Vincenzo Orefice è un poeta che pensa che la poesia sia un dono.
Lei ha solo vent’anni, è un giovanissimo poeta. Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.
La scelta della Poesia mi piace pensarla come una scelta inevitabile. La trovo un mezzo ottimo per poter comunicare sia l’essenzialità delle cose che la propria sostanzialità, senza essere prolissi e soprattutto, per quello che concerne la mia persona, centrando il messaggio. Trovo che l’espressione metaforica, la ritmica, siano per me più espliciti di molti discorsi che ho costruito, ad esempio, con l’utilizzo della Prosa.
Lei sembra accogliere l’idea della Poesia come un dono da ricevere inaspettatamente, già presente nel Poeta. Ritiene che la Poesia non sia ricerca?
Credo assolutamente che la Poesia sia soprattutto ricerca, io stesso senza l’analisi linguistica, o anche semplicemente l’assimilazione dei vari input che mi vengono forniti dai miei studi e dalle mie letture personali, forse non scriverei niente perché non avrei le parole per esporre quello che sento e vedo. Allo stesso tempo però penso che la Poesia abbia un suo fondamento nella predisposizione. Non si nasce poeti ma si può avere un’inclinazione verso la Poesia, come chi ha una vocazione per la Musica, la Danza o l’Arte figurativa: come queste hanno bisogno di una proclività verso di esse, affinché anche il loro studio e perfezionamento possa essere sostenuto, lo stesso vale per la Scrittura.
I suoi versi, soventemente, suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di comporre versi?
REPORT Tengo a precisare che all’interno della raccolta ho voluto parlare di una specifica storia d’amore, quella che per me è stata la più feroce e che ha creato un grande solco nella mia crescita soprattutto nei suoi termini negativi oltre che positivi, consequenzialmente gli scritti hanno di base un forte sentimento di terrore, misto ad un senso d’inadeguatezza nei confronti del sentimento. Parlando invece della mia idea d’amore in generale, la quale mi spinge a comporre, posso assolutamente affermare che non rifuggo dall’amare o dall’essere amato. Allo stesso tempo però vivo l’amore come una sorta di “malattia”, per intenderla come Saffo o Cavalcanti, e tutto questo è dato da un retroscena educativo molto religioso che ha instillato in me l’idea che “amare” abbia a che fare con la devozione e la celebrazione, anche del dolore, e quindi con tutto ciò che permette di comunicarlo.
Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.
Credo che ciò che può essere definito “reale” sia costituito dall’insieme di tutte le soggettività esistenti, le quali raccontano, ognuna di loro, una parte di esso, anche a rischio di contraddizioni. Il mio scopo è quello di comunicare ciò che della realtà io percepisco, utilizzando ovviamente le mie visioni, spesso surrealiste, altre simboliste, mescolando la quotidianità con la dimensione fantastica, proprio perché questo è il modo in cui personalmente elaboro quello che mi circonda.
Leggendo, ad esempio “Dimanche, après-midi”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?
Questo è assolutamente vero, mi piace molto giocare con i vari significati che le parole possono assumere e con le numerose immagini che poi si vengono a formare. Vivo di molti simboli che nella forma lirica mescolo fra loro, spaziando fra diversi ordini di possibili verità e realtà sovrapposte. Infatti questo è molto evidente nel testo da lei menzionato in cui mi sono molto destreggiato fra i simboli offerti della mia realtà onirica.
Vincenzo Orefice è uno studente di Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Parallelamente alla scrittura, si dedica all’attività di modello, partecipando a diversi progetti fotografici indipendenti e posando per mostre di artisti emergenti. Molti dei suoi scritti appaiono nelle riviste napoletane Libero Pensiero e Kairos, nuove arrivate all’interno dei circoli culturali della città partenopea.
Giuseppina Capone