Kenzo Takada: il primo stilista orientale in Occidente

Lo stilista giapponese che ha unito la moda Orientale  con quella Occidentale.

“Non aveva senso che facessi anche io quello che facevano gli stilisti francesi, non sapevo neanche farlo. Così mi misi a disegnare vestiti in modo diverso, usando i tessuti dei kimono e fonti di ispirazioni diverse”.

Kenzo Takada è morto domenica 4 ottobre all’età di ottantuno anni, in un ospedale di Parigi dove era ricoverato a causa del Coronavirus. Kenzo, è stato il primo stilista giapponese a recarsi a Parigi nel 1964 , conquistando  immediatamente, con le sue creazioni folcloristiche e vivaci, una vasta clientela di giovani: la moda di quel momento stava subendo un grande cambiamento e Kenzo era entusiasta di voler far parte di quella grande rivoluzione della moda.

Il talentuoso stilista contribuì alla liberazione dalla rigida forma dell’haute couture inserendo il prêt-à-porter: abiti pratici dai colori vivaci e floreali. Kenzo presentava, durante le sue sfilate di moda, le sue meravigliose creazioni indossate da graziose modelle in groppa a un elefante. Lo stilista adottò il semplice taglio del kimono della sua patria combinandolo anche con elementi sudamericani, orientali e scandinavi. Ancora oggi mostra questa caratteristica nelle sue griffe. Kenzo era uno degli stilisti con maggiore inventiva, fantasia e soprattutto dotato di una grande volontà, nel 2012, presentò le sue collezioni un mese prima rispetto a tutti gli altri stilisti di moda. Oltre al prêt-à-porter femminile, creò anche una nuova linea per uomo e per bambino.

Kenzo Takada nacque a Himeji, vicino Osaka, il ventisette febbraio 1939 ed è stato uno dei primi studenti uomo a frequentare l’accademia di moda di Bunka, a Tokyo. La sua carriera fu rapida e in ascesa: vinse nel 1960 il premio Soen per nuovi stilisti emergenti. Nei grandi magazzini Sanai, Kenzo iniziò a lavorare disegnando abiti per ragazze fino a quando i lavori per le Olimpiadi nel 1964 cambiarono la sua vita:  la sua casa venne distrutta per costruire nuovi progetti e grazie al risarcimento donatogli, approfittò per fare un viaggio in barca da Hong Kong, Singapore, Mumbai fino alla Francia dove affittò una casa  Parigi, e dove iniziò a vendere bozzetti di abiti agli stilisti di alta moda.  Nel 1970 aprì una piccola boutique, “Jungle Jap”, con pareti floreali dipinte da lui perché il suo desiderio era fondere le sue due passioni : la giungla e il Giappone.

Verso il successo

Nel 1971 la rivista di moda Elle pubblicò in prima pagina uno dei suoi lavori e alla sfilata organizzata nella sua boutique andarono giornalisti da tutto il mondo. Kenzo non possedeva abbastanza danaro, era quindi  costretto a cucire insieme le stoffe comprate a Parigi e quelle portate da lui dal Giappone creando così una linea al quanto originale. Introdusse, nel 1983, anche l’abbigliamento maschile, nel 1986 una linea di jeans e nel 1988 profumi e l’arredamento. Nel 1990 morì il suo compagno e socio in affari Xavier.  Per questo triste motivo, Kenzo, nel 1993 vendette la sua azienda per 80 milioni di dollari a LVMH, il più grande gruppo del lusso francese di proprietà di Bernard Arnault, che comprende anche Christian Dior, Louis Vuitton, Fendi e Celine. Nel 1999 si ritirò dal mondo della moda. Continuò a disegnare costumi per l’opera e le uniformi della squadra olimpica giapponese del 2004 anche dopo aver lasciato l’azienda. Si dedicò  completamente all’arredamento e fondò il marchio K3 nel 2020.  Con il suo lavoro, Kenzo ha aperto la strada per Parigi ad altri stilisti giapponesi, come Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto.

Lo ricorderemo per i suoi originali abiti colorati, che trasmettevano un senso di libertà per il corpo della donna. Kenzo rimarrà per sempre il creatore di abiti “felici”.

Alessandra Federico

Sorelle Fontana:  le prime donne che hanno cambiato la moda italiana

 Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. Il modo di vestire è da sempre stato utilizzato per comunicare anche altri significati che sono cambiati a seconda delle culture, delle situazioni e delle scelte individuali. La moda è stata, a partire dal medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità.  Negli smodati anni 80’, ad  esempio, il Made in Italy fu uno stile innovativo e stravagante. Al termine degli anni 70’ il pret-a-porter italiano debuttò e Milano che in breve tempo assunse un ruolo catalizzatore di tendenza e di stili moderni.  Ma torniamo per un attimo alle origini, le prime stiliste della moda italiana risalgono agli anni 30’: le sorelle Fontana hanno fondato il primo atelier di moda in Italia.

Le sorelle Fontana

“Da grande realizzerò davvero un abito per una principessa”. Presto le parole di Micol Fontana (seconda delle tre sorelle stiliste) si realizzarono. La casa di moda della famiglia Fontana fu fondata a Parma nel 1907. Una volta diventate adulte, le tre sorelle romagnole,  Zoe, Micol e Giovanna, si trasferirono a Roma dove inizialmente furono costrette a lavorare in una sartoria guadagnando il minimo indispensabile per sopravvivere, fino a quando il loro  datore di lavoro si accorse della straordinaria dote di Micol e le affidò il compito di confezionare gli abiti da sera per la cliente più prestigiosa della boutique. Durante la Seconda Guerra Mondiale, con tanta audacia e determinazione riuscirono a realizzare il loro sogno: un atelier tutto loro dove poter creare abiti e organizzare sfilate di moda.

Nel 1958 l’atelier si trasferì a piazza di Spagna dove realizzarono la prima sfilata di moda sulle scale della maestosa piazza. Riuscirono, inoltre, a conquistare la aristocrazia italiana e le celebrità del cinema internazionale. Nel 1949 realizzarono l’abito di nozze per Linda Christian e la stampa internazionale non parlava d’altro. Da allora il Jet- Set di Hollywood si rivolgeva solo alla casa di moda italiana Fontana. Anche Liz Taylor, Ingrid Bergman e Ursula Andress vestivano abiti Fontana. La loro cliente fedele era Ava Garden, che, oltre al guardaroba, chiese loro di realizzare per lei anche abiti di scena tra cui uno  per il film “La contessa scalza”.  Tra le tre sorelle Micol era quella più determinata, aveva grandi sogni, progetti e ambizioni.

Il sogno di Micol

Oltre alle star di Hollywood, le creazioni delle sorelle Fontana erano molto apprezzate anche dalle nobiltà. La principessa Maria Pia di Savoia commissionò loro il suo abito nuziale poiché entusiasta della modifica al suo prezioso abito di cui se ne occupò proprio Micol. Non solo,  nel 48’ la celebre attrice di Hollywood, Myrna Loy acquista dalle Fontana il completo guardaroba per il film “ Il caso di lady Brook”.  Le Fontana iniziarono così a puntare sul mercato americano: Micol Fontana cominciò una serie di viaggi oltre oceano in seguito alle tante richieste per conto di grandi celebrità americane. L’audace Micol, si sposò due volte, il primo marito si rivelò fannullone interessato solo al denaro e ad avere molte donne. Insieme a lui, Micol generò la prima e unica figlia, Maria Paola, deceduta prematuramente per aver contratto il tifo in Calabria. Dopo il tragico avvenimento Micol decise di non voler lavorare più, ma grazie all’aiuto del suo nuovo amore, intraprese un nuovo percorso rinnovando la bottega e confezionando abiti con marchio Sorelle Fontana.  Micol morì il dodici giugno 2015 all’età di centouno anni.

Sorelle Fontana, un marchio che la moda italiana non dimenticherà mai.

Alessandra Federico

La figlia di Shakespeare

Paola Musa, lei costruisce una storia superlativa intorno alla superbia. Può fornircene una definizione contemporanea?

La superbia fa parte dei sette vizi capitali della dottrina morale cattolica, ed è considerato dalla stessa uno dei massimi peccati, giacché espressione della disobbedienza di Lucifero a Dio. Come sostiene sant’Agostino, «il diavolo non è lussurioso né ubriacone: è invece superbo e invidioso». Volendo dare una definizione contemporanea, direi che il superbo è un individuo che idealizza l’immagine di sé che vuole offrire agli altri, è alla continua ricerca di riconoscimento, si rifiuta di di accettare se stesso per come è realmente e quindi di elaborare una trasformazione interiore.

Quali altri peccati e i vizi individua nella società moderna?

Credo si possano trovare tutti, anche se in misura e frequenza differenti. Nel mio lavoro di indagine dei sette vizi capitali, sono partita dall’accidia. Sebbene sia un termine oggi poco usato, conosciamo tutti abbastanza bene l’inerzia, l’indolenza, la depressione. Nell’era tecnologica ci illudiamo spesso di essere protagonisti ma siamo in realtà meri fruitori di strumenti che spesso annichiliscono la nostra autentica volontà. Senz’altro anche la Superbia è molto diffusa. E l’invidia.

Un vecchio attore ed un collega della sua compagnia teatrale giovanile che ne pone in dubbio merito artistico e morale. Il gap generazionale attuale possiede caratteristiche peculiari?

Nel mio romanzo “La figlia di Shakespeare” (Arkadia editore) il protagonista (Alfredo Destrè) incarna la superbia nel contesto dell’ambiente teatrale. Trovavo interessante descrivere una persona che nel profondo teme la mediocrità e respinge con forza il suo passato e per tutta la vita altro non desidera che essere riconosciuto come grande attore Shakespeariano. Eppure , dalle sue opere sembra che Alfredo non abbia appreso niente, o quasi. Il suo vecchio collega, non a caso da sempre interprete del fool, ha la funzione di ribaltare tutto, di smascherarlo. Il romanzo comunque affronta anche altre tematiche, come ad esempio il conflitto generazionale. E’ mia opinione che spesso gli anziani che hanno già ottenuto riconoscimenti e successo, non lascino spazio ai più giovani. Tendono ad essere conservatori, nel senso letterale e ed egoistico di voler conservare tutto il loro potere.

Il protagonista del suo romanzo accetta di risollevare le sorti del più importante teatro della città, riscuotendo successo di critica e di pubblico. La sua è una riflessione relativa alla dilagante e spavalda decadenza culturale?

Nel romanzo affronto anche il problema di un’epoca incapace spesso di produrre arte di alto livello. Perché il settore della cultura è costretta troppo spesso a fare compromessi al ribasso, è alla continua e ossessiva di ricerca di consenso, di gradimento da parte dei media. Svilisce così il proprio potenziale, rinuncia al lungo e tortuoso percorso della grandezza per un risultato immediato, oppure sfrutta e strumentalizza ciò che è già conosciuto e facilmente riconoscibile, fagocitandolo.

Lei non fa sconti ai suoi personaggi: li penetra con una lama tagliente. Intende veicolare messaggi etici o morali?

Sì, è vero: cerco di scandagliare ogni aspetto della loro psicologia, ma in questo caso si tratta anche una necessità narrativa, perché prendendo come spunto un vizio capitale, il racconto ha la dimensione di una metafora delle varie debolezze umane. Tuttavia non mi pongo mai in una posizione di giudizio. In parte il messaggio etico è invece intrinseco all’argomento che tratto.

 

Paola Musa è una scrittrice, traduttrice, poetessa, vive a Roma. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito poetico. Collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai insieme a Stefano Di Battista e Dario Rosciglione. Per il teatro ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano Di Battista) e La dodicesima notte di William Shakespeare (per la regia di Armando Pugliese, sulla musica di Ludovico Einaudi). Ha scritto con Tiziana Sensi la versione teatrale del suo romanzo Condominio occidentale, portato in scena da attori vedenti e ipovedenti in importanti teatri romani, e al Festival internazionale Babel Fast di Targoviste (Romania). Lo spettacolo ha ottenuto la medaglia dal Presidente della Repubblica e la menzione speciale per il teatro al “Premio Anima”. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice), selezionato al Festival du Premier Roman de Chambéry e al “Premio Primo Romanzo Città di Cuneo”. Condominio occidentale è diventato un tv movie per Rai 1 con il titolo Una casa nel cuore e con protagonista Cristiana Capotondi (2015). Nel giugno 2009 è uscito il romanzo Il terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice) e nel marzo 2012 la sua prima raccolta di poesie Ore venti e trenta (Albeggi edizioni). Con Arkadia ha pubblicato nel 2014 il romanzo Quelli che restano e nel 2016 Go Max Go, biografia romanzata del sassofonista Massimo Urbani. Del febbraio 2019 è il suo romanzo, L’ora meridiana.

 

Giuseppina Capone

Anaffettività: paura di provare emozioni

“Non riuscivo a provare emozioni.  Vivevo la mia vita in modo del tutto razionale e chiunque voleva darmi affetto io lo allontanavo. Quando nasci e cresci in un contesto familiare in cui la felicità è a piccoli sprazzi ti porterai dietro per tutta la vita la convinzione di non poter essere felice perché credi che prima o poi qualcuno te la porterà via.”

Non riuscire a manifestare sentimenti e a provare emozioni è tipicamente un atteggiamento di chi è anaffettivo. L’anaffettività può colpire sia uomini che donne e deriva maggiormente da traumi infantili o adolescenziali. Quando per anni si ha vissuto in situazioni traumatiche la mente tende ad avere, di conseguenza, una percezione distorta delle cose: credere di non riuscire a meritare affetto e di non essere in grado di darne. Pur di non soffrire, le persone anaffettive, si privano degli affetti perché baci, carezze, abbracci  provocano in loro  grande sofferenza perché credono che la felicità sia solo uno stato momentaneo che presto o tardi finirà. Difatti, l’anaffettivo ha bisogno di tante certezze per poter acquisire fiducia ed essere felice perché è terrorizzato dal fatto che prima o poi qualcosa tornerà a farlo soffrire. Per questo motivo sono poco fiduciosi nel prossimo e sono convinti che nessuno farà parte per sempre della loro vita.

Questo accade solitamente quando al soggetto in questione viene di continuo  donato e strappato amore sin dall’età infantile.  L’anaffettività è più comune di quanto si possa pensare.  Le persone che ne soffrono non sono solo quelle evidentemente prive d’amore da dare o che evitano ogni tipo di contatto fisico ma sono soprattutto coloro che sembrano avere apparentemente una relazione d’amore stabile,  ma che in realtà credono di non poter ricevere nè dare  affetto anche se tutto questo avviene “dietro le quinte”. Questo è uno dei motivi per cui alcune persone tendono ad avere più di una relazione contemporaneamente: il terrore di legarsi ad una sola persona implica il fatto di abbandonarsi completamente a essa e questo, per le persone anaffettive, è motivo di sofferenza.  Vivendo invece più di una relazione nello stesso momento evitano ogni tipo di legame e di conseguenza ogni tipo di sofferenza.

Frequentavo diverse donne contemporaneamente perché in questo modo mi convincevo che non ci avrei rimesso il cuore, che non avrei sofferto perché per me concentrarsi solo su una persona significava dare tutto me stesso e quindi vivere di emozioni, e per me vivere di emozioni avrebbe significato dover soffrire ancora”.

Nicola, conosci i motivi per cui sei diventato anaffettivo?

Quando ero bambino i miei genitori mi lasciavano spesso con i miei nonni a causa dei  loro continui viaggi di lavoro e soprattutto di piacere. Ero un bambino molto vivace ma questo causava dei problemi a chi non avrebbe mai voluto avermi. I miei nonni erano presenti  e attenti con me ma io avevo bisogno dei miei genitori.  Il fatto che loro mi abbandonassero di continuo era per me una sofferenza perché credevo di non essere voluto e questo ha causato in me diversi problemi: anaffettività e allo stesso tempo paura dell’abbandono.

Te la senti di raccontare un po’ le tue esperienze a riguardo?

Nell’età adolescenziale vivevo con la paura che ogni persona che conoscevo sia amici che relazioni amorose, potessero un giorno abbandonarmi. Questo ha provocato molte complicazioni nei miei rapporti con le persone perché iniziavo a diventare morboso e naturalmente mi allontanavano. Crescendo, diventando più maturo ho attraversato la fase dell’anaffettività. Mi spiego: dall’essere esageratamente ossessivo, soprattutto nella relazione d’amore, sono passato ad essere completamente freddo e insensibile. Conoscevo ragazze ma non provavo affetto. Poi ho attraversato una terza fase e cioè quella di avere la ragazza fissa ma vivere anche altre relazioni occasionali e questo ha portato maggiore sofferenza per me anche non me ne rendevo conto.

C’è qualcuno che ti ha aiutato a superare tutto questo?

Una delle mie amanti. Lei diceva che ero anaffettivo ma in realtà non mi ero mai veramente soffermato a riflettere sulle sue parole, fino a quando lei decise di lasciarmi perdere. È stato più semplice di quanto si possa pensare perché mi resi conto che le volevo bene  più di qualsiasi altra persona o della mia fidanzata e decisi quindi di risolvere andando da uno psicoterapeuta. Da li a poco venni a conoscenza di tutti i miei problemi e decisi di risolverli.  Capii che avevo paura di essere felice perché da bambino ogni volta che lo ero, quando i miei genitori tornavano e mi portavano anche un regalo, poco dopo ripartivano lasciandomi di nuovo solo. Quindi per me la felicità era solo un avviso alla prossima delusione.

Adesso come vivi le tue relazioni?

Ho scoperto molte cose di me ho buttato fuori tante cose del mio passato che tanto mi facevano soffrire ed elaborarle ha risolto questi problemi che mi sono da sempre portato dietro. Adesso credo che la felicità sia nelle piccole cose ma che vale sempre la pena di vivere ogni emozione che la vita ti regala. Per essere felici ci vuole coraggio.  Per me i miei nonni sono i miei genitori, ho quindi imparato che non bisogna considerarli tali quelli biologici,  perché spesso chi ti mette al mondo poi ti distrugge.

Alessandra Federico

Violenza tra giovani

Una vera  e propria tragedia che ha stravolto l’intera Italia quella della morte del giovane ventunenne trovatosi  coinvolto  in una rissa per voler difendere il suo amico. 

Nella notte tra il 5 e 6 settembre, Willy e gli amici erano di ritorno dalla solita serata al pub di Colleferro, vicino Roma, ma qualcosa avrebbe per sempre cambiato il loro destino. La causa della morte deve essere confermata dall’autopsia poiché non è ancora ben chiaro cosa sia successo, ma secondo quanto riportano i giornali l’omicidio è avvenuto sul retro di un edificio poco distante da una caserma dei carabinieri. Accusati di omicidio preterintenzionale in concorso, aggravato da futili motivi, i 4 ragazzi tra i ventidue e ventisei anni, residenti ad Artena, sono stati arrestati dai carabinieri e sembra che tutti abbiano già dei precedenti penali.

Willy Monteiro Duarte è morto durante il tragitto per arrivare in ospedale. Schiaffi e pugni e sembra che un calcio alla testa sia stato per lui letale. Una lotta durata poco più di 20 minuti per distruggere la vita di Willy e      quella della sua famiglia. “Era come un figlio per me, l’ho cresciuto. Siamo sconvolti.” Le parole della  zia di Willy trasmettono tutta la sofferenza e il dolore che sono costretti a sopportare. Un vuoto che nessuno potrà mai colmare nella sua famiglia.

I genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai propri figli, si dice. Eppure si continuano a sentire vicende catastrofiche di teenager in cui la morte avviene per motivi solitamente futili.

Com’è possibile che le persone vogliano, ancora oggi, risolvere le cose usando la violenza? Ma perché tutta questa rabbia? E che ci sia ancora tanta chiusura mentale da non riuscire a usare la ragione? Queste sono le domande che molti di loro oggi giorno pongono con la speranza di porre fine a tutta questa violenza.

La violenza non si combatte con altra violenza. Si dovrebbe, al contrario, reagire in modo intelligente iniziando dalla base cambiando forma mentis: partire dall’educazione nelle scuole primarie, insegnare ai bambini il rispetto verso il prossimo, prima di ogni cosa. Ancora, la pace e la convivenza con il prossimo, l serenità interiore e come raggiungere i propri obiettivi senza scavalcare nessuno ma riuscendoci soltanto con le proprie forze. Iniziare a cambiare la visione della vita in modo da dare ai giovani una formazione corretta ed una consuetudine di pensiero differente da quella che fino ad oggi si ha avuto, sviluppando in loro maggiore intelligenza emotiva, ovvero, la capacità di razionalizzare le proprie emozioni, potrebbe essere il metodo per ottenere la pace tra le persone e forse un mondo migliore senza violenza. Insegnare a riconoscere le proprie emozioni è di conseguenza un modo per poterle gestire, e quindi auto-controllarsi in determinate situazioni. Ogni anno aumentano i casi di violenza tra giovani e spesso senza un concreto motivo, creando risse per il semplice gusto di sopraffare e prendersela con i più deboli. La maggior parte delle volte, però, questi scatti di ira sono dovuti a conseguenze di atti di violenza subiti a loro volta nell’età infantile: violenza fisica o psicologica, educazione sbagliata dei genitori, esempi sbagliati da parte dei genitori, una probabile situazione disagiata in cui è costretto a vivere nel proprio nucleo familiare. Altre volte, invece, nonostante il ragazzo vivesse in una serena situazione familiare, arriva ugualmente a intraprendere strade sbagliate e pericolose perché ha difficoltà ad inserirsi nella società e a farsi accettare dai compagni, o, ancora, a causa dell’accesso troppo precoce o l’uso frequente dei social media.

Le cause della violenza tra giovani

Ipnotizzarsi avanti ad uno schermo già dall’età infantile può divenire un vero e proprio problema una volta divenuti adulti, perché tutto ciò non fa altro che bloccare lo sviluppo della mente, nello studio, nella conoscenza, nella vita sociale, e nella realizzazione personale. E, faccenda ancora più grave, può far divenire violenti e irascibili. Il motivo per cui un ragazzo intraprende strade sbagliate e ricorre facilmente alla violenza fisica potrebbe essere anche causato dalla frequente visione di video o videogiochi che alimentano odio, rancore, rabbia e di conseguenza  il ragazzo si fa facilmente suggestionare e influenzare in modo negativo perché undici, tredici o sedici  anni, sono troppo pochi per saper distinguere il bene dal male e per assorbire solo il lato positivo o educativo di un videogioco, qualora dovesse esserci. Altri motivi per cui un ragazzo si fa facilmente condizionare da video del genere potrebbe essere dovuto a conseguenze di traumi infantili causati dalla famiglia apparentemente perfetta, e che quindi, raggiunta l’età adolescenziale, può diventare facilmente condizionabile e trascinabile. Ragion per cui diventa facile che possa cercare via d’uscita a questa inconscia sofferenza  e voler sfogare in qualche modo  la rabbia repressa. Sta di fatto che permettere a ragazzi troppo giovani di navigare su internet e utilizzare i social network, video giochi e video violenti, potrebbe trasformare la loro vita in una tragedia.

Alessandra Federico

Gioco dunque sono. Filosofia di un videogamer

Massimo Villa ci porta nel mondo dei videogames.

Videogiocare attrae milioni di persone in tutto il mondo, di ogni età, ceto sociale, background culturale. Videogiocare è un’attività da valutarsi seriamente?

Come tutti i fenomeni che investono milioni di persone da generazioni, è indubbiamente un’attività da valutarsi seriamente. Ricordiamoci che da un punto di vista economico alle spalle c’è un’industria che fattura annualmente più di quella del cinema. Per quanto riguarda invece i videogiocatori, che ormai sono di tutte le età e di entrambi i sessi, la risposta è scontata. I videogame fanno parte del nostro bagaglio culturale, possono svagare, impegnare la mente, divertire, insegnare ed educare. Ricordiamoci che sono una forma d’arte esposta in musei famosissimi in diverse parti del mondo e l’art design è a scapito di artisti internazionali le cui qualità sono universalmente riconosciute. Come se non bastasse, i videogame hanno tenuto uniti i nostri figli durante l’emergenza Covid più della didattica a distanza. Si sono infatti potuti vedere, sentire, condividere, parlare in altre lingue, frequentare e divertirsi. Cosa non da poco.

Chi videogioca non si limita ad afferrare un joypad e mettere in funzione la PlayStation. La propria passione è seguita su uno smartphone, sul treno, in strada, in vacanza o al lavoro. Quanto siffatta pratica isola o può aprire anche al consesso umano?

In realtà è un falso problema. Anche leggere, guardare un film, dipingere o scrivere può isolare oppure unire, far trovare persone con gli stessi interessi, stringere rapporti umani. A mio avviso i social, in questo caso, sono più pericolosi dei videogame. Sui social molti si sentono liberi di invadere la vita altrui anche se non ne hanno una loro.

Videogiocare consente di spalancare porte su mondi alternativi in cui foggiare il proprio alter ego, così da poter vivere un’esistenza difforme dalla reale. Il gamer fugge, scappa, intende evitare lo scontro con il banale quotidiano?

No, anzi, spesso lo replica. Prendiamo un gioco simulativo come The Sims, conosciuto da tutti, anche dai non videogiocatori. In quel caso è proprio la routine umana delle nostre vite a essere replicata. In genere avere un alter ego in un videogame di ruolo invece, è un po’ come prendere le parti dell’eroe di turno nel nostro libro fantasy preferito o nella serie tv. E’ un modo di confrontarsi più visivo e immersivo che altre forme, questo sì. Poi è chiaro che dipende dai gusti. Giocare a un prodotto sci-fi diviene spesso forzatamente disancorato dalla realtà, ma è come vedere Inception al cinema, difficilmente si dirà che chi ha visto un film intenda evitare lo scontro col quotidiano.PORT THIS AD

Sulla scorta di fenomeni sociali innescati dai videogiochi, reputa che un gamer compia scelte etiche?

Spesso sì, per la qualità che hanno raggiunto i videogame oggi. Prendiamo un The Last of Us 2, di questi giorni, davanti al quale anche i sociologi sono rimasti senza parole. Spesso i protagonisti da noi guidati devono scegliere come comportarsi, prendere decisioni che molte volte implicano scelte morali complicate. Aiutare o tradire, vivere o morire, mantenere un atteggiamento invece di un altro, stare al gioco o esporsi alla verità, sposarsi o rimanere single. Purtroppo, spesso chi è estraneo al mondo videoludico tende erroneamente a identificare i videogiochi con un prodotto solo ed esclusivamente alla Super Mario (che rimane comunque un capolavoro) o Bubble Bobble. A queste persone dico “Ci sono stati quarant’anni suonati di innovazioni tecnologiche nei videogame. Provatene magari qualcuna, prima di giudicare”

Per chi non è hardcore nerd inside può esemplificare tendenze, mode, passioni e rivoluzioni tecnologiche veicolate dai videogiochi?

L’evoluzione tecnologica è evidente. Siamo passati dall’Intellivision e da Pong fino alla prossima PlayStation 5 o al PC con le schede video in SLI e a giochi come The Witcher 3 o il succitato The Last of Us. Le mode e le tendenze che hanno attraversato la storia del genere sono state molteplici passando per i cabinati arcade che in Giappone facevano file lunghissime fuori dalle sale giochi, alla Nintendo che ha creato un genere, fino a prodotti che hanno influenzati molte altre industrie, specialmente quella cinematografica, basti ricordare le infinite citazioni di Space Invaders presenti nei film hollywoodiani e non solo, a Ready Player One (che poi è tratto da un libro), fino alla serie TV acclamatissima come Stranger Things, dove in pieni anni ’80 i protagonisti giocano agli arcade dei cabinati che dicevamo prima. E poi vestiti, gadget, cosplayer, riviste, letteratura. Difficile trovare un settore dell’arte che non abbia avuto contatti con i videogiochi dagli anni ’70 a oggi.

 

Massimo Villa lavora per un’importante catena libraria italiana come responsabile eventi. Dagli anni’90 scrive di videogame su riviste e siti del settore. Ha pubblicato diverse opere di fantascienza, tra romanzi e racconti, nonché un paio di raccolte di poesie. Tra i vari scritti ricordiamo “Il rock uccide la vostra anima” (Mondadori) e Frigo Leader (Erga).

 

Giuseppina Capone

Polvere e cashmere

Vincenzo Orefice è un poeta che pensa che la poesia sia un dono.

Lei ha solo vent’anni, è un giovanissimo poeta. Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.

La scelta della Poesia mi piace pensarla come una scelta inevitabile. La trovo un mezzo ottimo per poter comunicare sia l’essenzialità delle cose che la propria sostanzialità, senza essere prolissi e soprattutto, per quello che concerne la mia persona, centrando il messaggio. Trovo che l’espressione metaforica, la ritmica, siano per me più espliciti di molti discorsi che ho costruito, ad esempio, con l’utilizzo della Prosa.

Lei sembra accogliere l’idea della Poesia come un dono da ricevere inaspettatamente, già presente nel Poeta. Ritiene che la Poesia non sia ricerca?

Credo assolutamente che la Poesia sia soprattutto ricerca, io stesso senza l’analisi linguistica, o anche semplicemente l’assimilazione dei vari input che mi vengono forniti dai miei studi e dalle mie letture personali, forse non scriverei niente perché non avrei le parole per esporre quello che sento e vedo. Allo stesso tempo però penso che la Poesia abbia un suo fondamento nella predisposizione. Non si nasce poeti ma si può avere un’inclinazione verso la Poesia, come chi ha una vocazione per la Musica, la Danza o l’Arte figurativa: come queste hanno bisogno di una proclività verso di esse, affinché anche il loro studio e perfezionamento possa essere sostenuto, lo stesso vale per la Scrittura.

I suoi versi, soventemente, suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di comporre versi?

REPORT Tengo a precisare che all’interno della raccolta ho voluto parlare di una specifica storia d’amore, quella che per me è stata la più feroce e che ha creato un grande solco nella mia crescita soprattutto nei suoi termini negativi oltre che positivi, consequenzialmente gli scritti hanno di base un forte sentimento di terrore, misto ad un senso d’inadeguatezza nei confronti del sentimento. Parlando invece della mia idea d’amore in generale, la quale mi spinge a comporre, posso assolutamente affermare che non rifuggo dall’amare o dall’essere amato. Allo stesso tempo però vivo l’amore come una sorta di “malattia”, per intenderla come Saffo o Cavalcanti, e tutto questo è dato da un retroscena educativo molto religioso che ha instillato in me l’idea che “amare” abbia a che fare con la devozione e la celebrazione, anche del dolore, e quindi con tutto ciò che permette di comunicarlo.

Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.

Credo che ciò che può essere definito “reale” sia costituito dall’insieme di tutte le soggettività esistenti, le quali raccontano, ognuna di loro, una parte di esso, anche a rischio di contraddizioni. Il mio scopo è quello di comunicare ciò che della realtà io percepisco, utilizzando ovviamente le mie visioni, spesso surrealiste, altre simboliste, mescolando la quotidianità con la dimensione fantastica, proprio perché questo è il modo in cui personalmente elaboro quello che mi circonda.

Leggendo, ad esempio “Dimanche, après-midi”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

Questo è assolutamente vero, mi piace molto giocare con i vari significati che le parole possono assumere e con le numerose immagini che poi si vengono a formare. Vivo di molti simboli che nella forma lirica mescolo fra loro, spaziando fra diversi ordini di possibili verità e realtà sovrapposte. Infatti questo è molto evidente nel testo da lei menzionato in cui mi sono molto destreggiato fra i simboli offerti della mia realtà onirica.

 

Vincenzo Orefice è uno studente di Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Parallelamente alla scrittura, si dedica all’attività di modello, partecipando a diversi progetti fotografici indipendenti e posando per mostre di artisti emergenti. Molti dei suoi scritti appaiono nelle riviste napoletane Libero Pensiero e Kairos, nuove arrivate all’interno dei circoli culturali della città partenopea.

 

Giuseppina Capone

Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina

Con Alessandro Aresu parliamo di politica ed economia.

l capitalismo politico rappresenta la chiave di lettura principale da lei proposta per accedere al presente. Può definire siffatta categoria?

Il capitalismo politico è l’accoppiamento tra economia e politica all’interno delle potenze, attraverso diversi strumenti. Questi strumenti sono l’uso politico del commercio, della finanza e della tecnologia, la partecipazione statale nelle imprese e più in generale i rapporti tra apparati burocratici e aziende, le sanzioni, le barriere agli investimenti esteri.

Nel mio lavoro, sostengo che questo sistema governi il mondo, perché praticato da Stati Uniti e Cina, seppur in varietà diverse.

Lei descrive minuziosamente l’antagonismo tra diritto ed economia in atto fra Stati Uniti e Cina. Quali sono i termini filosofici di questo scontro?

Le due potenze vedono diversamente il mondo, si pensano diversamente rispetto al mondo, nelle alleanze, nell’influenza internazionale, nell’idea di conquista, nel rapporto tra l’individuo e la comunità. La comune adesione a un sistema capitalistico non cambia queste differenze molto profonde, che pertanto è importante studiare. Ed è sempre cruciale il ruolo dei “traduttori” tra le culture, anche durante i conflitti.

Pechino e Washington vivono un infiammato conflitto di geodiritto: quanto sanzioni, istituzioni internazionali, blocchi agli investimenti esteri influiscono su una guerra ormai tecnologica e giuridica?

Influiscono molto e l’influenza avviene a più livelli. Anzitutto perché le sanzioni degli Stati Uniti non riguardano solo loro stessi, per via della centralità globale di Washington, in particolare nel sistema finanziario. Come cerco di mostrare nel libro, per esempio, l’esclusione di alcune aziende cinesi da parte degli Stati Uniti in alcuni mercati – pensiamo oggi alla discussione sulle telecomunicazioni, un tema presente sulla scena da più tempo riguarda lo spazio, per esempio i satelliti – non coinvolge solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri Paesi che hanno rapporti con quelle aziende. Diventa quindi una questione globale.

Nelle grandi operazioni di fusioni internazionali, possono intervenire inoltre le decisioni delle autorità competenti dei vari Paesi. Non solo e non tanto il merito delle loro decisioni, ma anche le loro tempistiche possono essere influenzate da considerazioni geopolitiche. Anche questo rientra nei casi del geodiritto.

L’economia politica al suo primo vagito è stata delineata nei suoi confini da un’affermazione di Adam Smith: “La difesa è molto più importante della ricchezza”. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella sicurezza nazionale?

Il limite che la sicurezza nazionale impone al mercato è importante perché il concetto di sicurezza nazionale è centrale per la comprensione e per l’articolazione della sovranità. Leggere le trasformazioni della sicurezza nazionale, a mio avviso, è più utile di parlare semplicemente del ruolo dello Stato nell’economia. La sicurezza nazionale ha un forte rilievo per mettere in luce il rapporto tra sicurezza e tecnologia, che orienta e limita il mercato.

La sua ricerca segue tre filoni: la storia dello Stato moderno e dei suoi apparati burocratici; gli ordinamenti giuridici con cui i mercati interagiscono; la storia dello spazio in cui, in passato, è germogliato il capitalismo. Tali direttrici possono convergere?

Sì, è importante evidenziare i rapporti tra queste direttrici e tra questi aspetti, per esempio nella storia e nella continuità dei vari apparati burocratici e nella considerazione storica della progressiva marginalizzazione dello spazio europeo. Chiaramente la ricostruzione che propongo sugli Stati Uniti e la Cina potrebbe essere ampliata anche facendo riferimento ad altre realtà, come per esempio il Giappone, la Russia, la Turchia, e approfondendo meglio i rapporti tra i Paesi europei.

 

Alessandro Aresu è consigliere scientifico di Limes, direttore scientifico della Scuola di Politiche e consigliere del Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale. Si è laureato in filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, dove è stato anche allievo di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. È stato consulente e consigliere di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’Agenzia Spaziale Italiana. Collabora, tra gli altri, con Treccani e L’Espresso. Tra le sue ultime pubblicazioni, L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia (con Luca Gori, il Mulino, 2018).

 

Giuseppina Capone

I cannibali di Mao. La nuova Cina alla conquista del mondo

Marco Lupis Macedonio Palermo, giornalista e scrittore, è autore de I cannibali di Mao.

Quali sono le ragioni per le quali la Cina, fino al recente passato produttore di mercanzia a basso costo, oggi padroneggia il mercato high-tech mondiale? Quali sono le sue radici?

Come spiego in un capitolo del mio libro, tutto è iniziato un giorno di dicembre del 2001, quando la Cina entrò nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il “Tempio del commercio internazionale”. Quella, più di altre, è la data fatidica per la nascita della nuova Cina, la Cina che oggi tutti siamo stati costretti ad imparare a conoscere. Non a caso l’ingresso della Cina avvenne dopo quasi 15 anni di estenuanti trattative. Essere ammessi nel “salotto buono” del commercio globale, infatti, non era – e non sarebbe neanche oggi – affare da poco. I governanti cinesi di allora lo sapevamo bene e per questo diedero alla cosa una rilevanza mediatica straordinaria. A quel tempo, in Cina, c’erano “solo” 400 milioni di televisori (oggi è difficile trovare qualcuno, sul quasi miliardo e mezzo di cinesi, che non ne abbia uno in casa, e, spesso, più d’uno) ed erano tutti sintonizzati sulla cerimonia che si svolgeva a Doha, per seguire minuto per minuto, l’ingresso dei cinesi nella grande famiglia del commercio mondiale. Da quel momento la potenza economica cinese iniziò a trasformarsi, da produttore di robaccia cheap – appunto – fino a diventare leader in tutti i settori della produzione hi-tech. Non a caso, dopo soltanto un anno, nel 2002 la Cina ci “sorpassò”: il suo PIL sorpassò il nostro, quello dell’Italia. E a pensarci oggi, se guardiamo al colosso odierno, ci pare persino incredibile che, soltanto una quindicina di anni fa, l’Italia facesse più PIL della Cina!

Il cannibalismo economico a cui si riferisce il titolo del libro potrebbe stimolare un’altrettanta vorace crescita economica europea in chiave democratica?

Purtroppo la mia risposta è no. Valori come la democrazia, il rispetto dei diritti dell’individuo – umani, civili e giuridici – sono un portato che si è innestato ormai in modo inseparabile nella nostra civiltà occidentale, ma lo stesso non è accaduto per quella cinese. La Cina è una grande, magnifica e millenaria civiltà, che però si è evoluta – appunto – per migliaia di anni su binari totalmente differenti dai nostri. Binari che non si sono mai intersecati per lunghissimo tempo. E ancora oggi, le nostre civiltà vivono basandosi su valori differenti. In Cina conta di più la massa, il gruppo, la comunità – che poi si esprime nella patria e nella nazione – rispetto all’individuo. Per i cinesi, il più grande “peccato” di noi occidentali è il nostro individualismo. Ma del resto, la nostra civiltà, da migliaia di anni, è basata proprio sul primato del singolo, dell’individuo. Il mito dell’eroe solitario che sconfigge ogni avversità, da Ulisse in poi. Credo che ci vorrà ancora molto, molto tempo prima che i cinesi si facciano ammaliare dal fascino della democrazia. Se mai accadrà, poi…

In qual maniera dialogano l’individualismo del milionario cinese con la comunità comunista cinese?

Proprio qui sta una delle difficoltà nel capire la Cina e i cinesi e la loro peculiarità. Non c’è individualismo nella ricchezza del miliardario cinese. Secondo la visione che io chiamo “neo-comunista” o del “Comunismo 2.0” dei governanti cinesi, tutto è funzionale alla vittoria del Partito e alla conquista del benessere, della nuova prosperità, della Cina. Il miliardario svolge il suo ruolo, è capace di accumulare denaro e glielo si lascia fare, perché crea lavoro, industria, economia e alla fine benessere diffuso. Ma anche lui sa di essere solo una piccola pedina nella mani dell’onnipotente PCC, il Partito Comunista cinese che governa con mano di ferro a Pechino. Ogni miliardario cinese sa bene che tutte le sue fortune, i suoi miliardi di dollari americani, sono appesi a un filo. Quel filo che i vertici del PCC manovrano a loro piacimento. E possono decidere di spezzare in ogni momento. Allora la sua caduta sarà tremenda: dalle più alte stelle, fino a ritrovarsi in ginocchio sul patibolo, in attesa di un colpo di pistola alla nuca… E’ già successo tante volte, di aver visto miliardari finiti in disgrazia, contro i quali sono state mosse accuse di corruzione (vere o fabbricate che fossero…) fare una triste fine. Perché, se si viene riconosciuti colpevoli di corruzione, in Cina, la punizione prevista è la pena capitale.

Quale differenza ravvede tra la concezione del denaro cinese e quella di Wall Street dal punto di vista anche etico?

Una radicale differenza. A noi hanno insegnato per duemila anni che “il ricco non andrà nel Regno dei Cieli”. Ai cinesi hanno sempre detto, invece, che “arricchirsi è glorioso”. In Cina, quando si fa un regalo, è considerata cattiva educazione togliere il cartellino del prezzo….

Lei ha asserito in merito all’area d’interesse dei suoi studi: “Una vera storia d’amore, vissuta non con un’altra persona, ma con un continente, l’Asia, e con un popolo in particolare: i cinesi.” Può indicare le opportunità ed i pericoli rappresentati dalla Cina contemporanea?

Vivere e lavorare – e scrivere – in Cina e della Cina, come ho fatto io per quasi 25 anni, è una cosa che può essere difficile e snervante. A volte la Cina sembra un pianeta alieno, una sorta di pianeta Marte dominato dal Dio denaro. Ma quando poi si riesce ad entrare nel cuore della loro civiltà, a capirla, allora la soddisfazione è immensa. E inizia una storia d’amore, che non ha più fine. I francesi lo chiamano ”Le mal jaune”, Il mal giallo, parafrasando il famoso “mal d’Africa”.

 

Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita (Roma, 1960), é un giornalista e scrittore italiano. Ha lavorato come corrispondente dall’Estremo Oriente con base ad Hong Kong per diverse testate italiane. Nel corso di un’attività più che ventennale, negli oltre 700 tra suoi reportage e articoli, ha descritto i mutamenti dello società di Fine Novecento, con particolare riferimento allo scacchiere asiatico e all’America latina. Dopo il successo de “Il Male Inutile”, Marco Lupis torna in libreria con un nuovo saggio dal Titolo “I Cannibali di Mao”, in cui spiega l’origine e le radici del nuovo potere globale cinese.

 

Giuseppina Capone

 

Addio a 71 anni al critico che portò l’arte nelle case degli italiani, Philippe Daverio

Philippe Daverio è morto. Il critico e storico d’arte è deceduto all’Istituto dei Tumori di Milano. A rendere pubblica la notizia, la regista e direttrice del Teatro Franco Parenti, Andree Ruth Shammah. Daverio, docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, aveva 71 anni. “Mi ha scritto suo fratello stamattina per dirmi che Philippe è mancato stanotte” ha scritto Shammah.

Volto noto del piccolo schermo, grazie al programma Passepartout, nato su Rai 3 quasi vent’anni fa, riusciva incredibilmente a raccogliere attorno a una tavola ospiti in grado di confrontarsi su un percorso storico-artistico definito in ogni puntata, tra un vino e una portata. Nel mezzo, Daverio raccontava e descriveva un’Italia delle meraviglie non scontata, mai banale. Percorreva vie desuete e non solo, lasciava che si spalancassero alle telecamere le porte di chiese montane e affreschi bizantini. La macchina da presa lo mostrava poi seduto dietro una scrivania con l’immancabile papillon, le espressioni da antologia e le pagine cancellate dall’artista Emilio Isgrò sullo sfondo. Ammiccava allo spettatore, riuscendo persino a fargli apprezzare il più sperduto dipinto della storia dell’arte.

Diverse le reazioni alla notizia della morte di Daverio. “Amico mio… il tuo silenzio per sempre è un urlo lancinante stamattina” ha scritto Shammah su Instagram. Anche Emanuele Fiano, parlamentare del Partito Democratico, si è espresso su Facebook: “Andree Ruth Shammah ci dà purtroppo notizia della scomparsa di Philippe Daverio uomo di grande cultura, simpatia e umanità. Una grande perdita per Milano e per tutti. Sono molto addolorato per la sua scomparsa. Sia lieve a lui la terra”. Il presidente dell’Anpi provinciale di Milano, Roberto Cenati, ha invece parlato di “una gravissima perdita per il Paese, per Milano, per la cultura, per tutti noi”. Anche il ministro per i Beni e le Attività culturali, Dario Franceschini, ha espresso tramite il profilo social del MiBact, grande cordoglio per la perdita di Daverio: “Con Philippe Daverio scompare un intellettuale di grande umanità, storico dell’arte sensibile e raffinato, un uomo di cui ho sempre apprezzato la grande intelligenza e lo spirito critico e che già manca a tutti noi.”

Nicola Massaro

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