Stefania Prandi: Le madri lontane

In che modo il suo libro restituisce la complessità emotiva del distacco tra le madri migranti e i figli lasciati nei paesi d’origine? Quali strumenti narrativi ed espressivi usa per rendere tangibile questa frattura affettiva?

Le Madri Lontane è un reportage che porta alla luce una realtà spesso ignorata: la maternità delle donne considerate subalterne dalla nostra società. Si tratta di donne impiegate come braccianti o badanti, soggette non solo a sfruttamento lavorativo e discriminazione di genere, ma anche a un peso emotivo lacerante. Lasciano i propri paesi d’origine — principalmente Romania e Bulgaria — per lavorare in Italia, separandosi dai figli, che vengono affidati alle nonne. Questo distacco, che può durare mesi o anni, si traduce in una sofferenza silenziosa, che grava profondamente sulle loro vite.

Come Le madri lontane contribuisce a ridefinire il concetto di maternità in un contesto globalizzato, in cui l’accudimento diventa spesso delegato a distanza?

Il libro adotta un metodo consolidato dall’autrice: creare uno spazio in cui le persone intervistate possano prendere la parola con libertà. Dopo aver incontrato braccianti e badanti in Romania e Bulgaria — paesi chiave per la manodopera femminile in Italia — l’autrice ha costruito un contesto narrativo in cui le protagoniste potessero esprimersi secondo le proprie modalità e sensibilità.

Il testo mostra con grande precisione le contraddizioni del lavoro domestico e di cura svolto dalle madri migranti nei paesi occidentali. In che modo la narrazione evidenzia la tensione tra la cura prestata alle famiglie ospitanti e il sacrificio della cura dei propri figli?

La maternità, nell’immaginario collettivo occidentale, è spesso associata alle donne bianche, native dei paesi europei più sviluppati. Tuttavia, non esiste un unico modo di essere madre. Il modello stereotipato impone un’idea di “madre ideale”, da cui ogni deviazione appare come una mancanza. Le Madri Lontane sfida questo schema, mostrando che anche la maternità a distanza — scelta dolorosa dettata da necessità economiche — sia un atto di amore e sacrificio. Queste donne antepongono il futuro dei propri figli alla propria sofferenza, subendo conseguenze psicologiche e fisiche profonde.

Pur focalizzandosi sulle madri, il libro lascia emergere anche il punto di vista dei figli rimasti indietro. In che modo l’autrice rende visibile la loro esperienza e il loro senso di abbandono?

Il reportage dà voce non solo alle madri, ma anche ai figli e alle figlie, che affrontano le sfide imposte da questa separazione. Tutti siamo figli di qualcuno: questa consapevolezza invita i lettori e le lettrici a immedesimarsi nella fatica e nella capacità di reazione e autoaffermazione (agency, per usare un termine specifico) di chi vive lontano dalla madre. La narrazione con molti discorsi diretti di nonne, insegnanti e presidi permette di comprendere il vuoto emotivo che si genera e le difficoltà quotidiane che questi giovani affrontano.

Le madri lontane è un’opera giornalistica che assume toni di denuncia sociale. In che modo è riuscita a mantenere un equilibrio tra narrazione empatica e rigore documentario?

I dati sono cruciali per comprendere la portata del fenomeno. Secondo Save the Children, ogni anno circa mezzo milione di minori romeni vive senza uno o entrambi i genitori. Non si tratta, quindi, di eccezioni isolate, ma di una realtà strutturale.

Come il libro inserisce la condizione delle madri migranti all’interno di un discorso più ampio sulla stratificazione sociale e sulle diseguaglianze di genere?

L’approccio giornalistico e fotogiornalistico dell’autrice bilancia narrazione empatica e rigore documentario. Il reportage si fonda su fatti concreti, arricchiti da dati di associazioni, istituzioni e ricerche accademiche, senza mai perdere di vista la dimensione umana delle testimonianze raccolte.

In che modo il testo lavora sul paradosso della presenza-assenza, ovvero il fatto che queste madri, pur essendo lontane, continuano a esercitare un ruolo centrale nella vita dei figli?

Le istituzioni hanno definito questi ragazzi “orfani bianchi”, una terminologia che però viene rifiutata dalle madri intervistate. Essere madri a distanza non significa cessare di essere madri: queste donne mantengono un contatto costante con i figli, cercano di tornare appena possibile e progettano ricongiungimenti. Alcune riescono a far studiare i figli e ad acquistare una casa prima di rientrare nei paesi d’origine; altre li portano con sé nel paese in cui lavorano, una volta raggiunta una stabilità.

Quali conseguenze a lungo termine evidenzia l’opera rispetto alle relazioni familiari e allo sviluppo emotivo di chi vive questa separazione?

Le conseguenze emotive e psicologiche di questa separazione sono gravi. Le madri spesso soffrono di disturbi mentali e fisici, come dimostrano testimonianze raccolte in luoghi emblematici, come l’ospedale psichiatrico di Iași. Anche i figli risentono della lontananza: alcuni riescono a resistere grazie al supporto di nonne, insegnanti e comunità locali; altri, invece, crollano sotto il peso della solitudine, manifestando abbandono scolastico, dipendenze e disagio emotivo.

In un panorama letterario e giornalistico spesso incentrato sulle migrazioni dal punto di vista economico o politico, quale spazio apre Le madri lontane per una riflessione più intima e umana sulla diaspora femminile?

Il progetto non si esaurisce nel libro pubblicato con People: si estende ad una mostra fotografica itinerante, che è appena stata esposta nella biblioteca comunale di Como e prossimamente sarà a Verbania, all’Istituto superiore Cobianchi. Esposta in luoghi chiave per stimolare la riflessione collettiva, la mostra — così come il reportage — vuole essere uno strumento per scuole e giovani generazioni. L’obiettivo è offrire uno sguardo alternativo sulla migrazione, andando oltre le narrazioni geopolitiche e mostrando l’impatto reale, umano, quotidiano di queste scelte forzate, spesso invisibili nei media mainstream.

Giuseppina Capone

Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta

 Stefania Prandi, il femminicidio può essere attribuito al caso o è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, tenendo presente che, secondo il rapporto Eures, in Italia viene assassinata una donna ogni sessanta ore?

Come ha dichiarato l’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1993, «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne». Il femminicidio si inserisce in questa subalternità. In Italia viene assassinata, in media, una donna ogni sessanta ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi, in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40% del totale. Scrive il magistrato Fabio Roia in “Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche”: «Il fenomeno della violenza contro le donne è un atteggiamento diffuso, oscuro, antico, tollerato». Ci sono diverse statistiche a disposizione. Nei paesi dell’Unione europea una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita, e una su venti è stata stuprata. I dati sono in linea con l’Italia, stando ai rapporti annuali dell’Istat. Da noi, inoltre, manca una percezione reale del problema: appena un terzo di chi subisce violenza ritiene di essere vittima di reato.

Si reputa che la intimate partner violence si riveli una strategia per “fare il genere”, e per “fare le maschilità”. La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che la lingua sviluppa dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?

Come scrive giustamente la ricercatrice e studiosa Chiara Cretella nell’introduzione al mio libro, “i processi di nominazione creano il reale”. Certe espressioni o modi di dire sono parte integrante della violenza, sono espressioni della cultura della violenza maschile contro le donne e della violenza di genere che ancora definisce la nostra società.

Chi paga le conseguenze del femminicidio ed in quali forme?

Quando una donna muore per mano di un uomo, non viene distrutta soltanto una vita, si colpiscono intere famiglie. A pagare le conseguenze dei femminicidi – che pesano per generazioni, duecento anni o più – sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli . A loro restano i giorni del dopo, i ricordi immobili appesi ai muri, trattenuti dalle cornici, impressi nei vestiti impolverati, le spese legali, i ricorsi, le maldicenze nei tribunali («se l’è cercata», «era una poco di buono»), le giustificazioni: «stavano litigando», «lui era fuori di sé per la gelosia», «era pazzo d’amore», «non accettava di essere lasciato».

I media offrono plurimi e molteplici voci di famiglie che rifiutano di ripiegarsi nella sofferenza ed avviano battaglie giornaliere. Qual è il loro fine?
Sempre più familiari (nella maggioranza dei casi madri), intraprendono battaglie quotidiane, piccole o grandi, a seconda dei casi. C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione e fa attivismo online. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna né alla colpa di chi è stata uccisa, ma ha radici culturali ben precise.

Le norme religiose, a cui sono poi seguite le leggi civili, hanno acuito le disparità e le differenze tra maschi e femmine. Qual è ad oggi lo status delle discriminazioni di genere, soventemente preludio a forme di violenza?
Tutti gli indicatori internazionali e nazionali ci dicono che le discriminazioni di genere sono ancora presenti e hanno un peso enorme sulle vite individuali e sulla società.

Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, ha realizzato reportage e inchieste in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura. Tra le sue collaborazioni: Il Sole 24 Ore, National Geographic, Azione, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato con la casa editrice Settenove Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Con l’inchiesta legata al libro ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali e premi come Henri Nannen Preis, Otto Brenner Preis, Georg Von Holtzbrinck Preis, Volkart Stiftung Grant, The Pollination Project Grant. A ottobre 2020 ha ricevuto la menzione speciale alla XXIma edizione del Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne et Donna e Poesia”. Nel 2020 (settembre), sempre con Settenove, ha pubblicato il libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta col quale, lo scorso ottobre, ha vinto il premio letterario Essere Donna.

Giuseppina Capone

seers cmp badge