Paura dell’abbandono: ossessione e bisogno di affetto

 Volevo che mi amasse perché mio padre non l’ha mai fatto. Ero ossessionata dal pensiero di perderlo e sapevo che il mio comportamento assillante l’avrebbe fatto allontanare, ma non riuscivo a fermarmi”.

Quando un amore ci porta a vivere uno stato di ossessione non possiamo considerarlo tale. Piuttosto, potrebbe trattarsi di mancanza d’affetto che alle volte ci portiamo dentro sin dalla tenera età, un vuoto che, una volta diventati adulti, pretendiamo di colmarlo con l’amore del proprio partner.

È facile confondere il bisogno di riempire un vuoto d’affetto con il vero amore,  quando si è cresciuti senza l’amore di un genitore, soprattutto da bambine da parte di un padre. È fondamentale, quindi, andare con cautela in queste circostanze in modo tale da essere in grado di capire quando si tratta di sentimenti veri che nutriamo nei confronti di chi abbiamo accanto, o se vogliamo la loro presenza nella nostra vita per non sentirci soli e abbandonati.

A volte è necessario fermarsi, guardarsi dentro, porsi delle domande e impegnarsi nel trovare anche delle risposte.

Un’accurata conoscenza di sé stessi potrebbe essere una buona tecnica per riconoscere i propri sentimenti e poter capire cosa si cerca e di cosa si ha bisogno per vivere una vita felice. Sarà amore solo quando realizzi che nessuno potrà mai colmare quella mancanza se non amando te stesso.

L’importanza di amare se stessi

Amare sé stessi è fondamentale per acquisire maggiore sicurezza e di conseguenza conoscere sé stessi a fondo per poter capire di cosa si ha bisogno, cosa si merita e di cosa si può fare a meno.

Amare sé stessi è il primo percorso che ognuno di noi dovrebbe fare, prima di ogni altra cosa. È il mezzo più potente che si ha a disposizione per andare avanti nella vita, per non curarsi del giudizio altrui e per  assumere comportamenti diversi da quelli che solitamente ci hanno portato a sbagliare, si assumono, inoltre, approcci differenti nei confronti del prossimo, di sé e della vita. Dunque, avere una forte sicurezza di sé è di vitale importanza per poter condurre una vita serena. L’insicurezza, invece, ci porta a vivere una stato di ansia, di frustrazione perché quando si nasce e cresce con mancanze d’affetto, si è, di conseguenza, continuamente insoddisfatti ed è proprio questo che porta poi alla frustrazione, alla rabbia, all’angoscia. Quest’ultimi, sono sentimenti negativi che possono col tempo portare alla vera infelicità. Per questo motivo è importante soffermarsi sui propri sentimenti e fare una profonda conoscenza di sé, mettendo in tavola tutte le carte della propria vita ed esaminarle una per una accuratamente. Entrare nel proprio cuore e cercare di percepire ogni suo segnale, cosa proviamo e perché lo proviamo. Prendersi cura di sé e volersi bene permette di trovare la propria identità e le proprie potenzialità. Ripetersi frasi positive continuamente, al fine di sentirla completamente nostra, potrebbe essere uno dei metodi efficaci per acquisire maggiore sicurezza di sé,  perché qualsiasi parola ripetiamo con costanza influenza la nostra mente in continuazione, ed è quindi  importante parlare a sé stessi con frasi che trasmettono apprezzamento di sé, entusiasmo, gioia, incoraggiamento, verso tutto ci che si vuole realizzare: lavoro, una relazione d’amore, relazioni di amicizia e familiari e tanto altro.

 “Aspettavo che la mia vita iniziasse. Vivevo con un buco nell’anima. Attendevo l’arrivo di qualcosa o di qualcuno che avrebbe finalmente colmato quella sensazione di solitudine che mi porto dentro da sempre. Solo col passare degli anni ho capito che posso colmarlo con l’amore verso me stessa, e che devo superare la paura dell’abbandono”.

Lorena, ventiquattro anni, napoletana, racconta la sua esperienza e come ha superato queste paure.

Lorena, quando hai scoperto di avere queste paure?

Mi porto dietro questo problema, se così si può chiamare, sin dai tempi dei miei primi fidanzati, dall’età di quindici anni, quando tutto dovrebbe essere rose e fiori, quando tutto dovrebbe essere una novità, io l’ho sempre vissuta come una cosa già vissuta. Mi spiego: come se dentro di me già sapessi come sarebbero andate le cose, come se in qualche modo io avessi già avuto una rottura, una delusione da parte di un uomo. Ad oggi, riconosco il motivo e sto cercando di superarlo anche se mi rendo conto che faccio molta fatica perché una volta scoperta la causa, ci vuole altro tempo per elaborarla e per far si che rimanga solo un ricordo assopito. Non ho mai avuto fiducia, ho sempre fatto pensieri strani e contorti e alla fine mi sono sempre ritrovata da sola. Commetto sempre lo stesso errore: inizialmente sono serena, ma col tempo inizio a diventare ossessiva e a controllarlo e a fare pensieri negativi per qualsiasi cosa. Può sembrare una cosa banale e forse è una cosa che accomuna molte persone ma per me è davvero una sofferenza.

Sei a conoscenza del motivo per cui hai queste paure?

Durante i miei primi anni di vita, mio padre è stato molto presente: mi portava in giro, sulle giostre, al mare, sulla neve, mi regalava le videocassette dei cartoni animati Disney. Cenerentola l’avrò visto almeno un centinaio di volte insieme lui. Avevo 4 anni quando i miei genitori iniziarono a litigare. Non capivo perché, non capivo nulla di tutto ciò che stava accadendo. Nel corso degli anni vedevo mio padre sempre meno, era meno presente a casa, addirittura mancava a pranzo o a cena. Solo diversi anni dopo e quando ormai ero già grande, hanno avuto il coraggio di dirmi che in realtà erano da tempo separati in casa. Adesso ognuno prosegue per la propria strada, entrambi hanno la propria vita. Ora siamo una famiglia allargata, un po’ come quelle delle fiction italiane. Io e i miei fratelli viviamo con nostra madre, il suo compagno e i suoi figli. Mio padre lo vedo poco, continua a non essere presente. Non so se la causa di tutto ciò sia dovuta solo all’abbandono da parte di mio padre, fatto sta che tutt’ora lo vivo come se mi avesse lasciato. Non sa niente di me eppure sono sua figlia, a stento ci salutiamo e scambiamo due chiacchiere quando quella volta al mese trascorriamo un pomeriggio assieme anche con i miei fratelli. L’unica cosa che mi fa provare meno rabbia nei sui confronti è pensare che anche lui, a sua volta, ha vissuto la mancanza del padre e che quindi non ha saputo svolgere il suo ruolo con me e con i miei fratelli. A suo modo manifesta l’affetto che nutre per noi, con soldi, maggiormente. Ma purtroppo le cose materiali non colmano i vuoti d’affetto. Questi sono i motivi per cui le mie relazioni d’amore vanno sempre a finire male. Forse pretendevo troppo da parte dei miei ragazzi. Volevo che colmassero la mancanza di mio padre.

Qual è stato il motivo per cui il tuo ragazzo si è allontanato da te? Ero molto gelosa. Troppo. Ogni donna per me era una sfida, un ostacolo. È anche divertente se adesso mi soffermo a pensarci perché ogni settimana la mia fissazione ricadeva su una ragazza diversa. Ma so bene che una relazione non funziona così. Con il ragazzo che frequento adesso sto cercando di avere un comportamento diverso e se devo essere sincera le cose stanno andando anche abbastanza bene. Ma è ancora l’inizio. D’altronde, le esperienze ci lasciano sempre un segno, ci danno sempre un insegnamento, anche se, ad essere sincera, ci ho impiegato diversi anni per imparare dai miei errori e non so nemmeno se effettivamente ho imparato davvero. Forse perché quest’ultima delusione da parte del ragazzo precedente mi ha segnato molto. Credo anche che io sia una di quelle persone che non riescono a stare sole, ho paura dell’abbandono e ogni volta che finisce una storia con un ragazzo, poco dopo ne sto già frequentando un altro. Con Vittorio, il ragazzo che frequento adesso, sto cercando di prendere le cose molto alla leggera perche devo capire tante cose di me, innanzitutto. E capire se è lui che voglio o voglio solo essere protetta da un uomo perché mio padre non c’è mai stato.

Come pensi di risolvere questo tuo problema?

Non lo so. So solo che ancora una volta ho fallito. Per me è una sconfitta, per me ho perso. Perché credevo che almeno questa volta sarei riuscita a sconfiggere questa paura, perché in fondo si tratta di questo: la paura di non avere quella persona tutta per sé, è la paura di un abbandono che ti porta ad essere così oppressiva e sinceramente non so nemmeno se si tratti di amore, a questo punto. Adesso credo che io debba pensare a me stessa e a risolvere questo mio problema se non voglio portarmelo dietro per tutta la vita. Anche avendo accanto Vittorio, in modo da poter capire davvero cosa sento. A volte c’è bisogno di una grande scossa per capire certe cose, c’è bisogno di toccare il fondo per risalire ed io credo di essere precipitata abbastanza. È come se io facessi di tutto per mettere alla prova la persona che ho accanto, come se nella mia testa pensassi che lui debba essere torturato per vedere fin quando è capace di restarmi accanto. Ma non è cosi che dovrebbero andare le relazioni d’amore. Sono stanca di soffrire, voglio essere felice. Credo di meritarlo.

Hai mai permesso a qualcuno di aiutarti a farti superare questa tua paura?

A volte ne parlo con amici o amiche ma non è facile farsi comprendere, spesso ti giudicano o ti danno consigli banali giusto per dire qualcosa. Non è facile trovare persone sensibili e soprattutto empatiche. Ecco, empatia è la parola che più amo al mondo. Mettersi nei panni degli altri è la cosa che mi riesce meglio, è la cosa che cerco nelle persone e forse anche per questo motivo faccio fatica ad avere relazioni durature, che si tratti di amicizia o di amore. Credo che le persone empatiche siano coloro che hanno maggiore sensibilità e profondità d’animo. In realtà sono anche andata diversi anni in terapia da un analista. Credevo di aver risolto, ma credo che se la cosa non parta da me poco risolve anche uno psicanalista con 40 anni di esperienza. Ho trascorso anni a parlare di questo mio problema e ogni volta che credevo ne stessi uscendo, tornavo punto e a capo. Anche se a dirla tutta, quest’ultima rottura mi ha insegnato tanto, e mi ha fatto guardare lontano dove il mio sguardo non era mai arrivato prima d’ora: devo amarmi, devo conoscermi e devo sapere cosa mi rende felice, sopra ogni cosa. Ora penso sia arrivato davvero il momento di superare questa paura se voglio essere felice. Ed io ora voglio esserlo. Forse mai come prima sto riuscendo a riempire il mio cuore. Credo anche che tutto questo io l’abbia fatto di proposito, inconsciamente. Avevo paura di vivere un amore così grande.

Alessandra Federico

 

Emily Brontë, una donna più forte di un uomo

Paola Tonussi  si occupa di letteratura inglese e americana dell’Ottocento e Novecento, è membro della Brontë Society e contribuisce a «Brontë Studies», rivista internazionale di studi brontëani. Con lei abbiamo parlato della figura dell’autrice di Cime tempestose.

In Emily Brontë  lei ricostruisce la poetica e la vita dell’autrice di Cime tempestose. Può motivare il suo interesse per l’autrice?

Per prima cosa vorrei dire che Emily Brontë è un’autrice che si ama molto o non si ama, non conosce mezze misure, in ogni caso non lascia – mai – indifferenti. Lei stessa era personalità complessa, estrema, di silenzi vasti e fantasia fervida, “più forte di un uomo, più semplice di un bambino” la definisce bene la sorella Charlotte. Amo quest’autrice proprio e anche per quest’ambivalenza – di scrittura e personale, quindi di riflesso calata nei suoi personaggi -, per la capacità visionaria – che emerge sia dal romanzo sia dalle liriche -, l’amore per la natura e gli animali, l’essenzialità di lingua – e se vogliamo anche di condotta, di vita. E’ un’autrice che non smette di ‘raccontare’ e parlare al nostro cuore: Catherine bambina incarna le nostre paure più buie, il terrore di esser lasciati soli in un mondo ostile, Heathcliff i nostri tormenti e gli incubi. Sopra tutto domina nella mia passione brontëana il pessimismo cosmico di Emily, che lei ‘inscena’ anche nella sua poesia, oltre che nel romanzo: la concezione della natura, la passione e l’affinità profonda verso gli elementi naturali e gli animali, la fedeltà all’amore e “agli antichi affetti”, il riconoscersi e ritrovarsi nell’altro. Dopo aver amato moltissimo Emily narratrice in Wuthering Heights mi sono accostata ad Emily poeta e alla sua vita, che è essa stessa un romanzo.

Emily Brontë innalza la scrittura a “pulsazione, respiro, centro assoluto del vivere”.  La narrazione in poesia e prosa da intendersi come rifugio paradisiaco?

La narrazione in prosa ha legami profondi con i versi e viceversa, questo vorrei ribadirlo: è importante perché Emily Brontë è uno di quegli autori per cui la ‘visione’ – il “dio delle visioni” come lo chiama in una poesia giustamente nota – o l’immaginazione sono regno e condanna insieme. Regno in quanto aspirazione all’assoluto, desiderio di vivere – sempre – entro i confini della fantasia, e infatti Emily non lascerà mai la saga di Gondal creata con Anne. Tuttavia anche condanna: nello scarto tra realtà e proiezione fantastica, tra il mondo della scrittura e quello del quotidiano. E’ una frattura non componibile, soprattutto da un certo punto in poi della sua vita. Dire che Emily si ‘rifugiava’ nella poesia non testimonia tutta la sua grandezza di poeta e giovane donna: in realtà lei sapeva come affrontare il mondo, se ne era ‘costretta’ – ha dimostrato ad esempio di essere una buona amministratrice dell’eredità avuta dalla zia – ma si agitava sempre in lei la convinzione che il “mondo eterno” non avrebbe mai potuto stare su un piano di parità con il suo “mondo interiore” – così li definisce sempre in versi. Quindi la poesia, la scrittura per lei costituivano la sua vera casa: non sempre paradisiaca, come tutte le case, ma l’unica in lei poteva vivere ed essere se stessa e felice.

Può fornire degli elementi circa il contesto familiare e sociale in cui l’autrice ha scritto e vissuto?

Emily cresce alla canonica di Haworth, dove suo padre è curato. La madre Maria muore quando la piccola ha pochi anni ed Emily e i fratelli crescono con il padre Patrick, la zia (nel frattempo trasferitasi da Penzance per allevare i figli della sorella scomparsa) e la domestica Tabby, figura fondamentale per Emily e quasi una seconda madre. I bambini Brontë erano sei, ma le maggiori Maria ed Elizabeth muoiono piccole, per cui Emily cresce con Charlotte, rimasta la maggiore, l’unico fratello Branwell e la minore Anne, a cui lei è molto legata e con cui dà l’avvio alla saga fantastica di Gondal. In quanto al contesto sociale, all’epoca Haworth era un villaggio di poche migliaia di abitanti nello Yorkshire, abitato da allevatori di pecore e bestiame, contadini e tessitori di lana, piccoli commercianti e qualche famiglia importante. A Keighley, la città più vicina, i ragazzi Brontë frequentavano la biblioteca e partecipavano a conferenze e concerti. In casa incontravano per lo più i curati assistenti del padre – Charlotte, infatti, dopo la morte dei fratelli ne sposerà uno.

Emily Brontë pare essere in piena sintonia con gli elementi della natura. Potrebbe essere questa specifica attitudine poetica la chiave per comprendere l’autrice di Cime Tempestose.

Sicuramente questa è una delle chiavi d’interpretazione del romanzo, della poetica di Emily e il motivo per cui nel libro ci sono svariate descrizioni di luoghi e paesaggio di brughiera. Quel paesaggio è la scena principale del romanzo perché l’autrice vi riconosceva molta parte di sé – forza, durezza, crudeltà, dolcezza e compassione. Dalla natura ha inizio il romanzo – una tempesta – e nella natura tutto alla fine si ricompone: quelle brontëane sono pagine che sanno di erica e di vento, hanno il colore delle colline che Emily amava e da cui aveva imparato tutto. Catherine Earnshaw, il personaggio di Catherine è uno dei nuclei poetici del romanzo perché in quel paesaggio, in quelle colline d’erica è il suo baricentro vitale. L’erica, il fiore preferito da Emily dice molto di lei e della sua scrittura: è un fiore piccolo e resistente, che si piega per sopportare vento e bufere d’inverno, che si arrossa d’estate e ricopre le colline di porpora, ha bisogno di poco per vivere ma deve farlo su quella terra, a quelle altezze e sotto quel cielo. Lontano da lì, l’erica – proprio come Emily, come Catherine – non potrebbe sopravvivere: l’incanto si rompe, alla Grange Catherine lontana da Heathcliff lascia la vita e diventa fantasma. E il cerchio si chiude di nuovo: il fantasma dell’esordio è sempre lei, che compare in forma di bambina. Un fantasma è ‘ciò che appare’. E ciò che è sempre apparso e continuerà ad apparire di là dalla vita e dalla morte è la brughiera: i moors amati dall’autrice.

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Frammenti di lettere, poesie, testimonianze guidano direttamente il lettore in questa doviziosa biografia. Interessanti sono i rapporti intrafamiliari. Potrebbe fornircene un’analisi?

I rapporti con i familiari sono fondamentali per Emily, come del resto per tutti i Brontë. Innanzitutto fin da bambina il rapporto con Anne, che è la sua compagna privilegiata d’invenzione per Gondal, e a lei complementare per carattere e indole. Le due sono tanto legate l’una all’altra da sembrare a Ellen Nussey, l’amica di Charlotte, “due statue unite della forza e dell’umiltà”. Da piccola il rapporto era più stretto con la maggiore Charlotte, poi l’affetto di Emily si sposta su Anne, anche se il legame con Charlotte non viene mai meno, anzi: Emily va a Bruxelles, ad esempio, sostanzialmente per far contenta la sorella maggiore così come acconsente a pubblicare i versi sempre per lei. Negli ultimi anni si stringe anche il rapporto con Branwell, a cui Emily offre aiuto e solidarietà mentre la fortuna personale e artistica di lui tramonta in vari tentativi sbagliati e dispersione di talento ed energie. Il rapporto con il padre è d’affetto e rispetto reciproco e forse in famiglia è la zia con cui Emily si sente meno in sintonia. Infine importantissima per lei è Tabby, come dicevo, perché Tabby le racconta le storie locali del villaggio e le leggende delle brughiere, che poi entreranno nel romanzo. In ogni caso per originalità, cultura, sensibilità e genio creativo i Brontë erano una famiglia eccezionale: Patrick Brontë però sapeva che, di tutti i suoi straordinari figli, la stella era Emily.

Giuseppina Capone

 

Paola Tonussi si occupa di letteratura inglese e americana dell’Ottocento e Novecento. È membro della Brontë Society e contribuisce a «Brontë Studies», rivista internazionale di studi brontëani. Premio Vassalini dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 2013. Per l’ Editrice Antenore ha curato Sognatori, poeti e viaggiatori. Sguardi su Verona e il Lago di Garda.

La moda italiana ai tempi del corona virus:  atelier per produzione di mascherine e shooting via web 

La moda ai tempi del corona virus è stata al centro della crisi globale. Per quanto riguarda gli shooting però, non si è arresa, neanche quando il mondo intero si è fermato, continuava ad essere presente via web. Il mondo della moda è stato costretto, inoltre, a trasformare gli atelier in centri di produzione di mascherine e accessori sanitari.

Il primo servizio  di moda nell’era del lockdown

Il magazine di moda numero 1, Vogue Italia, realizza il suo primo servizio di moda nell’era del lockdown con la sua prima copertina “vuota”. Presenti nel numero, anche la top model Bella Hadid. Le sue foto sono visibili anche sui social. Aderiscono all’iniziativa oltre 40 artisti della community di Vogue Italia in tutto il mondo tra cui modelle, stylist, direttori creativi, make up artists, fotografi. Utilizzando abiti del proprio archivio e facendoli indossare ai membri della propria famiglia, organizzando cosi, shooting, sfilate e dirette live. Un metodo efficace per non perdere la creatività e per essere sempre presenti per tutti coloro che amano il mondo della moda. Per promuovere le nuove collezioni, anche i colossi del fast fashion cavalcano il trend: le modelle di Zara, sotto richiesta del direttore artistico, dopo essere stato costretto a chiudere i negozi in tutta Europa,  hanno indossato i capi della nuova collezione per postare foto sui social.

La crisi per i brand della moda italiana

In Italia, diciassettemila negozi hanno rischiato di non riaprire, compresi i fast fashion e i grandi magazzini. Nel 2020 si prevede un calo di consumi di quindici miliardi e una riduzione dei ricavi del 50 per cento rispetto all’anno scorso. D’altronde è risaputo che un gran numero della produzione europea di moda è fatto in Italia, ma a causa di questa pandemia si è rischiato di perdere pezzi di una filiera di industrie e artigiani.

I grandi brand italiani, così come accaduto per quelli di tutto il mondo, hanno vissuto momenti di grandi angosce, temendo che, a causa di  questa forte crisi, avrebbero potuto perdere la capacità di innovazione e di fare investimenti. Con la fine del lockdown, però, le industrie hanno riaperto il 4 maggio: intere collezioni vendute e quelle future in elaborazione. I capi più venduti sono i pantaloni denim. Jeans “consumati”. Purtroppo, le collezioni invernali sono state accantonate in negozio per dar sfoggio direttamente a quelle della stagione primavera-estate.

La maggior parte degli imprenditori si sono organizzati per sanificare ogni capo dopo ogni prova effettuata dal cliente. Intanto sul digitale il commercio era indietro, ma questa crisi è stata un’opportunità per rafforzare l’acquisto online. Ma chi ha rischiato il crollo, in questa situazione, sono i piccoli negozi che vendono abiti a prezzi bassi. Un vero e proprio stravolgimento anche per la catena H&M che aveva, già dal 4 maggio, annunciato la chiusura di 8 negozi in Italia. Ad oggi, il 90 per cento dei punti vendita della moda è stato riavviato senza problemi.

Come abbiamo potuto notare il mondo della moda non si è mai fermato perché la creatività e l’arte riescono a viaggiare anche restando fermi.

Alessandra Federico

Anoressia e Bulimia: la ricerca dell’equilibrio

“Avevo il terrore di ingrassare. All’età di sedici anni pesavo trentadue chili. Dall’Anoressia sono passata velocemente a soffrire di Bulimia.”

 L’Anoressia è un disturbo dell’alimentazione che colpisce maggiormente le donne durante l’età adolescenziale. Coloro che ne soffrono tendono a vedersi perennemente grasse, anche se dimagriscono a vista d’occhio. Subire maltrattamenti, critiche e offese sin dall’età infantile potrebbe essere uno dei motivi per cui una ragazza cessa di nutrirsi. Ancora, cosa che accomuna un gran numero di famiglie italiane, è il bisogno da parte dei genitori di essere iperprotettivi nei confronti della propria figlia. Questo potrebbe, di conseguenza, farle avere un morboso attaccamento nei confronti della madre e del padre anche in età adulta, e, pertanto, l’esigenza di restare eterna bambina. Ragion per cui, non vuole assumere alcun tipo di calorie, oppure, ogni pasto che ingerisce, fa in modo di poterlo eliminare il prima possibile. Quest’ultimo prende il nome di Bulimia. Il termine Bulimia deriva dal Greco e significa “fame da bue” che, al contrario dell’Anoressia, comporta disturbi dell’alimentazione differenti: riempirsi di cibo spazzatura fino a perdere il controllo sul proprio comportamento alimentare, seguito da vomito auto-indotto.  Chi che soffre di Bulimia non presenta segni evidenti del disagio, quanto appare una persona che conduce una vita regolare.

Ma quanto conta l’aspetto estetico?

L’aspetto estetico per una donna è importante. Ma per una donna che soffre di anoressia è fondamentale, poiché la sua autostima è fortemente influenzata dal suo corpo. Si può essere belli anche con tante imperfezioni, senza dover a tutti costi raggiungere quel canone di bellezza che ci impone la società. Una  società che vuole la donna perfetta e impeccabile esteticamente, ma che valuta poco il suo lato interiore. Di conseguenza, ciò che ci inculcano ogni giorno attraverso programmi televisivi e social non è altro che una concezione sbagliata di ciò che conta nella vita.

Ma non è mai tutto oro ciò che luccica.

Una Influencer ha postato sui social, pochi giorni fa, una sua vecchia foto in cui mostra il suo viso ricoperto di acne prima di sottoporsi a diverse cure e terapie per arrivare ad ottenere la pelle “perfetta” che ha oggi. Anche se, come sostiene anche lei,  le foto di coloro fanno parte di quel mondo sono spesso agevolate da filtri, luce ed effetti della fotografia stessa. Inoltre, spiega anche quanto il nostro lato esteriore viene fortemente influenzato dall’aspetto interiore. Tutto questo ha voluto spiegarci che, anche chi appare perfetto, in realtà nasconde più di un difetto. Il suo post sui social è stato un importante messaggio per ogni donna. Tuttavia, ognuno ha le proprie imperfezioni ma alle volte basterebbe lavorare sull’aspetto interiore e acquisire maggiore stima di sé per piacere e piacersi. Per questa ragione, lavorare anche sull’autostima e non solo sull’aspetto estetico, può portare a grandi giovamenti anche del corpo.

“Quando ero piccola ero grassottella. La mia sorellastra aveva undici anni in più a me e mi diceva che non poteva prestarmi i suoi abiti perché altrimenti li avrei strappati, lei era da sempre stata magra. Nel corso degli anni ho cercato di mangiare sempre meno, un po’ per sentirmi a mio agio, un po’ per compiacerla, anche se la odiavo, inconsciamente. È la figlia del compagno di mia madre. Ma mia madre non mi ha mai difesa, allo stesso tempo mi tratta ancora come una bambina. Arrivata all’età di sedici anni pesavo trentadue chili. E dall’anoressia sono passata velocemente alla bulimia, ci ho impiegato ben  9 anni per uscirne completamente.”

Benedetta, ventidue anni, napoletana, racconta la sua lotta contro la anoressia e la bulimia e come ne è venuta fuori

Benedetta, a quale età hai iniziato a rifiutare il cibo?

Avevo tredici anni, e siccome da sempre Denise (la mia sorellastra) mi ripeteva quanto fossi grassa, decisi appunto di voler perdere peso. Senza rendermene conto iniziavo a diminuire sempre più la quantità di cibo che ingerivo quotidianamente. Iniziai a eliminare la colazione, prima di tutto. A pranzo mangiavo 10 grammi di pasta e poi la verdura. Più passava tempo e più diminuivo le quantità fino a mangiare uno yogurt al giorno, eppure passeggiavo per un paio d’ore per smaltirlo. Quando sono arrivata a pesare trentadue chili, ho capito che avrei finalmente potuto mangiare un po’ in più. Ogni giorno, o quasi, ingerivo grandi quantità di cibo spazzatura per poi andare in bagno e vomitare tutto. Presi molti chili e arrivai a pesarne quarantasette. Ma riuscivo a mantenere quel peso forma solo perché eliminavo ogni pasto dopo ogni abbuffata. Mia madre ha iniziato a preoccuparsi solo allora, e da lì sono iniziate le infinite terapie dallo psicologo e il continuo via vai casa – ospedale.

Lo psicologo ti ha aiutato a scoprire la causa di tutto ciò?

Lo psicologo mi ha aiutata tanto ad acquisire un’autostima più forte. Avevo alti e bassi e spesso crollavo perché, se anche prendevo pochi grammi, per me era una sconfitta. Invece quando non mangiavo per me era una vittoria. Avevo il controllo di me e del mio corpo. Ma nutrirmi per me significava perderlo. Inoltre, mi ha aiutata tanto a superare i brutti ricordi della mia infanzia e le cattive offese che mi faceva Denise. Mi ha fatto soprattutto capire che nessuno deve essere in grado di giudicarmi. Abbiamo anche scoperto che un altro dei motivi per cui non  mangiavo era dipeso dal comportamento troppo apprensivo di mia madre, che però allo stesso tempo non mi difendeva con la mia sorellastra. A quel punto non lo concepivo il suo essere iperprotettiva, per me è sempre stata un’incoerenza.

Adesso com’è il tuo rapporto con il cibo?

Decisamente migliore. Pratico molto sport ma allo stesso tempo non rinuncio a niente, o quasi. Evito di esagerare con cibo che possa farmi ingrassare troppo o che possa far male. Faccio un’alimentazione sana ma abbondante ogni giorno. Sono finalmente una ragazza come tutte le altre. Mi piaccio. Ho scoperto il mio carattere perché fino a poco fa non ne ero a conoscenza. Non sapevo chi fossi. Adesso, ringraziando il cielo, ho una forte personalità e sono in grado di affrontare ogni cosa.

Te la senti di dare un consiglio a chi come te ha avuto disturbi dell’alimentazione?

Adesso che ne sono uscita completamente posso dire che il cibo è uno dei piaceri più grandi della vita, ma so anche che ora mi risulta facile parlare proprio perché ne sono venuta fuori. Un consiglio che posso dare, per esperienza personale, è quello di farsi aiutare perché da sole è difficile se non impossibile uscire da questa brutta situazione. Chiedete aiuto e lavorate tanto sulla vostra autostima. La vita può rivelarsi un’esperienza meravigliosa.

Alessandra Federico

Memento

Attrice di ampia carriera teatrale, donna di incontestabile bellezza e spirito di fine sensibilità, Edvige (Hedy) Caggiano è anche autrice di un incisivo atto unico drammatico e di sensibili versi di intelligibile chiarezza e profonda umanità.

Ne riportiamo qui di seguito alcuni, sorta d’amarissimo epitaffio, che stigmatizzano, attoniti, impietose efferatezze belliche, rimettendone agli artefici interamente le responsabilità.

E che siano guerre di spade, di fucili, di bombe atomiche, o artate pandemie, per straordinaria potenza simbolica della poesia, che onnicomprensiva trascende luoghi ed epoche, davvero poco importa.

 

 

 

 

Morte sul campo

Raid aereo

 

Dove il mio sguardo cade,

nel campo di morte,

crescono crisantemi.

Vento di guerra

passa veloce

nel deflagrante silenzio

di urla innocenti.

Dalla terra

braccia protese

invocano Dio.

Dove erano quelli che potevano?

Sordi

al richiamo del dolore.

Ciechi

nel delirio di onnipotenza.

Possa per sempre restare,

macigno sull’anima

di gente futura;

a eterno monito

di tanto dolore. 

 

Rosario Ruggiero

Marco Urraro. “Vucchella. Salvatore Di Giacomo”

Salvatore Di Giacomo afferma, conversando con Benedetto Croce che “Il napoletano è l’alfiere della vita eterna, secondo i dettami dell’immortalità della fede, attraverso secoli d’indipendenza geografica di questa città nella storia”.

Può fornire un’interpretazione di siffatta considerazione?

Napoli non è la capitale del mondo, ma è una città che da alcune migliaia di anni vede un fatto raro e unico ovvero che il napoletano è la dimora umana di uno Spirito del luogo che immagina sempre la bellezza di tale spirito con una fede inimitabile; tale fede spesso, confusa con la ben nota teatralità partenopea è in verità un’autonomia razionale rispetto alle altre popolazioni sempre però irraggiungibile: alfiere, fede, geografia, storia… sono solo parole chiave da me usate nella frase per tentare di ridestare, specie nel moderno napoletano, anzi per aprire una porta nella sua sensibilità offuscata nella sua visione del bello da anni di grandi problemi, elevati a sistema, come la criminalità organizzata che crede di essere romantica e la mancanza di senso civico.

Qual è la chiave per cucire la Napoli “alta” a quella “bassa” secondo la prospettiva romantica di Di Giacomo e la congerie post-unitaria?

Purtroppo devo dare una triste notizia ovvero che la speranza di cucire o meglio far parlare con un linguaggio comune, ecco il riferimento alla Vucchella, la Napoli alta con la Napoli bassa non si è mai attuata, né con l’opera monumentale di Di Giacomo né con il puro appello sentimentale del risanamento post unitario, questo perché oggi queste due considerazioni non esistono più. Chissà a volte mi chiedo se Di Giacomo, e con lui gli uomini e le donne della sua levatura in termini di sensibilità della loro epoca, avrebbe mai immaginato cosa oggi è diventata questa metropoli: una incognita convivenza tra cittadini onesti e disonesti nel complesso dal futuro incerto, una città nella quale la minaccia della violenza la fa da padrona e che penso un giorno si esprimerà in una sola volta prima di finire; ma io parlo naturalmente di quanto succederà nei prossimi decenni.

Elisa, donna amatissima da Di Giacomo, asserisce che “Imparare la storia non basta, bisogna anche esserla nel filo nascosto del discorso della sua molteplicità”. Cosa intende rispetto al dipanarsi degli eventi vicini e distanti? Penso alla prima guerra mondiale ed all’avvento del Fascismo intravisto da Matilde Serao.

Lei ha detto bene “donna amatissima da Di Giacomo” precisiamolo, e che difatti parla spesso nel romanzo all’apparente fredda logica del poeta con uno spirito di verità tuttavia abbastanza comune in una donna che ami il suo uomo. La frase che lei mi ricorda in realtà si riferisce al fatto che l’intelligenza che dimora nei nostri corpi ha sempre un’origine sostanzialmente divina; non voglio entrare nel difficile, ma come uomo di fede, al pari di come lo fosse sicuramente Di Giacomo, penso nello specifico che la coscienza di un cittadino come quello napoletano soffra due volte nel contemplare la sua città nella sua bellezza al tempo stesso del suo tremendo degrado urbano, e anche questa pur sempre è la magia di questo cittadino e di questa città nella quale puoi dire infine di aver incontrato Dio dietro ogni vicolo, via o piazza… tanto per parafrasare il grande Petronio Arbitro che spesso visitava Neapolis.

Lei giustamente invece ha intravisto nella frase detta attraverso Elisa eventi di massa come la prima guerra mondiale e il fascismo nei quali difatti la volontà individuale è stata seppur schiacciata, e vedi nel romanzo le scene del cinematografo con Di Giacomo: nel caso della Grande Guerra però vista come completamento dell’unificazione nazionale a costo di sacrificio di sangue, mentre il fascismo visto come tentativo inutile da parte di una élite di potere di creare un potere economico con il popolo italiano, poi fallito. Eventi difatti affrontati nel romanzo vuoi con la moderna impotenza individuale del poeta vuoi con la sua esasperazione sociale che come la situazione attuale decadente dell’Italia può essere sintetizzata attraverso una frase che vale la pena di citare e che io calo nel romanzo mediante la figura di Di Giacomo, ovvero “il male che è stato fatto, ma vanamente, è destinato a durare poco. La vita rassegna le sue dimissioni, la storia è stanca, la coscienza si dimena nel fuoco della sua perdizione. Esiste un tempo che nessuno può decidere, un tempo imprendibile.”. Ai posteri l’ardua sentenza.

La rimembranza del passato ed i suoi simboli floreali. In che misura si può discorrere di nostalgia?

Al tempo della preparazione editoriale di Vucchella avevo trovato un vecchio articolo di Benedetto Croce presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, più un elogio funebre quello scritto da Croce poco dopo la morte del suo amico: ebbene il filosofo non esitava a definire appunto il Di Giacomo, il poeta della nostalgia. La rosa, il garofano nel mio romanzo non sono altro che pure metafore, tuttavia tra i più semplici simboli arcaici e subliminali conosciuti dall’uomo, la rosa specialmente rappresenta lo sbocciare della maturità di un individuo… Che dire a questo punto di Vucchella, tengo a precisare: è un romanzo che sulle prime può sembrare scritto con una certa distaccata ironia, in realtà è profondo di una intensa drammaticità. Si apre con la similitudine di una rosa che sfiorisce, simbolo dell’esistenza umana, ma anche della sua incessante, sofferta e stimolata creatività da parte di ognuno di noi. Quando nasciamo e cresciamo la rosa che è in ciascuno si innalza e si sviluppa, ma prima o poi, soprattutto nel momento più indifeso della sua bellezza espressa e fiorita la rosa appassisce, quasi tra le mani, sotto il meccanico incedere di una sofferenza, o di una cattiveria, resta difatti qualche petalo e lo stelo ricco di spine… è da questo inaspettato presentarsi della sofferenza che noi poi dedicheremo tutta la vita per far rifiorire la rosa: nasciamo come una rosa e dobbiamo rifiorire e mantenerci come quella identica rosa secondo uno sforzo continuo e costante… intanto lo stelo spinoso è adesso l’invisibile e nascosta croce che ognuno abbraccia e porta con se, la corolla bella e profumata è l’ergersi di quella nuova consapevolezza che porta l’essere umano a vedere verticalmente dall’alto la vita nella sua rinnovata maturità, nella sua universale coscienza. Ecco dunque cos’è la nostalgia, il cercare di rinnovare un evento passato o peggio finito in cui abbiamo mostrato uno spiccato senso di maturità e abbiamo vissuto così un momento di bellezza ineguagliabile da figli di Dio.

Dionisiaco ed apollineo come codici comunicativi fusi nella produzione di Di Giacomo?

Questa è una domanda molto bella che coglie l’anima di tutta la produzione digiacomiana, non voglio sempre entrare in concetti difficili, ma sicuramente l’opera del nostro poeta si basa tutta su un concetto di bellezza, spesso musicata, propria della tragedia greca antica e che poi ritroviamo in Nietzsche. Da qui un concetto a me caro inteso come il super uomo. In questa che è pur sempre una biografia romanzata si evince lo sforzo dell’uomo apollineo, forte del suo ordine delle forme, essere messo in difficoltà dallo spirito dionisiaco il quale senza rispettare le forme è pura esaltazione, un’esaltazione che è lampante nell’opera poetica di Salvatore Di Giacomo e che mostra ogni singolo aspetto di quella povertà napoletana che tanto aveva attratto il poeta spesso nei fatti della cronaca nera e aveva rappresentato nelle sue seppur trascurate novelle dalla critica. Il tentativo di giustificare da parte di Di Giacomo la pur sempre connivente bellezza dei napoletani fu il tormentone del poeta; egli stesso nel romanzo è rappresentato come un uomo che rifugge il panorama partenopeo, se ne nasconde, se ne sente in colpa, dicendo di averlo rubato nella forma di un garofano, fino alla fobia per una prospettiva della città che fa di lui un gran sacerdote se non addirittura il Dio incompreso del suo giardino e delle sue creature che ora si dimenano dionisiache nelle sue novelle, ora nelle sue poesie in un desiderio apollineo.

Spero più che di essere stato chiaro di essere stato capace di rendere interessante la lettura del mio romanzo che già alcune persone hanno definito intanto pieno di romanticismo, una definizione che mi fa sorridere, ma vera per colui che tanto nella pur sempre invenzione narrante quanto nella vita di tutti i giorni vorrebbe che Napoli e i napoletani ritrovassero la perduta sensibilità che porta felicemente tutti insieme a fermare il tempo e a contemplare lo spazio in una bellezza eterna di cose e persone. I napoletani, al pari di come già pensasse Di Giacomo, hanno avuto sempre questa abilità e sono sicuro che un giorno se ne approprieranno nuovamente sotto i migliori auspici di chi saprà loro parlare nei termini dell’eredità sostanziale lasciataci da Salvatore Di Giacomo.

Giuseppina Capone

Raffaele Mantegazza: Caro bullo ti scrivo

Professore, quanto differisce il bullismo dalla comune violenza o dall’atavica sopraffazione del forte sul più debole?

Il bullismo è certo una delle forme di questa violenza, forse il suo aspetto più perturbante perché riguarda persone di giovane età. Il bullismo è uno dei dispositivi attraverso i quali la violenza si perpetua, si tramanda di generazione in generazione; interrompere la spirale del bullismo significa mettere in discussione il carattere apparentemente eterno della violenza proporre un nuovo modo di relazionarsi tra persone proprio a partire dai giovani.

La sua lettera è accorta nel non confondere vittima e carnefice altresì nel non cristallizzare ambedue nei loro ruoli. E’ questa una delle chiavi per spingere alla riflessione, avvalorando cambiamento, autocritica e redenzione?

Credo che proprio la cristallizzazione dei ruoli sia uno degli elementi fondamentali da affrontare in chiave pedagogica; il carnefice si ritaglia un ruolo sociale, pensando probabilmente che quella sia l’unica possibilità di autoaffermazione: anche la vittima viene relegata al suo ruolo che è di duplice sofferenza, da un lato fisica e psichica per l’atto subito, dall’altro per il gorgo nel quale si entra pensando che non sia possibile altro ruolo che quello di vittima. Sbloccare la situazione significa redimere il colpevole e offrire alla vittima la possibilità di una nuova serenità.

Il body shaming può essere ascritto al bullismo verbale e quali caratteristiche assume, ove mai rientri nel fenomeno di specie?

Si tratta certamente di una forma raffinata di bullismo che, come il bullismo fisico, prende di mira il corpo; in età puberale e adolescenziale ovviamente il corpo diventa fondamentale, la modellizzazione del proprio corpo su modelli imposti dalla moda o dal sistema mediatico spesso si associa al body shaming creando una vera e propria vergogna di sé, un non apprezzamento del proprio corpo che può arrivare in casi estremi, fino all’auto annientamento, all’autolesionismo. Ovviamente anche in questo caso occorre distinguere tra vittima e carnefice, ma occorre anche ricordare che chi attacca il corpo dell’altro dimostra una fragilità nei rapporti con il suo proprio corpo, dimostra di non star bene con se stesso, sentimento che viene negato attraverso lo star male dell’altro.

Alle parole, sovente, segue il cyberstalking. C’è chi pubblica foto, chi inserisce un commento fra gli innumerevoli possibili che avanzano nella sceneggiatura degli stereotipi sessisti, esorta altri a vessare, vilipendere, schernire, intimorire. Il bullo ha la piena consapevolezza dei suoi atti o la confonde con una ragazzata?

Credo che la mancanza di consapevolezza sia tipica del cyberbullismo; nonostante il ripetersi di iniziative meritorie e di progetti formativi sembra che la rete abbia un ruolo di fascinazione che rischia di rendere insufficienti gli interventi fatti a scuola dagli esperti. Occorre un discorso più complesso sulla rete che parte mio parere dall’eliminazione dell’anonimato. Finché in rete si potrà restare anonimi sarà molto difficile che al fascino del lato impunito e non imputabile si possa sostituire un uso consapevole di questi mezzi.

Quali sono le responsabilità di coloro che ricoprono un ruolo educativo?

Sono ovviamente fondamentali soprattutto nel proporre esempi di relazioni serene, di conflitti mediati in modo non violento; l’eliminazione della violenza nei rapporti tra adulti o tra adulti e ragazzi è il primo passo perché la critica e la condanna del bullismo sono semplicemente degli atti di ipocrisia adulta.

Raffaele Mantegazza insegna pedagogia interculturale all’Università di Milano-Bicocca. Ha scritto tra l’altro Di mondo in mondo. Tracce educative nella Commedia di Dante (Roma 2014), Diventare testimoni. Riflessioni e strategie per la Giornata della memoria a scuola (Parma 2014), Nessuna notte è infinita. Riflessioni e strategie per educare dopo Auschwitz (Milano 2014).

Giuseppina Capone

Le tue parole erano un panneggio di stelle/Galassie di mondi segreti e sommersi

La  silloge di  Donato Di Poce  racchiude meditazione e raccoglimento interiore, unione panica con la natura, disuguaglianza e sperequazione sociale nonché rilievo del poeta nel mondo coevo. Paiono tematiche prive di un fil rouge.

E’ possibile, invece, scorgere una traccia che le inanelli?

Io cerco da sempre la trama del silenzio e dell’ascolto dell’altro da sé e dell’equilibrio cosmico e di una humanitas sociale e poetica, di universi mondi (vedi poesia dedicata a Giordano Bruno) e Onde gravitazionali (dedicata ad Einstein cha dà il titolo all’intera raccolta), una traccia di parole alla ricerca della parola primaria e generatrice di senso e di sensi.

Lei consacra innumerevoli acrostici civili e sociali La ai derelitti, a chi è ai margini, vessato ed oppresso; evidenziando e sottolineando come sia esiziale una ripartenza dallo spirito di solidarietà, da un afflato comunitario. “Forse la poesia è un vento d’umanità/Che accarezza l’Anima del mondo”. Ritiene che la Poesia possa costituire un vettore di buone prassi?

Grazie per la citazione, La poesia è certamente una buona prassi umanitaria ed estetica è l’esempio del valore etico, stilistico e formale dei rapporti umani. Una praxis di conoscenza, di libertà e di empatia con le piccole cose del mondo che nessuno vede, con le cose invisibili che attraversiamo e ci attraversano ogni giorno.

Quali sono le ragioni profonde che l’hanno indotta e spinta ad istituire un parallelismo tra le onde gravitazionali e le voci che producono una poesia?

Forse lo scarto minimale e invisibile tra noi e la percezione del mondo, la correlazione tra le nostre azioni e parole e il cambiamento impercettibile che producono nella realtà e nello spazio/tempo. Le onde gravitazionali sono come piccole increspature del tessuto dello spazio-tempo che permea tutto l’universo. Secondo Einstein la gravità stessa è dovuta alla curvatura dello spazio-tempo causata dalla massa. Le onde gravitazionali sono prodotte dal movimento di corpi dotati di massa nello spazio-tempo. Nel 2016 a distanza di un secolo dalla teoria di Einstein, la fisica ha confermato che le onde gravitazionali esistono davvero e che la teoria di Einstein era giusta. I due buchi neri osservati, prima di fondersi hanno percorso una traiettoria a spirale per poi scontrarsi a una velocità di circa 150 mila chilometri al secondo, la metà della velocità della luce. Il fenomeno è stato accompagnato della fusione di un sistema binario di buchi neri. Non è forse vero che le sillabe assomigliano a un sistema binario di senso? E non è forse vero che la parola una volta rivelata, scoperta e messa in circolo nel sistema testo poetico, determina una variazione nel sistema poetico e culturale? Non è forse vero che la poesia è un sistema talmente complesso e potente da resistere e sopravvivere persino all’uomo stesso che le ha generate, create, scoperte?

La sua parola è minimale, quasi sussurrata. Quali emozioni intende risvegliare nel lettore?

“Amiamo le parole perché prima erano silenzi”, in un mondo che pensa solo all’immagine e ad apparire , che grida soltanto, il poeta è colui che tace più a lungo. La mia poesia nasce dal silenzio e dall’ascolto e vuole sussurrare e accarezzare una riflessione, una visione, un’immagine. Dopo anni in cui scrivevo poemetti, Alda Merini mi fece capire che in ogni mia terzina o quartina, c’era un mondo chiuso e risolto in sé. Mi invitò a scrivere aforismi ritenendo che io avessi il dono della sintesi tra poesia, ironia e filosofia. Nacquero così i miei “Poesismi”.  Ad oggi ben sette libri di poesismi.

Lei è un poeta, un critico d’arte, uno scrittore, un fotografo. Reputa che l’arte possa essere, come di fatto è, terapia dei mali dell’anima?

Certamente l’Arte e la poesia prima ancora che essere un veicolo di idee, emozioni estetiche e stilistiche è un’autoterapia interiore, un modo per prendere coscienza della propria interiorità, dei propri bisogni più intimi e creativi. L’uomo senza la sua creatività è solo un gregge consumistico, una macchina di like e di consensi sterile, un automa senza idee e senza pensiero. L’intera terza parte del libro: “Ulisse il cavaliere azzurro”, è dedicata all’amico poeta prematuramente scomparso Ulisse Casartelli, ed è una sorta di riflessione e dialogo a due sulla poesia, sulla vita e sul dolore del mondo.

 

Una stanza vuota

                         Per Ulisse Casartelli

Una stanza vuota racconta

La discesa agli inferi

E l’attraversamento del dolore.

Una stanza vuota racconta

Il ritrovamento di se stessi

E attraversamento della leggerezza

L’inchiostro d’amore e di parole

Attraversate dal silenzio.

Una stanza vuota racconta

L’ascolto e la solitudine

Il desiderio e il viaggio nell’altro e nell’oltre

La coscienza di un poeta

Che sfidò il nulla e vinse

Che accarezzò l’erba e conobbe il respiro

E un giorno abbracciò il mondo

E scoprì d’avere le braccia troppo piccole

Ma il suo cuore era diventato un nido di solitudini

Una pista d’azzurro per volare libero nell’infinito.

 

*dal libro di Donato Di Poce, Onde Gravitazionali, Arcipelago Itaca Edizioni, OSIMO (Ancona), 2020.

 

Donato Di Poce, ama definirsi un ex poeta che gioca a scacchi per spaventare i critici. Poeta, Critico d’Arte, Scrittore di Poesismi, Fotografo. Artista poliedrico, innovativo ed ironico, dotato di grande umanità, e CreAttività. Ha al suo attivo 23 libri pubblicati (tradotti anche in inglese, arabo, rumeno e spagnolo), 20 ebook pubblicati su Amazon e 40 libri d’arte Pulcinoelefante. Dal 1998 è teorico, promotore e collezionista di Taccuini d’Artista. Ha realizzato L’Archivio Internazionale di Taccuini d’Artista e Poetry Box di Donato Di Poce, progetto espositivo itinerante. (Vedi sito internet: www.taccuinidartista.it). Tra le numerose pubblicazioni di Poesie ricordiamo: Atelier d’Artista, I Quaderni del Bardo Edizioni, Lecce, 2020. Onde gravitazioni, Arcipelago Itaca Edizioni, Osimo (AN) 2020. Artaud: Il Poeta e il suo doppio, I Quaderni del Bardo Edizioni, di Stefano Donno, Sannicola (LC), 2019. La poesia dilata i confini. Omaggio a Tomaso Kemeny, I Quaderni del Bardo Edizioni, di Stefano Donno,  Sannicola (LC), 2018. Lampi di verità, I Quaderni del Bardo Edizioni, di Stefano Donno, Sannicola (LC), 2017. Ut pictura poesis,  Dot.com Press, Milano, 2017. Vita, Poemetto, Il Sottobosco, Bologna, 2017. Labirinto d’amore, Lietocollelibri, Como, 2013. La zattera delle parole, Campanotto Editore, Udine, 2005 e nel 2006 è stato ristampato e tradotto con testo inglese a fronte, con traduzioni di Daniela Caldaroni e Donaldo Speranza, sempre per la Campanotto Editore, Udine. L’origine du monde, Lietocollelibri, 2004. Poemetto Erotico. Vincolo testuale, Lietocollelibri, Como, 1998 “opera prima” in versi che era in realtà un’accuratissima scelta antologica, con testi critici di Roberto Roversi, e Gianni D’Elia.

Giuseppina Capone

Contro la violenza sulle donne. Non possiamo fermarci

Ogni lotta contro la violenza maschile sulle donne è lotta contro la discriminazione.

Ed ogni manifestazione in tal senso deve avere come obiettivo la sensibilizzazione contro questa violenza trasversale che travolge il corpo delle donne tra le mura domestiche, sul posto di lavoro e per strada. Nessun luogo è sicuro e non c’è un tempo dedicato alla lotta. Anche in un periodo straordinario e ricco di incertezze come quello attuale, in cui gli spazi si restringono e le piazze non possono accogliere le voci della protesta, non possiamo fermarci e dobbiamo parlare.

La discriminazione si perpetua viscida e sistematica a seconda degli ambiti e delle varie parti del mondo in cui si trovano le femmine e quando sfocia nella violenza fisica lo fa fisiologicamente.

Nel mercato del lavoro queste dinamiche non sono un’eccezione: salari più bassi a parità di mansioni, estrema difficoltà nel rivestire cariche apicali, stalking, mobbing, sfruttamento, in un’escalation di comportamenti aggressivi che mirano ad annientare la vittima in quanto persona rendendola ostaggio del proprio aguzzino. E a volte sono gli Stati ad avallare determinate pratiche che favoriscono discriminazione e violenza di genere.

È il caso del Kafala, parola araba che indica un sistema di garanzia o patrocinio, meglio tradotto in inglese con il termine sponsorship, adottato dai Paesi del Golfo per regolare l’ingresso e la residenza legale nei loro confini dei migranti economici.

Kafala è un sistema di controllo. Nel contesto della migrazione è un modo per i governi di delegare la supervisione e la responsabilità dei migranti a cittadini o aziende privati. Il sistema offre agli sponsor (datori di lavoro) una serie di capacità legali per controllare i lavoratori: senza il permesso del datore di lavoro, i lavoratori non possono cambiare, lasciare un lavoro o lasciare il Paese. Se un lavoratore lascia un lavoro senza permesso, il datore di lavoro ha il potere di annullare il visto di residenza, trasformando automaticamente il lavoratore in un residente illegale nel paese. I lavoratori i cui datori di lavoro annullano i loro visti di residenza spesso devono lasciare il paese attraverso procedure di espulsione e molti devono trascorrere del tempo dietro le sbarre.

Declinato sulla pelle delle donne questo sistema è diventato legittimazione di abusi e torture.

Come sempre tutto comincia con la promessa di una vita migliore. Una volta preso servizio nelle case saudite, le lavoratrici si ritrovano spesso a vivere alla stregua di schiave; costrette dalla necessità a sottostare al volere del loro sponsor molte non riescono ad affrancarsi, non ricevono salario e non possono denunciare qualcosa che è consentito dalla legge.

Il forum bengalese Samajtantrik Mohila denuncia che nei primi otto mesi di quest’anno 859 donne sono rientrate in Bangladesh per sottrarsi a condizioni di vita insopportabili, mentre si calcola intorno a 5000, negli ultimi 3 anni, il numero complessivo delle migranti rientrate in patria a causa delle violenze subite.  Almeno 19 invece si sono tolte la vita dal 2016 a oggi.  Prima di poter ritornare a casa le donne senza passaporto e senza la garanzia dello sponsor devono aspettare mesi, se non anni, alloggiate in strutture gestite dall’Ambasciata del Bangladesh in Arabia Saudita. Una volta rimpatriate, rischiano l’emarginazione sociale a causa delle violenze sessuali che in molti casi hanno subito, non solo da parte dei datori di lavoro sauditi, ma spesso anche nelle agenzie di reclutamento.

Queste ultime ottengono vantaggi cospicui operando da intermediari, arrivando a guadagnare fino a 120 dollari per ogni donna ingaggiata, una cifra consistente in un Paese  con un PIL pro capite ancora estremamente basso.

E tutto accade sembra con la compiacenza del governo di Dacca le cui  relazioni con l’Arabia Saudita si fanno sempre più strette in materia di commercio e investimenti.

Lo scorso anno il Bangladesh è uscito dalla lista dei Paesi meno sviluppati, sia secondo le Nazioni Unite che per la Banca Mondiale e proprio in un’ottica di espansione economica i rapporti con l’Arabia Saudita non possono essere compromessi, per cui su questa situazione si tace.

Al contrario di ciò che accade in altri Stati, come ad esempio in Indonesia o in Pakistan, in cui sono stati introdotti divieti che impediscono alle lavoratrici di recarsi in alcune zone del Golfo in seguito a ripetuti casi di abusi, il governo bangladese continua a promuovere l’emigrazione di lavoratrici domestiche poiché gli introiti derivati dalle rimesse costituiscono una fonte di entrate irrinunciabile.

Sul corpo delle donne passano investimenti e scelte politiche, si costruiscono voci d’incasso per alcuni governi e per tutti si potrebbero basare opportunità di crescita economica e sociale, basterebbe una maggiore considerazione di quei corpi.

Rossella Marchese

Vali per ciò che sei non per ciò che fai

“Io valgo per quello che sono, non per quello che faccio ma la maggior parte delle persone valuta sé stesso e gli altri in base a ciò che hanno realizzato nella propria vita. Credo che si dovrebbe misurare il valore di una persona per quello che ha nel profondo e per come tratta il prossimo, prima di ogni cosa.  Eppure ci si continua a giudicare in base alle scelte personali, che sia per la carriera o per la posizione culturale o economica. Se iniziassimo a osservare il mondo anche col cuore  la nostra vita cambierebbe, vivremmo davvero. Ho trascorso anni avendo una visione della vita sbagliata, superficiale, ora voglio andare oltre.”

Non è mai troppo tardi per cambiare direzione, per osservare la vita da un’altra prospettiva.  Per farlo bisogna adottare l’intelligenza anche nella sfera emotiva oltre in quella razionale. Come sostiene lo psicologo, nonché insegnante ad Harvard e collaboratore scientifico di New York  Times, Daniel Goleman: “Essere intelligenti non consiste solo nel sapere comprendere concetti complessi come la metafisica kantiana o le equazioni differenziali: intelligenza è (anche) le capacità di riconoscere le proprie emozioni, di mettersi nei panni del prossimo, di provarne empatia. È guardar la vita con la mente aperta e comprenderne il significato vero.”

Osservare la vita con la mente aperta può portare giovamenti per ognuno di noi,  al fine di mutare la propria, qualora se ne  abbia una, distolta percezione delle cose e del mondo e, soprattutto, per cogliere la vera essenza di sé e degli altri per poterne poi riconoscere il valore vero. Spesso ci si sente valorosi soltanto per ciò che si fa, ci si sente orgogliosi solo in base ad un buon risultato raggiunto di un obiettivo che ci prefissiamo quale lavorativo o universitario e, di conseguenza, si tende a valutare anche gli altri in base a tali requisiti senza pensare che non bastano per pesarne il valore.  Il valore di una persona si misura per la sua ricchezza d’animo e per come si comporta con il prossimo. D’altronde, sembra che questo vivere di futilità e frivolezze ci abbia portato a giudicare gli altri in modo superficiale. O, addirittura, in modo distolto. Perché spesso si tende  a dimenticare ciò che  davvero conta dando più importanza alle apparenze, senza riuscire ad andare oltre. In sostanza, una persona dotata di una profondità d’animo e che rispetta il prossimo è più rara di quanto si possa immaginare.

Rispettare il prossimo: la prima regola per stare al mondo

Un basilare concetto eppure in pochi lo sanno:  se si rispetta il prossimo si ha già capito come si sta al mondo. È la prima disciplina da imparare e finché non saremo soli sulla terra ci saranno delle regole da rispettare per poter vivere con gli altri.  Iniziamo,  dunque, a considerare ciò che davvero conta: il rispetto.  Una tematica apparentemente banale ma di vitale importanza perché quando quest’ultimo viene a mancare si può già considerare terminato un rapporto, perché sono queste le fondamenta che sostengono ogni tipo di  relazione.  È quindi fondamentale aprire la mente, guardare lontano, andare oltre ogni preconcetto, ogni pensiero di luogo comune, eliminando la presunzione e assumendo una gran dose di umiltà per tenere sempre la porta della nostra mente aperta in modo da lasciar entrare  nella nostra testa ogni nuova esperienza perché se la terremo chiusa ogni situazione nuova che vivremo, anche la più interessante ed entusiasmante, non ci insegnerà nulla.

Sin dalla tenera età

Se si spiega ai bambini che la cosa fondamentale della vita è la profondità d’animo e il rispetto verso il prossimo si avrà già insegnato loro come si sta al mondo e abbasseremo questo stereotipo di perfezione: “sei bravo solo se vai bene a scuola o se diventi qualcuno di importante per la società e guadagnerai tanto”. È questo che spesso diciamo ai nostri bambini.  Studiare e realizzarsi è fondamentale ma non bisogna sentirsi importanti o amati solo per questo.  Questi potrebbero essere alcuni dei motivi per cui tanti bambini, una volta diventate adulti, assumono atteggiamenti quali: egoismo, presunzione,  prepotenza, egocentrismo. Oppure, al contrario, fragilità e insicurezza  perché crede di meritare affetto solo se è bravo nelle cose che fa. Sarà quindi sempre alla continua ricerca della perfezione di sé. Spiegare, dunque, quali sono le cose fondamentali della vita prima di ogni altra cosa, e capiranno, sin dalla tenera età, che il rispetto verso il prossimo è la prima cosa, e conosceranno l’umiltà e il valore di sé stessi e di un qualsiasi tipo di rapporto. E questo, al contrario del pensiero di molti, vale molto di più di qualsiasi altra cosa.

 

“In passato pensavo che le persone si valutassero per ciò che fanno e non per ciò che sono, ma mi sbagliavo.  Ho voluto cambiare modo di vedere vita, ora mi piacciono le persone vere, quelle che ti guardano l’anima.”
Con queste parole Gaia, 28 anni, napoletana. Racconta il suo cambiamento di vita.

Gaia, cos’è che ti ha fatto cambiare modo di vedere la vita?

Provengo da una famiglia benestante. Ho studiato nelle scuole di alto prestigio e le persone che mi circondavano erano tutte in un ceto alto. Sono nata e cresciuta con questa concezione della vita e cioè che valgo solo se raggiungo i miei obiettivi e di conseguenza valutavo le persone solo per quello che fanno. Ad un tratto tutto questo iniziava a farmi stare male e decisi quindi di circondarmi di persone che mai nella mia vita avrei pensato potessi  considerare, persone semplici nell’apparenza ma ricche dentro. Quelle persone alle quali non importa cosa fai ma come sei. A dirla tutta, in passato ne andavo fiera di tutto quello che mi circondava: macchine di lusso, vestiti costosi, mai un capello fuori posto e unghie sempre perfette. Ma da un po’ di tempo stavo iniziando a sentire una sensazione di vuoto nell’anima  e quando stavo con amici non vedevo l’ora di andar via. Come se tutto quello che mi aveva reso felice, improvvisamente mi rendeva infelice, cercavo altro. Qualcosa di vero. Ciò che cercavo era  qualcosa che mio il cuore desiderava, qualcosa che in quella cerchia di gente nessuno avrebbe potuto darmi. Ho allora deciso di provare a cambiare vita allontanandomi da casa e andando a vivere da sola.

Che rapporti hai adesso con la tua famiglia?

Mi hanno criticata e ancora lo fanno, non i miei genitori ma parenti e vecchi amici. Perché il mio abbigliamento è cambiato: niente più abiti firmati, niente macchine di lusso, ne capelli sempre perfettamente in ordine, ne labbra gonfie e questo per loro è eresia. “Hai la possibilità di vivere come una regina e sempre alla moda  e hai scelto di essere una pezzente, quante donne darebbero l’anima  al posto tuo” dice spesso mia zia, sorella di mio padre. Credo che abbiamo un opinione diversa di ricchezza. La ricchezza la si cerca dentro di se, non nelle cose materiali. “Venderebbero l’anima al diavolo per essere ricche soltanto quelle ragazze tremendamente vuote d’animo. Io do valore all’essenza di una persona e questo mi basta per la vita per essere ricca”.  Le rispondo. Il mondo del lusso è ormai un lontano ricordo per me, questo non vuol dire che non mi prendo più cura del mio aspetto estetico ma non ne faccio più un ossessione o l’unico scopo della vita. Adesso vivo a Roma con il m io ragazzo per di più  mio compagno di università e per vivere lavoriamo nel week end, io come barista e lui come cameriere in un pub.  Siamo felici.

Non ti mancano i tuoi vecchi amici e la tua vecchia vita?

No, perché  i miei vecchi amici sono persone che non ti lasciano niente nel profondo. Spesso capita che può mancarti una persona che hai frequentato per pochi mesi e invece non sentire alcuna mancanza per una persona che hai vissuto anni e anni. Ciò che ti regala una persona non equivale al tempo che ci trascorri insieme ma a ciò che ti lascia nel profondo.  I miei nuovi amici sono persone sensibili.  Il mio vecchio stile di vita non mi manca nemmeno un po’. Continuare a Vivere in quel  mondo di apparenze mi avrebbe rovinato la vita e avrei represso tutto ciò che sento e che realmente sono.  Tre mesi fa ho scoperto di essere incinta  e ne sono felice anche se ancora non ho terminato gli studi, ma avere accanto un giusto compagno di vita, giuste amicizie e soprattutto un nuovo quanto giusto modo di vedere la vita, mi fa sentire sicura di me e avere la certezza di potercela fare. E poi non vedo l’ora di stringerla tra le mie braccia e insegnarle le cose importanti della vita.

Quali saranno le prime cose che insegnerai a tua figlia?

Guardare la vita attraverso il cuore. E poi le spiegherò il significato della parola empatia, perché  dovrà  cercare sempre di mettersi nei panni degli altri prima di giudicare; che dovrà  valutare le persone per come sono nel profondo e non solo per ciò che fanno e rispettare il prossimo, chiunque esso sia, qualunque lavoro faccia,  e da qualunque paese venga; che deve fare del bene o che almeno non deve fare del male.  Le dirò che deve tanto a chi merita,  che deve accettare i suoi limiti e non avere paura delle sue debolezze e di apprendere soltanto da chi crede sia migliore di lei, senza provare invidia, perché lei sarà capace di raggiungere ogni obiettivo alla pari di qualsiasi altra persona. Ed ancora di essere responsabile e razionale nelle scelte importanti della vita ma di prenderne qualcuna anche di pancia perché vivere e lasciarsi trasportare dalle emozioni e fare qualche follia certe volte fa bene al cuore e ti fanno sentire viva. Le dirò di raggiungere i suoi obiettivi, qualsiasi essi siano, ma di non farne un dramma qualora non dovesse riuscirci perché se non è brava in una cosa magari lo è in un’altra, m di provarle tutte prima di arrendersi.  E ancora che non è necessario piacere a tutti.  Non per forza.   Di non accontentarsi mai di un’amicizia ne tantomeno di un amore; che una piccola parte di sé rimanga sempre bambina perché a volte la vita diventa pesante e c’è bisogno di un po’ di leggerezza, almeno la giusta dose. Le insegnerò ad essere umile e gentile, ma sveglia e scaltra. E, ancora, ad avere gli occhi aperti su tutto e tutti e se qualora qualcuno dovesse ferirla le spiegherò che dovrà,  in un qual modo, trarre il lato positivo, perché è meglio essere troppo buoni che troppo cattivi. Le dirò che ogni tanto potrà anche vivere fuori dagli schemi, fuori dalle regole che impone la società; che la vita è sua e nessuno deve dirle come deve condurla.  Ma l’unica cosa che non dovrà mai dimenticare è che la sia mamma sarà sempre dalla sua parte.

Te la sentiresti di dare un consiglio a chi vuole cambiare vita?

La prima cosa da capire è che bisogna ignorare il giudizio degli altri altrimenti si finisce per condurre una vita che non sentiamo nostra. È la cosa più sbagliata del mondo. Bisogna essere se stessi e sentirsi a proprio agio prendendo scelte che ci rendono felici. Anche se nella vita ci saranno spesso situazioni difficili da affrontare o cose che faremo con meno piacere, è inevitabile. Ma nessuno deve decidere per noi. Ho l’impressione che molte persone abbiano paura di mostrarsi  per come sono e di parlare col cuore e di lasciarsi andare. Assumono un atteggiamento palesemente ovvio ai fini di volersi proteggere senza rendersi conto che così non vivono davvero.  Per intelligenza nelle sfera sentimentale si intende, oltre ad avere la mente aperta, anche vivere col cuore per vivere realmente ciò che si vuole.  Se si diventa forti e sicuri di sé si può anche mostrare per ciò che si è davvero senza paura di essere distrutti o giudicati da chi vive in un mondo di clichè. Perlomeno questo è quanto ho capito. Basta solo un po’ di coraggio, e non dimenticarci di vivere mentre viviamo.

Alessandra Federico

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