Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando

Uno sguardo fra gli scaffali della “Biblioteca campana” dell’Associazione Culturale “Napoli è” ed ecco che attrae l’attenzione una pubblicazione di recente riportata alla luce da “la Repubblica”, in collaborazione con Fondazione Eduardo De Filippo.

Pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1954, a febbraio di quest’anno è ritornato disponibile come ristampa “Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando” un volume che ripercorre pagine e storia del Teatro San Ferdinando chiuso all’indomani del terremoto dell’80 e poi per decisione della famiglia e di Luca negli Anni ’90 donato alla città affinché fosse continuata l’opera intrapresa da Eduardo.

Aprono la pubblicazione gli interventi di Tommaso De Filippo, Francesco Somma, Maurizio Molinari, Ottavio Ragone, Conchita Sannino, Roberto Andò, Gaetano Manfredi, Vincenzo De Luca.

La pubblicazione contiene gli scritti di illustri personalità della cultura dell’epoca dell’inaugurazione del teatro.

Locandine, fotografie, immagini, pagine d’arte di Eduardo, articoli, contenuti nelle sue pagine rendono ancor più rilevante, a distanza di 70 anni, la testimonianza  culturale e sociale contenuta in questa pubblicazione.

Antonio Desideri

Enzo Moscato al Teatro San Ferdinando

Fino a domenica 7 gennaio 2018 sarà in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli  quella che si può definire la surreale vicenda di due travestiti e due delinquenti narrata in “Ragazze sole con qualche esperienza”.

Lo spettacolo, prodotto da Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale e Teatri Uniti,  porta in scena il testo  di Enzo Moscato  del 1985 per la regia di Francesco Saponaro con Veronica Mazza, Carmine Paternoster, Lara Sansone, Salvatore Striano.

Quali gli ingredienti? Amore, eros, violenza e sangue, incastonati in una tragica ma esilarante condizione di solitudine.

“Ragazze sole con qualche esperienza” è stato scritto da Enzo Moscato, figura di spicco del teatro contemporaneo e capofila della nuova drammaturgia napoletana insieme ad Annibale Ruccello.

Nello spazio ideato dallo stesso Saponaro, con i costumi di Chiara Aversano, le luci di Cesare Accetta e il suono di Daghi Rondanini, recitano Veronica Mazza (nel ruolo di Bolero Film), Carmine Paternoster (in quello di Cicala), Lara Sansone (Grand Hotel), Salvatore Striano (Scialò). La voce di Giuseppina Bakèr è di Gino Curcione.

La trama: due coppie di emarginati che si incontrano per dare sfogo a un folle e inebriante appuntamento d’amore. “Un plot surreale ed eccentrico – scrive nelle note Francesco Saponaro – nel quale due travestiti, Grand Hotel e Bolero Film, ricevono nella loro alcova Scialò e Cicala, due strampalati delinquenti in fuga da un agguato di camorra; un pretesto narrativo apparentemente inverosimile per raccontare, con impareggiabile qualità profetica, uno spaccato del tempo presente. L’arrivo di Scialò e Cicala mi fa pensare all’irruzione di due scellerati al soldo dell’attuale ‘sistema’ criminale in un appartamento dei Quartieri Spagnoli dove abitualmente si consuma il meretricio. Come in una tragicomica discesa agli inferi, dai giorni bui che attraversiamo si precipita fino a quello spaccato sociale del dopo terremoto nella Napoli degli anni ottanta, caldera virulenta dei mali e delle contraddizioni da cui siamo ancora infestati e grottesco girone infernale senza via d’uscita né scampo”. “La lingua che Moscato abilmente porta in scena – sottolinea il regista – è costituita da un napoletano creolo che pullula di comici turpiloqui e da un uso sapiente di espressioni mutuate da altre radici idiomatiche, dall’immaginario dei fotoromanzi e dalle soap-opera. La vita di questi personaggi estremi, custodi di un’umanissima saggezza popolare ma artefici di crudeli misfatti, si muove con stupefacente teatralità, sospesa tra una straordinaria eloquenza drammatica e un corrosivo e irresistibile umorismo”.

Uno spettacolo di sicuro successo che va visto e seguito con la necessaria attenzione al mix generato dal testo e dalla messa in scena che  offrono a coloro che sono al di là del palcoscenico scene e scambi verbali di particolare interesse.

Alessandra Desideri

Gemito al Teatro San Ferdinando

“Io sento tutte ‘e ccose! Comme si chesta fosse cella mentale…”, questa è la confessione di Gemito nell’introdurre la propria condizione di prigioniero della psiche.
E Gemito è il protagonista de Il genio dell’abbandono in scena in prima nazionale al Teatro San Ferdinando di Napoli. Fino al 5 marzo Claudio Di Palma, regista e attore di riferimento dello Stabile di Napoli, porta in scena l’adattamento teatrale del romanzo di Wanda Marasco Il genio dell’abbandono, edito da Neri Pozza, finalista al Premio Strega 2015. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale, è interpretato da Angela Pagano (nel ruolo di Giuseppina Baratta), Claudio Di Palma (Vincenzo Gemito), Cinzia Cordella (Mathilde Duffaud), Paolo Cresta (dott. Virnicchi), Francesca De Nicolais (Peppinella Gemito), Giacinto Palmarini (Emanuele Caggiano), Alfonso Postiglione (Antonio Mancini), Lucia Rocco (Nannina Cutolo), Gabriele Saurio (Masto Ciccio).
Quella di Vincenzo Gemito è “una reclusione intima e finale, irredimibile e profonda. Ed è proprio questa reclusione a rappresentare il luogo del presente in cui cercano, sulla scena, senso e dinamica, continuità e tempo i segmenti narrativi della straordinaria biografia sincronica articolata da Wanda Marasco per raccontare del genio e dell’abbandono di Vincenzo Gemito”.
Il racconto portato in scena dal regista Di Palma è quello di un “corpo già finito o forse solo non nato di un folle, un corpo attraversato da ombre occulte che ammuinano il cervello, un corpo alla ricerca di una forma finale… ammacari di piscatoriello, un corpo/cella nel quale risuonano ancora tutte ‘e ccose: affettuosità e violenze, perversioni innocenti, amicizie fernute. Risonanze che, “pure se fosse solo pazzaria del ricordo”, sono ancora dolorose. Risonanze che prendono forma in corpi di matre, di mogliere sbagliate, di buon patre, di spiriti di compagnia in carne…. ed ombra. Sono tutti suoni percepiti e non sentuti per effetto del litio mancante, forse, o del bismuto curativo squagliato nelle serenghe; prodotti di una insana ‘nfrancesatura (sifilide contratta in terra parigina) o meglio ancora effetti di quella naturale distonia tra il reale ed il presunto tale che sempre sostanzia la vita creativa di un artista. Quel che ne risulta, dunque, è un Vicienzo in vorticoso delirio ai cui occhi anche Napoli si prefigura come panorama distorto e ‘nguacchiato, anche la Storia, con le sue presunte verità, si accartoccia e stinge in devianze visionarie. I disegni e le sculture, invece, si concretano solo nelle parole, attendono forma dallo struggimento di interiezioni e diverbi, di urla e sospiri e la lingua si modula, così, sui registri variabili di un dialetto napoletano ad un tempo aspro e colto, basso ed aeriforme che si configura come unica, possibile declinazione del verbo della sofferenza”.
E per Wanda Marasco “le vite che possiedono l’annientamento e la capacità di sopravvivere, ovvero le linee essenziali del dramma, appartengono per loro natura al teatro”.
Uno spettacolo teatrale di sicura presa sul pubblico interessato a meglio conoscere questo “genio dell’abbandono” e a percorrere con lui il percorso dell’arte.
Salvatore Adinolfi

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