In Grecia, affinché una festa iniziasse, era essenziale che fosse dispensato il vino. “Perché attendere le lampade? Di luce, oramai, resta soltanto un dito: prendi le grandi coppe decorate. Dioniso, il figlio di Semele e di Zeus, ha fatto dono agli uomini del vino, oblio di mali. Mischia una parte d’acquae due di vino, riempi le coppe, brinda…”. Ciò scrive Alceo di Mitilene.
Più tardi, nella seconda metà del VI secolo a.C., Anacreonte di Teo rammenta l’importanza del vino nei fatti di cuore: “Porta l’acqua, ragazzo, porta il vino, porta i fiori in ghirlanda, porta tutto. Io voglio fare a pugni con Amore.” Anacreonte, sapientemente, dimostra consapevolezza che del vino si può fare cattivo uso. Infatti, colui che esagera, rischia di risultare osceno, fastidioso, sgradevole.
Non bisogna eccedere: “Su, ragazzo, presto, porta una coppa: unisci dieci mestoli d’acqua, cinque di vino. Desidero fare un baccanale ma con misura. Non voglio rumori né schiamazzi. Non facciamo una bevuta alla maniera degli Sciti! Piccoli sorsi in mezzo a canti belli.”
Esisteva, orbene, un galateo del vino in terra greca: misure, dismisure, cerimoniali ed etichette da seguire, compresa la codifica della sregolatezza.
Asserisce Teognide: “E’ così buono il vino ma chi si ubriaca non mi piace.” Il che non significa, ovviamente, che si debba rinunciare al piacere di bere: “Chi nel bere ha misura non è cattivo, è buono.” Teognide ne desume una morale: “Per gli uomini sta tra due brutti estremi il Bene: sete che spossa e sgradevole ubriachezza. Starò nel mezzo: non mi convincerai a bere troppo ma neppure a non bere.”
Per i greci il focus è la misura… Del resto, pure oggi, la raccomandazione è: bere con moderazione!
Per gli antichi bisogna saper bere: keránnumi vino con acqua, condividerlo con gli altri, centellinarlo e giammai ingollarlo, consci che sia il mezzo con cui calibrare la propria capacità di self control.
I protagonisti dei poemi omerici e, successivamente, la lirica simposiale si inebriano della dolcezza del frutto della vite. Dioniso con baccanti e satiri girovaga, eccitando con il vino.
Con il vino si invocavano le divinità, connettendo l’uomo con il soprannaturale, si assumevano deliberazioni, si ratificavano accordi, si solennizzava un evento di gran peso, si accoglievano gli ospiti.
I romani trasformano il sym-posion in convivium: dalla “bevuta collettiva” ad un momento beato di vita comune, abbattendo la rigida cesura tra il momento del bere e del mangiare. Analogie e differenze che l’autrice evidenzia con abilità stilistica e competenza storico-cronologica.
Certo è che pure a Roma le circostanze ed i frangenti per brindare al meglio venturo erano innumerevoli; quest’oggi come secoli fa, magari accompagnando l’auspicio con un sorso di vino. Le cenae creavano l’occasione e rappresentavano l’attimo in cui si gradiva alzare i calici in onore di una persona presente al rendez-vous. In Latino, le bollicine si esaltavano con Vivas, “Che tu viva!” od anche Bene tibi, “Bene a te!”.
Di prammatica, il brindisi, quale segno di rispetto ancorché atto di deferenza per la padrona di casa, echeggiava così: Bene dominae, “Ogni bene alla padrona!”.
Sono noti, grazie a Marziale, anche brindisi più complessi ed elaborati, vagamente enigmistici ed oltremodo galanti: alle donne corteggiate si ergeva il calice tante volte quante fossero le lettere del nome.
Cinque bicchieri si bevano per Levia
otto per Giustina
quattro per Lica
e quattro anche per Lide
e per Ida tre.
Tanti bicchieri siano per ciascuna,
quante sono le lettere del nome.
Marziale, Satire, 1, 71
Per nomi come Agrippina o Messalina l’omaggio certamente diveniva più impegnativo da sostenere!
Libro gradevolissimo, la cui conclusione cita quell’ars amatoria in cui il vino è “complice ideale degli amori clandestini”.
Giuseppina Capone