Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina

Con Alessandro Aresu parliamo di politica ed economia.

l capitalismo politico rappresenta la chiave di lettura principale da lei proposta per accedere al presente. Può definire siffatta categoria?

Il capitalismo politico è l’accoppiamento tra economia e politica all’interno delle potenze, attraverso diversi strumenti. Questi strumenti sono l’uso politico del commercio, della finanza e della tecnologia, la partecipazione statale nelle imprese e più in generale i rapporti tra apparati burocratici e aziende, le sanzioni, le barriere agli investimenti esteri.

Nel mio lavoro, sostengo che questo sistema governi il mondo, perché praticato da Stati Uniti e Cina, seppur in varietà diverse.

Lei descrive minuziosamente l’antagonismo tra diritto ed economia in atto fra Stati Uniti e Cina. Quali sono i termini filosofici di questo scontro?

Le due potenze vedono diversamente il mondo, si pensano diversamente rispetto al mondo, nelle alleanze, nell’influenza internazionale, nell’idea di conquista, nel rapporto tra l’individuo e la comunità. La comune adesione a un sistema capitalistico non cambia queste differenze molto profonde, che pertanto è importante studiare. Ed è sempre cruciale il ruolo dei “traduttori” tra le culture, anche durante i conflitti.

Pechino e Washington vivono un infiammato conflitto di geodiritto: quanto sanzioni, istituzioni internazionali, blocchi agli investimenti esteri influiscono su una guerra ormai tecnologica e giuridica?

Influiscono molto e l’influenza avviene a più livelli. Anzitutto perché le sanzioni degli Stati Uniti non riguardano solo loro stessi, per via della centralità globale di Washington, in particolare nel sistema finanziario. Come cerco di mostrare nel libro, per esempio, l’esclusione di alcune aziende cinesi da parte degli Stati Uniti in alcuni mercati – pensiamo oggi alla discussione sulle telecomunicazioni, un tema presente sulla scena da più tempo riguarda lo spazio, per esempio i satelliti – non coinvolge solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri Paesi che hanno rapporti con quelle aziende. Diventa quindi una questione globale.

Nelle grandi operazioni di fusioni internazionali, possono intervenire inoltre le decisioni delle autorità competenti dei vari Paesi. Non solo e non tanto il merito delle loro decisioni, ma anche le loro tempistiche possono essere influenzate da considerazioni geopolitiche. Anche questo rientra nei casi del geodiritto.

L’economia politica al suo primo vagito è stata delineata nei suoi confini da un’affermazione di Adam Smith: “La difesa è molto più importante della ricchezza”. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella sicurezza nazionale?

Il limite che la sicurezza nazionale impone al mercato è importante perché il concetto di sicurezza nazionale è centrale per la comprensione e per l’articolazione della sovranità. Leggere le trasformazioni della sicurezza nazionale, a mio avviso, è più utile di parlare semplicemente del ruolo dello Stato nell’economia. La sicurezza nazionale ha un forte rilievo per mettere in luce il rapporto tra sicurezza e tecnologia, che orienta e limita il mercato.

La sua ricerca segue tre filoni: la storia dello Stato moderno e dei suoi apparati burocratici; gli ordinamenti giuridici con cui i mercati interagiscono; la storia dello spazio in cui, in passato, è germogliato il capitalismo. Tali direttrici possono convergere?

Sì, è importante evidenziare i rapporti tra queste direttrici e tra questi aspetti, per esempio nella storia e nella continuità dei vari apparati burocratici e nella considerazione storica della progressiva marginalizzazione dello spazio europeo. Chiaramente la ricostruzione che propongo sugli Stati Uniti e la Cina potrebbe essere ampliata anche facendo riferimento ad altre realtà, come per esempio il Giappone, la Russia, la Turchia, e approfondendo meglio i rapporti tra i Paesi europei.

 

Alessandro Aresu è consigliere scientifico di Limes, direttore scientifico della Scuola di Politiche e consigliere del Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale. Si è laureato in filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, dove è stato anche allievo di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. È stato consulente e consigliere di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’Agenzia Spaziale Italiana. Collabora, tra gli altri, con Treccani e L’Espresso. Tra le sue ultime pubblicazioni, L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia (con Luca Gori, il Mulino, 2018).

 

Giuseppina Capone

La democrazia nel XXI secolo

Il calo della democrazia degli stati nel mondo attuale  inducono a ricercare le ragioni, che sembrano essere sia economiche sia geo-politiche.

In questo ultimo decennio i diritti politici e le libertà civili garantiti dagli stati democratici sembrano essere sotto attacco e recentemente la situazione si molto acuita in tutte le regioni del mondo.

Non molto tempo addietro, dopo la seconda guerra mondiale e, soprattutto dopo la caduta dell’impero sovietico, i regimi democratici sembravano avere vinto la loro secolare battaglia.

Questo lo riporta uno studio che ogni anno Freedom House, un’organizzazione americana indipendente, pubblica attraverso un rapporto, “Freedom in the World”, che riporta le valutazioni sul grado di libertà di oltre 200 paesi. La metodologia adottata assegna ad ogni paese  un indicatore sintetico che può oscillare da 0 a 100. Questo a sua volta è composto da 25 indicatori, che oscillano tra 1 e 4 e misurano il grado di libertà in base a diversi parametri che traggono origine dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Secondo Freedom House, la percentuale di Paesi che possono considerarsi democratici (in termini di diritti politici, civili, economici, di opinione e altro), dopo essere cresciuta dal 35 al 48 per cento fra il 1987 e il 2007, si è ridotta al 45 per cento negli ultimi dieci anni e Paesi come Turchia, Venezuela, Ungheria e Polonia, che parevano essersi avviati a diventare solide democrazie, hanno riportato un duro peggioramento negli ultimi anni. Anche se esistono Paesi in cui il sistema politico e civile è migliorato, si è invece ampliata la forbice fra il numero degli stati in peggioramento e in miglioramento. I segnali più preoccupanti provengono dagli Stati Uniti, per molti decenni considerato paese leader dei valori democratici e sia Freedom House che The Economist Intelligence Unit, da qualche tempo, non assegnano più un punteggio pieno agli Usa, anche se i meccanismi presenti nel sistema statunitense risultano ancora saldi, nonostante la leadership americana nel mondo sia in calo.

Alla caduta dell’egemonia americana non ha corrisposto un maggiore intervento dell’Europa e del Giappone, cioè delle economie liberali storiche, ma si è assistito ad un aumento dell’attivismo dei due paesi tradizionalmente autocratici, Russia e Cina.

La prima ha cercato di interferire nelle ultime elezioni americane, francesi e tedesche e, forse, italiane, supportando i partiti xenofobi, e sostenendo militarmente i regimi autoritari nel Medio Oriente.

La seconda, presenta ambizioni egemoniche più globali e il potere economico è stata la migliore arma. La recente decisione di abolire il limite di eleggibilità del presidente in Cina, il rigido controllo dei social network e la forte repressione dei dissidenti residenti all’estero, sembra rendere più improbabile il passaggio del sistema verso la democrazia.

Oggi il mondo è diventato multipolare e il modello occidentale si è rivelato meno seguito da numerosi paesi emergenti sul piano economico, che considerano la democrazia un sistema non efficiente. La Cina è un esempio. Si tratta di una sfida da dover affrontare con determinazione, perché è evidente come i paesi meno democratici siano più inclini a seguire i conflitti militari.

Danilo Turco

Nuovi accordi fra USA e Cina

Anche se la guerra dei dazi tra Usa e Cina sembra rientrata, resta da chiedersi: cosa accadrà in futuro, vista la dipendenza della crescita mondiale da quella cinese?

L’accordo con Xi Jinping è stato trovato dagli Stati Uniti, ma la tensione delle relazioni economiche tra i due Stati ha sollevato una questione di ampie proporzioni sugli squilibri delle partite correnti delle due economie più grandi del mondo.

Va ricordato che la crescita mondiale dipende strutturalmente da quella cinese che nel 2017 è stata del 35 per cento (circa il doppio rispetto agli Stati Uniti). Infatti, se da una parte si assiste al fatto che la “fabbrica del mondo” la cinese, ha spiazzato investimenti e depresso il livello dei prezzi in numerosi settori e in molti paesi, accade che d’altra parte la domanda di consumatori e imprese cinesi ha sostenuto la produzione e l’export di molti altri e diversi paesi, non solo avanzati, ma anche emergenti e poveri. Per questo nessuno si augura un rallentamento dell’economia cinese causato eventualmente da una guerra commerciale minacciata tempo fa da Trump.

A Pechino il 19 maggio i negoziatori hanno fugato i timori di una guerra commerciale, ma non quelli di un forte ribilanciamento, che gli Stati Uniti vogliono accelerare in Cina. Infatti, se si va ad osservare con attenzione, il vero motore cinese per lo sviluppo è stato l’accumulazione di capitale che nel 2014 ha raggiunto un picco del 45% del Pil, per poi iniziare a rallentare con lo sviluppo dei settori delle costruzioni e delle infrastrutture, che sono andati a compensare la minor vivacità dell’export dovuta al crollo della domanda mondiale durante gli anni della crisi. Ma poi, con la diminuzione di fabbisogno di infrastrutture e di abitazioni si è avuto un ulteriore rallentamento del trend dello sviluppo,giunto al 6-7% annuo, e non più del 10%. Infine, sono venuti meno gli altri due pilastri della crescita e precisamente:

la diminuzione della popolazione attiva, registrato ininterrottamente dal 1960, per l’aumento delle generazioni anziane e una diminuzione del tasso delle nascite (per l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro urbano), per cui sembra che anche la Cina diventi“un paese di vecchi”, rispettando la tendenza occidentale, ma senza essere diventato un paese ricco;

l’andamento della crescita della produttività, che è fortemente legato alla crescita dell’export per poter competere sui mercati globali, come presentato dai dati di Conference Board analizzati da Capital Economics, si vede che dal 1960 i paesi che hanno saputo generare una crescita della produttività sono anche quelli con la maggior crescita delle esportazioni e raramente, (solo nell’1,2%dei casi) si è registrato un aumento di produttività che non fosse associato a una forte capacità di esportare. Questo ci chiarisce come sia difficile per la Cina, dal momento che l’export cinese mondiale ha raggiunto il 13 per cento e la domanda estera di beni cinesi è arrivata anch’essa al traguardo e associato a questo si rileva una diminuzione dei consumi.

E’ dunque necessario agire in favore di “un cambiamento strutturale”, come indicato dal rappresentante del Commercio Robert Lighthizer, ma senza bloccare quel meccanismo che ha da sempre contribuito alla crescita mondiale, che è fondato sul commercio estero e sugli investimenti nei settori di esportazione.

Danilo Turco

Le guerre commerciali con i loro risultati

Usa e Cina, con la controversia innescata fra i due Paesi, con le sanzioni minacciate, darebbero vita a un gioco pericoloso sia per i due Paesi e sia, per gli scambi internazionali.
Si paventa che le mosse del presidente Trump in materia di politica commerciale potrebbero sfociare in una disputa fuori controllo (Financial Times), visto che gli Stati Uniti colpiscono i settori strategici in cui la Cina sta cercando di crescere, sia in termini di quota di mercato globale che nel livello tecnologico, seguendo la dottrina “Manufacturing 2025” voluta da Xi Jing Ping. Una strategia questa che a stretto giro potrebbe non portare bene, visto che a novembre negli Stati Uniti si vota per il rinnovo di metà Camera e Senato, per cui alcune industrie e stati americani potrebbero essere particolarmente colpiti dalla ritorsione cinese. Quindi, appare difficile trovare spazi di ottimismo per una risoluzione consensuale della suddetta controversia.
Nel momento in cui le sanzioni minacciate dovessero attivarsi, la posta in gioco appare troppo alta per entrambi i paesi per cui anche nel commercio internazionale sembra valga il detto “se vuoi la pace, prepara la guerra” e attualmente si è in attesa dell’annuncio di una nuova rappresaglia cinese, senza comprendere dove questa insensata guerra commerciale condurrà il sistema degli scambi commerciali internazionali, il principale motore della crescita economica mondiale.
Danilo Turco

Mercato del lavoro e quarta rivoluzione industriale

La quarta rivoluzione industriale rischia di dividere il mercato del lavoro tra privilegiati con un lavoro adeguato e stipendio commisurato e  precari in percorsi di carriera discontinui e mansioni dequalificate con bassi salari.

Sono per questo giunte da più parti proposte per attenuare gli effetti negativi di questa rivoluzione tecnologica. Tassare l’innovazione o i robot (come proposto da Bill Gates) o trasformare il mondo fatto da persone che vivono di sussidi (reddito di cittadinanza), sarebbe meglio aiutare i lavoratori a rimanere tali (proposta di Obama). Da qui l’importanza di misure attive per la prevenzione o la compensazione del reddito come programmi di formazione permanente, prestiti a lungo termine a fini di riqualificazione professionale con programmi di assicurazione sui salari.

La U.S. Bureau of the Census Displaced Workers Survey mostra che nel 2013-15 i lavoratori Usa spiazzati da globalizzazione e tecnologia sono stati 3,2 milioni, più del 2 per cento degli occupati americani. Due terzi di questi hanno ritrovato un lavoro nel gennaio 2016  (53%) e guadagna più o meno lo stesso reddito di una volta, mentre il 47% si è trovato a guadagnare di meno. Se la disoccupazione è causata dalla tecnologia e riguarda lavoratori esperti, occorrono strumenti di compensazione di reddito che durino nel tempo, più dell’indennità di disoccupazione, operando come strumento di assicurazione/rassicurazione sociale.

Il governo italiano sembra prendere sul serio queste idee. Nella legge di bilancio 2018 ci sono due articoli che destinano risorse a piani di integrazione salariale per accompagnare ristrutturazioni aziendali e la ricollocazione di lavoratori presso altre aziende. Nell’articolo 19 si stanziano fino a 100 milioni di euro annui per prorogare l’intervento straordinario di integrazione salariale nel caso di processi di riorganizzazione aziendale particolarmente complessi per gli investimenti richiesti e per le scelte di reintegro occupazionale. Nell’articolo 20 (comma 4) il lavoratore che accetta l’offerta di un contratto di lavoro con un’altra impresa viene esentato dal pagamento dell’Irpef sul Tfr, oltre al diritto a ricevere un contributo mensile pari a metà del trattamento straordinario di integrazione salariale che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto con l’articolo 19. Per il datore di lavoro è previsto il dimezzamento dei contributi previdenziali (fino a 4.030 euro su base annua). Sono i primi passi nella direzione giusta ed equa.

Danilo Turco

Riforme fiscali Usa e EU

Molti si chiedono se la riforma fiscale di Trump avrà conseguenze anche in Europa. Diverse sono le misure che l’UE potrebbe adottare per mitigare/annullare il vantaggio competitivo USA, fatto che genererà di certo la concorrenza fiscale fra i Paesi.

La riforma fiscale americana prevede la deducibilità immediata, non in più periodi d’imposta, del costo di determinati beni strumentali per i prossimi cinque anni, con l’effetto di escludere da tassazione il rendimento normale del capitale investito; un’altra disposizione introduce anche un regime agevolativo di tassazione (il cosiddetto patent box) per i redditi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali, al 13,125%. Conseguenza di questo è che la deduzione immediata dei componenti negativi di reddito può attrarre investimenti esteri in immobilizzazioni materiali negli Usa; d’altro canto, il patent box può incoraggiare lo spostamento dei profitti derivanti dallo sfruttamento delle opere di ingegno negli Stati Uniti. Ambedue le suddette disposizioni possono preoccupare i principali Paesi dell’UE, per la eventuale perdita di posti di lavoro e di gettito fiscale. A questo, una possibile reazione potrebbe essere un allineamento al ribasso, l’adozione di regole simili. Per esempio, il Regno Unito ha già annunciato la riduzione dell’aliquota dell’imposta sulle società dall’attuale 19 al 17 per cento entro l’aprile del 2020 e il patent box al 10 per cento.

Alcuni partner commerciali degli Stati Uniti, come Francia, Germania e Italia, potrebbero applicare la disciplina delle Controlled Foreign Companies alle controllate estere domiciliate negli Stati Uniti. Il regime statunitense prevede un sussidio (aliquota del 13,125 invece del 21%) che è direttamente legato al reddito dalle esportazioni ed è quindi incompatibile con le disposizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio in materia di sussidi vincolati alle esportazioni. Come già avvenuto in passato, la UE impugnerà tali disposizioni in seno all’Omc e, probabilmente, vincerà. Di conseguenza, sotto la minaccia di sanzioni, gli Stati Uniti saranno costretti ad abbandonare il patent box e si inasprirà l’attuale livello di concorrenza fiscale internazionale, producendo il rimpatrio degli utili delle controllate estere esentasse delle multinazionali Usa, per spostarli in paesi con un’aliquota inferiore al 21%. A tutto questo potrebbe seguire un incentivo a localizzare investimenti e lavoro nei Paesi europei a bassa tassazione.

Danilo Turco

I cento e uno anni del National Park Service americano

29La storia narra che i Parchi nazionali americani nacquero grazie al batterio della tubercolosi, con una legge dell’agosto di cento anni fa, quando ad un canadese emigrato nel Missouri, Galen Clark, fu diagnosticata la tubercolosi ed i medici gli diedero pochi mesi di vita;  egli a quel punto lasciò famiglia e l’umidità del Midwest per partire alla volta della California, intenzionato a morire, come disse, nella magnificenza vergine del West. Si fermò tra le sequoie della Sierra Nevada e, all’ombra di quelle imponenti conifere, cominciò a tempestare il Congresso e il Presidente Lincoln con petizioni per strappare quella foresta ai taglialegna e ai cercatori d’oro. Ci riuscì.

Dalla valle delle sequoie, embrione di quello che sarebbe divenuto il complesso ed enorme sistema dei Parchi nazionali americani, la legislazione a tutela di quella natura ancora intatta venne formalizzata nel 1916. Cento anni più tardi il seme gettato in California ha dato vita ad una nazione dentro la nazione, con la sua confederazione di parchi, laghi, foreste, praterie e  monumenti naturali che copre un territorio più vasto dell’intera Italia e che da sempre ha rappresentato il background del mito americano, nel cinema, nella letteratura e nella musica.

Il National Park Service degli States che compie cento anni costa al governo solo 3mld di dollari l’anno e ne rende quasi 30mld in biglietti d’ingresso, dimostrandosi una delle poche attività pubbliche in attivo dell’economia USA. Un colossale affare per l’avaro zio Sam, tenuto assieme da 22mila ranger professionisti (affiancati in alta stagione da 200mila volontari), quelli dal cappello verde oliva a tesa larga diventati un simbolo assieme agli orsi Yoghi e Bubu grazie ai cartoni di Hanna e Barbera. Troppo pochi (rispetto ai numeri del nostro paese, certamente) per tenere sotto controllo un territorio immenso, nel quale solo uno dei parchi, ad esempio, il Wrangell St.Elias, in Alaska, può tranquillamente inghiottire la Svizzera. Eppure enormemente rispettati, non solo perché c’è una legge federale che punisce con la morte chiunque uccida un ranger, ma anche per il compito che essi rivestono e per quello che custodiscono; scrisse Mark Twain dei Parchi nazionali, quando si concesse 3 giorni di campeggio solitario nello Yellowstone, in Wyoming: “sono per l’America quello che le grandi cattedrali sono per l’Europa. Monumenti scavati dalla collaborazione fra il tempo, la natura e il popolo. Insieme con lo skyline di Manhattan, la baia di San Francisco e il colonnato palladiano della Casa Bianca nient’altro dice “America”!”.

Un patrimonio che può rendere più dei dollari così tanto amati dagli americani, come scoprì Galen Clark, condannato a morte dalla tubercolosi a 30 anni e che morì a 90 anni salvato dagli alberi che lui aveva salvato.

Rossella Marchese

Cina: un orizzonte commerciale dal profilo più preciso

 

Le esportazioni commerciali cinesi sono aumentate. La Cina sta giovando di una favorevole congiuntura internazionale e della ripresa della domanda a livello globale.
Secondo le statistiche pubblicate il 13 Aprile dall’amministrazione delle dogane, a marzo le esportazioni commerciali cinesi hanno subito un forte incremento (pari al 16,4% su base annua). Questa crescita – la più forte da due anni – rappresenta una novità positiva insieme al tono più conciliante che il Presidente degli USA sembra voler adottare con Pechino.
Una ripresa della domanda a livello globale è segnalata dall’aumento degli scambi commerciali cinesi non solo con i Paesi emergenti, ma anche con gli Stati Uniti e con l’Europa (i suoi due principali partner commerciali). Secondo il centro studi Oxford Economics, nel primo trimestre 2017, il commercio mondiale sarebbe cresciuto con un ritmo, il più veloce da sei anni. Inoltre anche le importazioni continuano sensibilmente ad aumentare (+ 20,3 %) soprattutto nei settori del petrolio e del ferro.
Durante il primo trimestre, il PIL cinese sarebbe aumentato del 6,8% (con lo stesso ritmo dell’ultimo trimestre 2016 secondo gli economisti sondati da Reuters). E’ probabile che le esportazioni cinesi continuino a giovare di una migliore domanda mondiale nei prossimi mesi secondo Louis Kuijs (Oxford Economics). L’incontro fra Trump e il Presidente cinese Xi Jinping – dello scorso 6 e 7 aprile in Florida – ha contribuito a ridurre la tensione e i rischi commerciali.
Tuttavia, permangono ancora dei fattori destabilizzanti per la Cina. Il Presidente statunitense è disponibile a un compromesso se Pechino contribuisce a risolvere il problema della Corea del Nord. Trump e Xi (dopo l’incontro) si sono accordati sull’istituzione di un piano di 100 giorni per sviluppare delle soluzioni per le loro controversie commerciali (soprattutto il cronico deficit commerciale che gli USA registrano rispetto alla Cina). In che modo, però, le autorità cinesi ancora non lo hanno affermato. Pertanto, in Cina, il commercio estero rimane ancora un settore complesso e ricco di fattori potenzialmente destabilizzanti.

Danilo Turco

Trump e lo “spettro della deglobalizzazione”

L’editoriale “Le fantasme de la démondialisation” pubblicato il 14 novembre dal quotidiano francese Le Monde, evidenzia come la rivoluzione tecnologica e il fenomeno della delocalizzazione del lavoro continueranno indipendentemente da chi considera il successo elettorale di Donald Trump un segnale premonitore della fine della globalizzazione.

Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha denunciato gli svantaggi della globalizzazione. Brexit ha vinto grazie ai voti delle regioni della Gran Bretagna colpite dalla deindustrializzazione in parte imputabile alla delocalizzazione. Pertanto, i partiti europei di estrema destra (come Front National in Francia) interpretano la vittoria di Trump come un segnale della fine della globalizzazione.

La propaganda del nuovo presidente USA ha sfruttato una realtà già nota da diversi anni: la globalizzazione ha ridotto le ineguaglianze tra il Nord e il Sud del globo, ma con le delocalizzazioni – soprattutto in Cina divenuta l’atelier del mondo – ha depauperato molti territori europei e americani. Tuttavia anche la rivoluzione tecnologica ha contribuito allo smantellamento dei vecchi bacini d’impiego. Infatti, il progresso tecnologico favorisce la delocalizzazione più dell’ideologia della globalizzazione.

L’impatto della vittoria di Trump produrrà negoziazioni più dure tra gli Stati del Nord e quelli del Sud e più acri battaglie sulle condizioni di concorrenza. Probabilmente Trump non sosterrà i due principali trattati di liberalizzazione commerciale – quello con l’Asia e con l’Europa – proposti da Obama. Tuttavia, l’idea di un ritorno al passato basato sul rimpatrio del lavoro rappresenta un’illusione. L’incremento di tariffe proibitive sulle importazioni cinesi e messicane verso gli Stati Uniti scatenerebbe una guerra commerciale e la perdita milioni di posti di lavoro in America e in Europa. Ancor più devastanti potrebbero essere gli effetti di una deglobalizzazione.

 

Danilo Turco

 

 

La lunga notte americana, sotto il tetto di cristallo

Doveva essere una notte storica per l’America e per il sogno americano: dopo il primo Presidente afro, una donna in cima al mondo, oltre il tetto di cristallo.

Invece la lunga notte americana ha portato ad un’alba ben diversa da quella che i media, i giornali, i sondaggisti di mezzo mondo ed il Partito Democratico americano avevano prospettato da 19 mesi a questa parte.

Il MidWest americano, la cosiddetta pancia dell’America, composta da quel ceto medio bianco ed impoverito dalla crisi economica, ha consegnato il paese nelle mani dell’imprenditore Donald Trump, che sarà investito del mandato dai Grandi Elettori il prossimo 12 dicembre.

Mr Trump “vince” la Presidenza degli Stati Uniti d’America conquistando stati roccaforte per i democratici e per l’Obama-pensiero, quali Pennsylvania, Iowa, Ohio, Wisconsin, Michigan; non è una vittoria di misura, bensì una sconfitta schiacciante per la sua avversaria, ancora più bruciante perché Mrs. Hillary Clinton non è riuscita a portare dalla sua quella parte delle minoranze afro e latine, delle donne e dei giovani millenials, che 8 anni fa si mobilitarono sull’onda dell’entusiasmo del “YesChange”, facendo la differenza per Barak Obama.

È finito un ciclo, quello rappresentato dalla lotta alle disuguaglianze sociali, dal sostegno diretto dello stato all’industria, dagli accordi per l’istruzione estesa e per la tutela pubblica della salute.

Inizia una nuova fase, all’insegna del protezionismo economico, della riduzione delle tasse per i più ricchi, delle grandi opere pubbliche a sostegno dell’occupazione e del laissez faire in politica estera.

Ma non è soltanto la vittoria del candidato repubblicano a sconvolgere l’opinione pubblica di mezzo mondo, o il brusco cambiamento voluto dagli americani che hanno scelto di pensare a se stessi e al lavoro, e meno agli affari esteri, all’ambiente o ai diritti sociali, ciò che più lascia perplessi è l’incapacità della classe politica e dei veicolatori di informazione a leggere la realtà ed interpretare i segnali di una società statunitense totalmente spaccata. Mr. Trump non incarna soltanto un voto di protesta o il desiderio degli americani di guardarsi l’ombelico, a dispetto di una globalizzazione che, probabilmente, non significa nulla per i suoi elettori, quest’uomo fuori dall’establishment (e neppure tanto se si conta la sua smisurata ricchezza) è la risposta che i cittadini spaesati e non allineati hanno trovato all’incertezza e alla paura.

Così come per Mr. Trump, anche le risposte cercate nel “Leave” inglese, nel “Front National” francese, o nel “Movimento5Stelle” italiano, possono essere lette come risposte di un Occidente che ha bisogno di trovare nuove vie espressive alle proprie manifestazioni di esistenza, che magari esulano dalle tradizionali strutture partitiche e di potere.

È necessario imparare a leggere questa società fluida e capire questi scossoni di isolazionismo che si propagano costantemente dall’Europa all’America e ritorno diventa assolutamente necessario, per uscire dalla bolla di vecchie convinzioni in cui politica ed informazione si sono infilate e colmare il gap che le stacca dai cittadini.

 

Rossella Marchese

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