saggi: La pesca nel Mediterraneo antico. I popoli, le specie acquatiche e l’economia (Guida Editori) nel 2016, Il cane nell’arte pompeiana (Valtrend Editore) nel 2017 e Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi (Guida Editori) nel 2019.

Le fonti che adopera sono le opere di autori di lingua greca e latina. Può indicarci la metodologia che ha adottato per orientarsi in un ambito tanto arduo ancorché insolito come il coniugare l’archeologia ed il mondo animale?

Poiché gli animali sono presenti in pitture, mosaici, bassorilievi e statue, è necessario, in un moderno contesto di ricerca archeologica, un loro studio approfondito che oltre a fornire dati anatomici, fisiologici, patologici e zootecnici, possa anche dare informazioni sul ruolo occupato nell’antichità in ambito sociale, economico e religioso. Per utilizzare le fonti classiche è stata necessaria da parte mia una buona conoscenza del contenuto delle opere di lingua greca e latina dove è presente la figura animale in ogni suo aspetto. Per il mio libro, Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi, ho consultato ventidue opere in lingua greca e ventisei in lingua latina. In alcune di esse le specie animali sono trattate ampiamente, ad esempio La caccia di Senofonte si occupa del cane da caccia con una serie di informazioni riguardanti l’addestramento, l’allevamento, l’alimentazione e l’accoppiamento mentre la Storia Naturale di Plinio il Vecchio, descrive molte specie animali, suddividendole in ‘terrestri’ e ‘acquatiche’, ed evidenziando gli aspetti biologici, economici e sociali, infine La natura degli animali, di Claudio Eliano è dedicata a tantissime specie, selvatiche e domestiche, la cui esposizione è simile a quella pliniana. Potrei citare altre opere dove l’animale è ampiamente trattato. Invece, in altre produzioni letterarie gli autori dedicano poco spazio agli animali anche se le informazioni fornite sono preziose. Per esempio, vorrei ricordare Le Metamorfosi di Apuleio dove è descritto l’asino utilizzato come forza-lavoro per azionare le macine del grano.

L’allevamento è una pratica intrapresa nel Neolitico. Quanto è stata determinante per il cambiamento della storia dell’uomo e, nella fattispecie, per le popolazioni affacciantesi sul Mediterraneo?

Prima dell’allevamento ci fu la domesticazione degli animali. I popoli primitivi giunsero alla domesticazione delle prime specie animali dopo moltissimo tempo perché il passaggio dalla pura e semplice cattura, espressa con la caccia, sino alla definitiva domesticazione, fu lenta e graduale. Con la domesticazione, l’animale abbandonò forzatamente le abitudini tipiche dello stato selvatico, integrando il proprio comportamento con quello dell’uomo. Fra le migliaia di specie di mammiferi esistenti, soltanto ben poche sono cadute sotto il dominio dell’uomo. Con la domesticazione l’animale fu allevato e utilizzato per la produzione di generi alimentari, utensili e come forza-lavoro nel settore agricolo. L’addomesticazione degli animali e il loro allevamento, insieme alla mietitura del grano selvatico e poi alla sua coltivazione, ebbero conseguenze sociali, come è facilmente immaginabile, di portata vastissima non soltanto sulle popolazioni del Mediterraneo antico ma anche nelle aree dell’entroterra orientale. Aumentando la quantità di cibo disponibile e legando contemporaneamente le comunità alle zone di produzione dello stesso cibo si registrò un costante incremento della popolazione. Questo processo, che segna il passaggio dal Mesolitico al Neolitico, fu definito ‘Rivoluzione Neolitica’ dal paletnologo inglese Vere Gordon Childe il cui segno più appariscente è la nascita del ‘villaggio’. Il carattere ‘rivoluzionario’ del passaggio è caratterizzato da una relativa rapidità e da un completo capovolgimento (si passa dal procacciamento alla produzione), con conseguenze culturali e demografiche enormi.

Può esemplificare il rapporto tra uomo ed animali domestici, ad esempio con gli animali d’affezione?

Con gli animali domestici da reddito l’uomo, sin dall’antichità, ha instaurato un rapporto soltanto per fini economici, che si è protratto senza alcun mutamento, sino in epoca moderna. Del bovino domestico utilizza il latte e le carni; del maiale, le carni e le setole, delle pecore, il latte e il vello; delle capre, il latte e le carni. Il cane e il gatto, invece, sono animali domestici d’affezione che dopo migliaia di anni, in modo diverso fra loro, si sono integrati nel nucleo familiare. Il gatto è presente nelle abitazioni ma continua ad assumere, rispetto al cane, un atteggiamento indipendente e austero. Il cane, invece, è completamente dipendente dall’uomo. Come in epoca antica continua ad assolvere compiti ben specifici: per la caccia, la compagnia e in alcune aree rurali è ancora impiegato per la guardia alla casa o delle pecore al pascolo. Vorrei ricordare che il particolare collare di epoca romana detto melium da Varrone, costituito da una striscia di cuoio dove erano posti dei chiodi protesi con la punta verso l’esterno, per proteggere il collo dei cani a guardia delle greggi di pecore dai morsi famelici dei lupi, è stato utilizzato, con la stessa funzione, sino a poco tempo fa dai pastori appenninici.

In qual misura gli animali hanno costituito nell’antichità classica una fonte di reddito?

In misura rilevante perché il settore zootecnico, insieme a quello agricolo, costituiva una notevole fonte di reddito. Riferito ai primi secoli della storia di Roma l’allevamento animale era largamente praticato da piccoli allevatori, con poche decine di animali, solitamente di una stessa specie. Dal 202 a.C., anno della disfatta annibalica, si assiste alla trasformazione delle fattorie di epoca medio-repubblicana in villae grazie al flusso di nuovi capitali e a un elevato di numero di schiavi impiegati come forza-lavoro. Nella villa, che occupa una certa centralità nell’economia romana, diviene fiorente non soltanto l’attività agricola ma anche l’allevamento animale. In tale struttura vengono allevate molte centinaia di animali da reddito di diversa specie. Imperatori, personaggi della politica o anche diversi letterati, tra questi Orazio, erano proprietari di villae che garantivano ricchezza. Ma anche nei piccoli centri o nelle aree periferiche dell’impero, i politici e i personaggi dell’aristocrazia locale erano proprietari di villae. Catone il Censore, Varrone e Columella nelle loro opere descrivono, oltre al settore agricolo, anche l’allevamento animale con interessanti informazioni zootecniche e medico veterinarie ampiamente utilizzate da me e da altri studiosi nel corso delle nostre ricerche.

I popoli antichi hanno attribuito un valore sacro agli animali, reputandoli imperscrutabili e divini. Ci offrirebbe qualche scenario curioso?

Mi sembra curioso, ma di importanza sociale, un fatto riguardante la sacralità del gatto nell’antico Egitto. Erodoto fu il primo autore ad interessarsi in modo approfondito al culto del gatto ed alla dea Bastet. Secondo la narrazione dello storiografo chiunque uccideva volontariamente un gatto veniva messo a morte, se invece, involontariamente pagava una multa imposta dai sacerdoti. Diodoro Siculo conferma e rafforza l’informazione di Erodoto. Infatti, dall’autore sappiamo che chiunque avesse ucciso involontariamente o volontariamente, un gatto o un ibis, era condannato a morte. Egli fu testimone di un singolare evento. Un membro della delegazione romana in visita in Egitto uccise accidentalmente un gatto, e secondo le leggi vigenti non fu possibile alcun sconto della pena capitale neanche se l’avesse voluto il re in persona. Ma spesso era il popolo ad uccidere il colpevole senza aspettare alcuna sentenza. La folla accorse presso la casa del membro della delegazione romana per ucciderlo ma i magistrati, mandati dal re, ebbero il potere di sottrarre l’uomo alla terribile punizione popolare. Egli, comunque, non fu ucciso neanche successivamente.

Giuseppina Capone

Lunga è la notte

Marinette Pendola fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Finzi, 2005), “Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità” (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche “La riva lontana” (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato “La traversata del deserto” (2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, e “L’erba di vento” (2016), storia potente di una donna che non si sottomette alla convenzioni del suo tempo.

La Tunisia rimane elemento focale delle sue ricerche e della sua narrazione, un punto di vista interessante, giacché lei è nata da genitori siciliani. Quali caratteristiche assume questa sorta di migrazione alla rovescia dal punto di vista della “mescolanza” e dell’integrazione?

Sono nata da genitori di origine siciliana a loro volta nati in Tunisia. Appartengo alla terza generazione nata in Tunisia. Perciò il paese nordafricano non è solo il mio paese di nascita ma quello in cui la mia famiglia si è profondamente radicata. E dover lasciare quella che consideravamo la nostra terra ha rappresentato un trauma notevole, uno sradicamento da cui molti non si sono mai ripresi. Poiché la mia infanzia e parte dell’adolescenza sono trascorse là, sono impregnata dalla cultura locale, in primis la capacità di convivere con culture diverse, l’accettazione dell’altro, la tolleranza. Difficile è stato inserirsi, per l’ignoranza della lingua, dei costumi locali, per la diffidenza nei nostri confronti. Tuttavia, negli italiani degli anni Sessanta del Novecento, periodo del nostro arrivo, la curiosità ha sempre prevalso sul rifiuto. Il che non mi pare che avvenga adesso. Ecco perché l’Italia di oggi, in cui emergono razzismi e sguaiatezze, non mi appartiene: non la riconosco, non la so capire.

Lei affonda la penna in una comunità stigmatizzata, portatrice di stereotipi e clichè. Le granitiche convinzioni possono scricchiolare?

L’ambiente che ho conosciuto nella prima infanzia era coloniale, socialmente ben strutturato. In alto stavano i colonizzatori, in altre parole i francesi, in basso i colonizzati, cioè i tunisini. In mezzo c’erano gli italiani, né colonizzatori né colonizzati, semplicemente emigrati in un momento storico in cui i francesi avevano bisogno di molta manodopera per costruire tutte quelle infrastrutture di cui il paese aveva necessità, e l’Italia aveva un eccesso di manodopera a cui non era in grado di dare lavoro. E gli italiani erano trattati da migranti, erano oggetto di stereotipi e cliché esattamente come lo sono oggi coloro che arrivano nel nostro paese. Nel mio romanzo “Lunga è la notte”, appare un piccolo campionario di questi stereotipi. Con il tempo e la conoscenza dell’altro, questi cliché possono essere scalfiti. Io faccio la mia parte. So perfettamente che è solo una goccia d’acqua in un oceano. Ma sono ottimista, gutta cavat lapidem.

Il suo romanzo narra di un femminicidio. Quanto ha attinto dalla cosiddetta cronaca nera?

Non ho attinto dalla cronaca nera. Questa storia, realmente accaduta, mi è stata raccontata da un testimone oculare. La vicenda risale agli inizi degli anni Trenta. Ho volutamente creato tutti i personaggi (nessuno di loro, ad eccezione del prete, è realmente esistito) poiché la vicenda è ancora viva nella memoria dei discendenti. Del resto l’ho chiarito nella Premessa.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del noir. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

È vero, il mio romanzo è farcito degli ingredienti tipici del noir. Ma non lo è. L’obiettivo di tutto il romanzo non è trovare il colpevole, ma ritrovare la memoria, mettere il protagonista di fronte al trauma rimosso e permettergli (forse) di uscire dalla gabbia in cui volutamente si è chiuso. La domanda che mi sono posta sin dall’inizio della stesura è stata: cosa succede alle vittime, a coloro che sopravvivono a una tragedia simile? L’obiettivo del romanzo è stato cercare di dare una risposta.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

La memoria di Mimmo, il protagonista, è “involontaria”, come direbbe Proust. Sono attimi del suo passato che riemergono all’improvviso sconvolgendo il presente, ma non portano mai a una epifania. La sua è una vita senza memoria, dunque senza qualità. Il passato nutre il presente, esattamente come l’albero che ha bisogno di radici profonde per nutrire la chioma. Più profonde sono le sue radici, più avrà la possibilità di trovare acqua e nutrienti, tanto più folta e vitale sarà la sua chioma. La memoria è fondamentale nella mia produzione. Lavorare ancorata a questo tema mi ha permesso innanzitutto di rivelarmi a me stessa, di prendere coscienza della mia identità e comporne armoniosamente i tasselli in modo da formare un mosaico unico. Il mio obiettivo però non è quello di lasciare una testimonianza di me (che forse potrebbe interessare i miei nipoti e nessun altro), quanto di fare emergere un’intera comunità dimenticata dalla storia, e dare voce a chi non l’ha, non l’ha mai avuta poiché appartiene alla fascia più umile di quella collettività. In fin dei conti mi piacerebbe che questa mia testimonianza contribuisse alla costruzione di una storia alternativa, che includesse tutte quelle Italie fuori dall’Italia. Non so, di fatto, se il mio lavoro sarà utile in questo senso. So per certo che lo è per tutti coloro che hanno vissuto la mia stessa esperienza poiché ha permesso loro di prendere coscienza della propria identità individuale, ma anche e soprattutto di sentirsi in qualche modo riconosciuti sul piano sociale e culturale.

Giuseppina Capone

Gucci ha rotto il vecchio canone della bellezza

“Penso che il mio aspetto abbia un impatto su molte persone, non capisco perché scateno una reazione così grande da parte di tutti, stanno solo cercando una faccia interessante”.

Sembra che Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, sia riuscito a distruggere lo stereotipo di bellezza che per secoli ha condizionato generazioni di donne nel credere che la vera bellezza sia quella di essere perfette esteticamente.  “L’originale” volto della nuova modella, però, pur essendo stato un distruttore di luoghi comuni, è diventato argomento di dibattito facendo scaturire diverse critiche sui social: parole crudeli, insulti, ingiurie, veri e propri atti di bullismo nei confronti di Armine Harutyunyan. Armine viene da Erevan, la capitale dell’Armenia, ha 23 anni ed è un illustratrice e graphic designer.

“Le persone sono spaventate da quello che è diverso. Non posso impedire loro di sparlare ma io posso ignorarle. Ci sono molti modi diversi di essere belli: consiglio di concentrarsi su di sé, su chi si è e su cosa si ama davvero. Credo inoltre che molte donne pensino spesso al loro aspetto e a dirla tutta ho pensato più volte di ricorrere a qualche chirurgia ma col tempo ho imparato ad accettarmi così come sono. Crescendo impari a capire te stesso e ad amarti”.

Parla così Armine durante un’intervista. Il suo tono di voce è sereno e le sue parole non fanno altro che dimostrare la sua sicurezza non solo per il suo aspetto estetico, pur ammettendo di aver faticato per arrivare ad accettare e ad apprezzare ad oggi il suo volto e il suo corpo, dopo aver pensato anche di ricorrere alla chirurgia, ma anche e soprattutto per la forte autostima che possiede in quanto consapevole di ciò che vale al di là del suo volto. La sua serenità d’animo e la sua mente intelligente vale molto di più di qualsiasi corpo o viso “perfetto” perché è questo che fa di sé una persona attraente.

Reagisce, dunque, con diplomazia e serenità Armine alle numerose critiche sui social da parte di chi ancora non accetta  un canone di bellezza differente da quello che impone la società, da chi vede la bellezza ancora solo nella perfezione estetica e non riesce a valutarla  personalmente se non attraverso gli occhi di tutti.

La vera bellezza sta soprattutto nel fascino di una persona, non solo nella forma o nel colore degli occhi, quanto nella profondità di uno sguardo. La vera bellezza in una donna non sta nella forma delle sue labbra ma nell’espressione intelligente che assume il suo volto. Non sta nel corpo perfetto ma nel portamento, nell’eleganza che assume quando lo muove. La vera bellezza è dentro di noi e nel come siamo capaci di esternarla.

Anche se una modella non ha lo stesso volto di tutte le altre, il suo garbo e lo sguardo intelligente fa diventare il capo che indossa più interessante. Perché una mente interessante rende tutto più affascinante e attraente.

Alessandra Federico

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